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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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giovedì 16 febbraio 2017

IL LASCITO DI MICHELE ALLA SUA GENERAZIONE di Norberto Fragiacomo




IL LASCITO DI MICHELE ALLA SUA GENERAZIONE
di
Norberto Fragiacomo




La lettera d’addio del “precario” (così, un po’ semplicisticamente è stato etichettato da molti giornalisti) udinese, rilanciata con qualche imbarazzo dai media nazionali, non lascia indifferente il lettore, già oscuramente turbato dal fatto che quelle parole – meditate e soppesate a lungo, è evidente - provengono da un altrove, dal “paese inesplorato dal cui confine nessun viaggiatore ritorna” .
La voce è quella di un trentenne, nato al crepuscolo di un’età dell’oro presto mutatasi in età di ferro, ed è una voce limpida, chiara e al tempo stesso sideralmente distante, che – in epoca di analfabetismo da cellulare – si esprime per di più in un italiano corretto, nient’affatto banale. Le emozioni cozzano fra loro, mentre la lettura procede: c’è compassione per chi è stato condotto a una decisione estrema; rispetto per un giovane che dimostra una dignità e una capacità di analisi non comuni; un certo, inevitabile sgomento di fronte alla lucidissima rivendicazione di un diritto a scegliere che, una volta esercitato, preclude qualsiasi ulteriore scelta. Ecco: il tratto caratterizzante è una desolata, raggelante lucidità.

 Il testo di Michele, pieno di affermazioni che condivido, si configura nel suo complesso come un’unica, potente negazione, ed è dunque assai di più di una solitaria e disperata protesta.
Leggiamolo attentamente 

Quello del giovane friulano non è semplicemente lo sfogo rabbioso di chi sta per gettare la spugna, l’ammissione di un fallimento esistenziale (si veda il passaggio sull’amore non corrisposto) oppure una vibrante invettiva contro il precariato e il politicante di turno: è piuttosto una requisitoria che, pur contenendo tutti questi elementi, li amalgama e li trascende, puntando dritta al cuore di un sistema che viene denunciato come costruito sulla menzogna e intrinsecamente corrotto/maligno – dunque irriformabile.

In questo senso parlavo di una negazione, e qui aggiungo l’aggettivo “radicale”: il precariato non riguarda solamente il lavoro nelle sue molteplici forme, ma assurge a regola generale, senza eccezioni, cui tocca uniformare la nostra grama esistenza. Michele svela la nudità di un re(gime) che si ammanta di democrazia, diritti civili e buoni sentimenti (“sono stufo… di sentirmi dire che la sensibilità è una grande qualità. Tutte balle. Se la sensibilità fosse davvero una grande qualità, sarebbe oggetto di ricerca. Non lo è e non lo sarà mai, perché questa è la realtà sbagliata, è una dimensione dove conta la praticità che non premia i talenti, le alternative, sbeffeggia le ambizioni, insulta i sogni…”) mentre, nella realtà, si traduce in un meccanismo di sfruttamento spietato e disumano, una catena di montaggio che, anno dopo anno, procede a ritmi sempre più serrati, insostenibili per l’essere umano. Si coglie un’assonanza con la logica dello “scarto” di cui tanto spesso parla papa Francesco: ben lungi dall’assurgere a “fine in sé”, nell’Europa dell’austerità iperliberista il singolo individuo è nient’altro che uno strumento da impiegare finché serve e di cui, venuta meno l’utilità, è buona prassi disfarsi a piacimento.
Il giovane friulano di questa involuzione ha chiara coscienza, e assegna alla propria vicenda umana, alla propria inevitabile sconfitta un significato esemplare, paradigmatico, non senza lanciare uno sguardo su un futuro allucinante: “… le cose per voi si metteranno talmente male che tra un po’ non potrete pretendere nemmeno cibo, elettricità o acqua” (lo smartphone però sarà sempre alla portata, soggiungo io, in quanto mezzo infallibile per controllare masse di tecno-lotofagi). Questa profezia, che giudico assolutamente realistica, è il lascito alla sua generazione di un ragazzo che si prepara al congedo definitivo.

L’amarissima conclusione della  lettera (1) sarà fraudolentemente descritta da qualcuno come una resa: non lo è. Si arrende chi accetta il ricatto di un mondo presentatoci come “l’unico possibile”, sottomettendosi alle sue logiche – il giovane grafico, al contrario, rivendica la sua scelta di libertà, dice di no al sistema con l’unico strumento che ritiene di avere a disposizione. In questo specifico caso il suicidio (un suicidio quasi  rituale (2) è l’antitesi di una resa a discrezione. La vera alternativa sarebbe consistita nella lotta, ma “non ci sono le condizioni per impormi, e io non ho i poteri o i mezzi per crearli”.
Come in “Padri e figli” di Turgenev, siamo fermi alla fase della negazione: la negazione della negazione è esplicitamente dichiarata impossibile.
Malgrado ciò, questa critica alle fondamenta del sistema attuale disorienta, crea sconcerto – nell’élite, ma non solo: anche in chi si ingegna a tirare avanti rinunciando al lusso di troppe domande. Si cerca pertanto di circoscrivere sin dal primo istante la portata del messaggio, enfatizzando taluni aspetti marginali (i colloqui di lavoro infruttuosi ecc.) e contrapponendo al “pessimismo” di Michele la positività di certi suoi coetanei, prontamente scovati e intervistati dai media. Dal punto di vista della comunicazione, il risultato è controproducente: la soddisfazione di una ragazza che gongola per un tirocinio triennale in un negozio di animali, definito addirittura un posto “importante” (!), suona come involontaria conferma della tesi esposta nella lettera e induce noi, che abbiamo qualche lustro in più, a un inevitabile confronto con un passato non lontanissimo. Venti anni fa uno studente uscito da un liceo o dall’università considerava il “posto fisso” alla stregua di un diritto: oggi un lavoro interinale è visto da molti come una vincita al lotto.
Da molti, ma non da tutti; e anche quei molti scemeranno di numero, quando la quotidianità si incaricherà di provare che in un mondo senza tutele una paghetta (ben che vada) da mille euro non compra il necessario per vivere.
L’acquisizione di una più piena consapevolezza delle contraddizioni esistenti può recare in sé il seme del futuro: per poter cambiare il mondo bisogna prima imparare a interpretarlo.



1Non posso imporre la mia essenza, ma la mia assenza sì, e il nulla assoluto è sempre meglio di un tutto dove non puoi essere felice facendo il tuo destino.”

2 Mi vengono in mente Jan Palach e certi personaggi di Mishima.





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