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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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domenica 27 marzo 2016

AUTOBIOGRAFIA di Norberto Fragiacomo

 
 Son nato in via Felluga, sora un cole
‘ndove che iera negozieti e verde

(po i ga serado tuto, ma in compenso

su carpini e robinie sona ‘l pichio

co l’anima disbrato int’el boscheto

e ‘l remitur de la zità se studa).

Son nato un giovedì de primavera

ne l’ano de la nuvola de fumo

che ga impinido ‘l ziel, stremindo tanto

‘sto mondo picinìn, rimpianti e osmize:

Trieste mia sbarufante e senza pase!

più in terlis che no ‘desso, nei setanta

(pantigane in Cavana, smir sui muri),

ma meno imbalsamada, ‘ncora viva:

manovai che ‘ndava in piaza, lota iera

p’el posto de lavor, la dignità;

osti e poeti de boèm, pitori estrosi,

el Giaguaro e i anarchisti, Cecovini,

marantighe de gusto e de cultura;

fioi de tranvieri i studia in facoltà.

Pareva che, con tute le magagne,

basti esser seri e bravi per rivàr:

“o medico o avocato!”, nono Nino

magnandome coi oci ‘l me scoltava,

e in quela picia Cinquecento blu

cantavimo “do rose in un pitèr”.

Per quatro anèti fin che ‘na matina

i me ga dito che no ‘l iera più.

Iera za otobre e dentro la cusina

ricordo un fia de luse, spenta come,

e i albori de fora cuci e fiapi.

El picio biondo in foto no ‘l sa rider.

Sbiadì ne la memoria ‘l primo giorno

de le ancèle, un grembiulìn celeste,

el cortil griso e qualche mulo sempio.

Mi preferivo star co’ le putele,

ma quele aste e fileti, che rotùra!

Volevo leger Quizzy e i dinosauri,

tra i mocolosi iero solo e perso,

po co’ mia nona su al Ferdinandéo

fazevo giri cauti in bicicleta,

bramando una copèta de gelato.

O forsi iera dopo, no so dirve,

co mia sorela iera za grandeta;

teròr dei detersivi go in’amente,

velen che maza e me fa sbater i oci!

A scola finalmente la scoperta

de la goduria che te dà un bel libro,

se de storia o de guera festa dopia!

Per suor Carmela prometevo tanto;

me dispiasi però p’el pianoforte

che ‘desso strimpelassi volentieri.

Elementari, medie, superiori:

medaie de cartòn, una drio l’altra!

Ma ‘l cruzio xe le babe che no vedi

che son omo meo de altri, no un biflòn.

Se zerca la rivincita slucando

goti de nero garbo in via Risorta,

stimandose gran poeti, gente ganza,

cascando lenti in fondo de un bicèr.

Incanfararse per ciapar do slepe,

crolar su una panchina in riva al mar:

più monagine che rivoluziòn.

Cussì passavo i ani senza cresser.

Nel studio no ghe meto ssai passiòn,

ma l’amor propio me strassina ‘vanti:

dotòr a ventiquattro, co’ la lode

che incornisada la me ciol in giro

co’ incocalì me sveia la matina.

Uficiàl de la marina? un carnevàl,

guardie per finta, qualche bon locàl

fra ‘l Conero e Loreto, zo in Ancona;

partide se non altro de balòn.

La gioventù me dribla e scampa via.

El pezo rivarà drento un uficio

che par roba de Kafka o de Gogòl.

Servi una laurea per andà’ in canòn?

Articoli ben scriti un tre quadreti,

magro compenso de giornade svode

che do oci de putèla, qualche volta,

come un lusòr traversa a san Lorenzo.

Concorsi senza fine e senza senso

spergiura un’evasiòn che no sarà,

che no i ga fato ‘l mondo no per noi,

magari storti, ma in zenocio mai,

che un prete sia a pretenderlo o sia un siòr.

Xe triste che no son bastanza sgaio,

ma gnanche mona e xe la vera crose.

Ormai go anorum, semo in conclusiòn,

né bel né bruto e in aparenza calmo.

Bon o cativo? Resta un gran mistero,

de quei che te compagnerà a Sant’Ana.

Ma forsi ogni bilancio ‘l xe ilusiòn,

perché ognidùn de noi xe tuto e gnente,

comparse, ombre che se credi ‘l sol,

ceri impizadi in furia co fa bora –

che intanto subia e la scolto rapì.



sabato 26 marzo 2016

GISELA: LA FRECCIA ED IL MOSTRUOSO di Angela Rizzica





GISELA: LA FRECCIA ED IL MOSTRUOSO
di Angela Rizzica





Il nome Gisela ha di per sé un’origine incerta ed altrettanto incerto è il suo significato. Per alcuni deriva dal termine germanico gisil, freccia; per altri è un diminutivo dei nomi Adalgisa, Gismonda o Gisa comunque aventi la stessa radice e riconducibili al significato di “eroina” e di “campionessa”.
Certo è che sempre di guerra si tratta, sempre sembra evocare gesta eroiche e d’altri tempi. Ed è strano che, per determinati individui, il proprio nome sembri predire la storia personale quasi come se nel momento stesso in cui viene imposto, Làchesi venisse facilitata nel lavoro di dispensatrice di destini. O almeno così è stato per Gisela Mota, trentatré anni, nata e cresciuta a Temixco, ridente cittadina dello stato messicano di Morelos. E sempre nella sua amata cittadina ha trovato la morte, trucidata a colpi di arma da fuoco. 

Non stiamo parlando dell’ennesimo caso di cronaca nera, di femminicidio, di un marito geloso o di un fidanzato disperato per la fine di una relazione. Parliamo di una donna che ha fatto della lotta ai narcotrafficanti la sua freccia, e della elezione a sindaco della città il suo arco. Gisela era stata eletta il 1° gennaio del 2016, dopo una vincente campagna col suo partito (il Partido de la Revolución Democrática, PRD, ndr.) incentrata sulla lotta al narcotraffico, da sempre piaga dello stato di Morelos, ancora e nonostante tutto terra di nessuno in mano ai cartelli della droga, in mano ai “Guerreros Unidos”. 
Questi rappresentanti del “Potere del Cane”, per dirla alla maniera di Don Winslow, hanno atteso poche ore dall’inizio del suo mandato per coglierla di sorpresa in casa e ridurla in brandelli. A nulla è servito l’intervento della polizia, che comunque è riuscita ad uccidere due dei sicari e ad arrestarne altri tre di cui un 18enne ed un minore a riprova di come la criminalità, in alcuni ambienti, sia diluita nel latte materno. Ma non voglio soffermarmi su quello che potrebbe essere letto come un semplice, scontato e sterile fatto di cronaca. 

venerdì 25 marzo 2016

TAXI DRIVER di Riccardo Achilli



  


TAXI DRIVER
di Riccardo Achilli



La notte è calda e umida. Ma dall’asfalto appena bagnato dalla pioggia, come a voler dissolvere l’abbraccio appiccicoso dell’afa,sale un odore fresco. E’ come una liberazione, come se l’aria fosse stata interamente ripulita, come se si ricominciasse di nuovo, mondati da tutto, dai peccati, dagli errori, dal peso del passato. 
La macchina scivola sull’asfalto lucido come un battello su un mare completamente pacificato. Il motore ronfa in sottofondo, mentre le luci della sera corrono sul parabrezza come lucciole. 
E’ per queste sere, dove tutto sembra in equilibrio magico, è per sere così che vale la pena di vivere. Vale la pena di uscire, anche se per lavorare. Strade che si accumulano a strade, incroci, le luci dei semafori che occhieggiano, clienti che salgono e scendono, due ragazzi che tornano dalla discoteca e limonano nel sedile posteriore, un bengalese ubriaco, il padre di famiglia che si è concesso una notte in sala giochi, gli occhi spenti del sogno sfuggito di mano. La ragazza che esce dal suo turno al night club, i capelli arruffati che raccontano una storia molto più triste del suo sorriso pieno di fard. 
 La fauna della notte. Gente che forse di giorno non si fa nemmeno vedere. Che esiste solo nelle ombre sfuggenti e nelle pallide luci della notte. Per confondersi nella sua oscurità, senza la quale non potrebbero vivere. 
Il tassametro scatta, distraendomi dai miei pensieri. La sigaretta vola fuori dal finestrino, disegnando una parabola quasi perfetta. Quasi, niente nelle notti per le quali vale la pena respirare può essere perfetto. 
All’improvviso, la notte emette un profondo sospiro di vento. Il calore umido sembra scendere verso il mondo come un mantello, schiacciandolo sotto il suo peso, come una condanna, come se non ci fosse via d’uscita, come se tutta la fragile armonia della notte si fosse distrutta, sbriciolandosi sotto l’incombenza di ciò che è necessario. Come se non ci fosse redenzione, come se niente potesse essere ricominciato, come se non esistesse la seconda possibilità. E di nuovo tutto si mescola  in un turbinio di sigarette, fermate, ripartenze, parole, strade su strade, fino a perdere il senso di una direzione, fatica scandita dal tassametro che gira. Restituendo l’immagine di un caos senza uscita possibile. 
Accendo la radio per spezzare l’incantesimo. La voce squillante di un Dj mi colpisce come uno schiaffo. Riemergo dal torpore nel quale stavo cadendo. Ho bisogno di un caffè. Le luci di un bar baluginano come un faro, dentro la nebbia di calore ed umidità che impasta il cielo, i palazzi e la terra in una unica mediocrità, in un unico grigio. Come un naufrago, mi ci dirigo. Senza altra speranza che una momentanea tregua. 


 

giovedì 24 marzo 2016

FLUIDITA', COSCIENZA DI CLASSE E PARTITO DEL PROLETARIATO DIFFUSO di Lucio Garofalo






FLUIDITA', COSCIENZA DI CLASSE E PARTITO DEL PROLETARIATO DIFFUSO
di Lucio Garofalo




L’immagine dell’elettorato “fluido” e della politica “fluida” che proviene dal movimento grillino, riflette la condizione concreta del moderno proletariato.
Essa segna il superamento della vecchia forma della politica con le sue istituzioni, liturgie, gerarchie, richiamando alla mente un caso storico di enorme rilievo: la jaquerie, ovvero i sanculotti della Rivoluzione francese, nel corso della quale non scaturì un partito organico, ma un movimento di massa in cui non era possibile il cristallizzarsi di ideologie sistematiche, ma un’aperta competizione di idee e proposte che il movimento popolare valutava imponendo la sua volontà alla stessa Convenzione nazionale.

Anche la Rivoluzione d’Ottobre ebbe la sua “fluidità” nel corpo sociale del giovane proletariato russo, una fluidità che trovò espressione politica nei Soviet, dove la competizione delle idee portava a massicci spostamenti di delegati dall’uno all’altro orientamento, e nelle campagne, dove l’iniziativa diretta dei contadini liquidò senza una direzione ufficiale i latifondi feudali.
La dinamica del conflitto di classe è il motore della storia e quando essa si manifesta ed agisce sembra non aver bisogno di “mosche cocchiere”.
Gli esegeti del “partito”, inteso come demiurgo ed attore della storia, spesso occultano tale fatto e si sforzano di presentare le cose all’inverso (“senza partito, niente rivoluzione”), negando il contenuto reale della storia, cioè che per agire le masse non necessitano di alcuna gerarchia di partito.

lunedì 21 marzo 2016

IL REFERENDUM DEL 17 APRILE SULLE TRIVELLAZIONI IN MARE: DOVE SONO I PALADINI DELLE PROSSIME GENERAZIONI? di Maurizio Zaffarano






Il PD: il partito dei bugiardi seriali


Il prossimo 17 aprile siamo chiamati a votare nel referendum sulle trivellazioni in mare destinate alla ricerca ed allo sfruttamento dei giacimenti di gas e petrolio nei tratti di mare sotto costa.
Ciò su cui andremo “tecnicamente” ad esprimerci riguarda la possibilità che le concessioni attualmente attive per lo sfruttamento di giacimenti di gas e petrolio entro le dodici miglia marine dalla costa possano continuare ad operare anche dopo la scadenza delle concessioni fino all'esaurimento dei giacimenti. Se prevarranno i SI questa possibilità sarà esclusa, se vinceranno i NO o non verrà raggiunto il quorum necessario a rendere validi i referendum (la partecipazione al voto del 50% più uno degli aventi diritto) tale possibilità verrà mantenuta.
E' coinvolto in effetti un piccolo numero di piattaforme estrattive, con un modesto apporto al fabbisogno energetico nazionale e gli effetti del referendum si avrebbero (in base alla durata delle singole concessioni) non prima di cinque o dieci anni: dunque nessun shock petrolifero all'orizzonte e nessuna prospettiva di licenziamenti di massa.
Per capire cosa c'è in ballo (è evidente che il valore simbolico e politico del referendum va ben oltre il quesito in essere) è necessario fare un po' di cronistoria. Tutto nasce con lo Sblocca Italia, la legge con cui Renzi pianifica la devastazione definitiva dell'ambiente con un incontrastato e criminale via libera alla cementificazione, agli inceneritori e alle trivellazioni nei tratti di mare sotto costa.
In soldoni distruggere l'Italia, compromettere la salute dei cittadini, far fallire vitali attività economiche locali (nel turismo, nella pesca, nell'agricoltura) per i profitti di pochi mascherando il tutto con la promessa della crescita del PIL (se va bene qualche frazione decimale in più).

Di questa follia autodistruttiva, di questa eutanasia di una Nazione le trivellazioni sotto costa rappresentano l'aspetto paradigmatico: un Paese a vocazione turistica e che ha nell'agro-alimentare uno dei punti di forza della propria economia acconsente ad un pugno di multinazionali, anche con l'uso di tecniche devastanti per la fauna marina e a cui si imputa di provocare terremoti (airgun), a cercare sotto costa gas e petrolio, con risibili incassi finanziari per lo Stato e trascurabili effetti sul fabbisogno energetico nazionale, per alimentare un settore produttivo, quello dei combustibili fossili, di fatto ormai senza futuro. E anche se ciò comporta compromettere l'integrità e la bellezza di coste e spiagge e far ammalare i cittadini.
Un progetto talmente insensato che ha costretto, alla luce delle numerose richieste di concessione riguardanti tutti i mari italiani, persino nove Presidenti di regione del PD e della Lega a promuovere i referendum per dire no a questa parte dello Sblocca Italia. 
Di fronte alla mobilitazione popolare (si ricordi la manifestazione NoOmbrina del 23 maggio 2015) e alla possibilità di una sconfitta al referendum, Renzi - così attento agli umori della piazza e al proprio consenso (e la salute e l'ambiente sono temi popolari!) - è stato costretto ad una parziale marcia indietro. Con l'ultima legge di stabilità modificando le norme dello Sblocca Italia riguardanti le trivellazioni sotto costa ha disinnescato i referendum lasciandone in piedi furbescamente solo uno: quello appunto relativo alla proroga delle concessioni già in atto. La tattica renziana è palese: aspettare che il referendum, svuotato dei contenuti più inaccettabili per i cittadini (le nuove trivellazioni), fallisca con il mancato raggiungimento del quorum per poi riproporre le norme contestate in tempi migliori (e la volontà di privatizzare la gestione dell'acqua appena è stato possibile, essendo decorsi cinque anni dal referendum, indica chiaramente la direzione in cui si muove) con l'alibi che la maggioranza dei cittadini non si è pronunciato sulla questione. Dalla sua parte ha evidentemente tutta la grande stampa e le tv espressioni del potere economico nonché la Rai, quella del “servizio pubblico” e a cui va versato l'obolo del canone nella bolletta elettrica, che diligentemente agiscono per oscurare il referendum e diffondere disinformazione a pieni mani. Il mancato accorpamento con le prossime amministrative è l'altra mossa di prammatica per chi vuole impedire la possibilità che si esprima la volontà popolare (e per un bugiardo seriale non conta nulla che ciò smentisca precedenti dichiarazioni al riguardo e che significhi, in un Paese dove persino la carta igienica nelle scuole se la devono portare gli studenti da casa, 300 milioni di euro gettati al vento).

Renzi e l'acqua pubblica by Luca Peruzzi


Il referendum del 17 aprile conserva però un fondamentale valore simbolico e politico. Ciò su cui siamo chiamati realmente ad esprimerci è se come Paese dobbiamo rassegnarci alla distruzione dell'ambiente e all'attentato alla salute delle persone a favore del profitto di pochi, alla privatizzazione dei beni comuni, alla dittatura delle multinazionali (anzi nel caso delle trivellazioni nei mari italiani, come scrive Maria Rita D'Orsogna, di qualche banda di avventurieri), ad una politica energetica che perseveri nella dipendenza suicida dai combustibili fossili anziché puntare tutto sulle rinnovabili e a quanto di positivo questa scelta comporterebbe in termini di tutela ambientale, salute, qualità della vita, occupazione, ricerca, indipendenza energetica nazionale, equilibrio dei conti con l'estero, democratizzazione della produzione di energia mettendo fine alla schiavitù del rubinetto in mano a pochi soggetti.

La questione delle trivelle mi suggerisce però una ulteriore riflessione. L'argomento principe con cui, da Mario Monti in poi, si è giustificata l'austerità (aumento delle tasse, riduzione della spesa pubblica e anzitutto della spesa sociale) come unico orizzonte possibile è che la priorità assoluta per il Paese doveva essere ridurre il debito per non lasciare tale fardello sulle spalle delle prossime generazioni.
Ma dove sono i “paladini” delle prossime generazioni quando si parla di ambiente? Esiste un dovere maggiore verso chi verrà dopo di noi di preservare l'ambiente, di dire basta alla cementificazione del territorio, di contrastare e ridurre l'inquinamento atmosferico, di riconvertire la produzione e la distribuzione delle merci affinché si riesca ad evitare di restare completamente sommersi dall'immondizia, di conservare il paesaggio e il nostro patrimonio artistico ed archeologico? Chi sbandierava e sbandiera il futuro delle prossime generazioni, come alibi delle decisioni politiche antisociali e antipopolari, sono gli stessi delle grandi opere inutili e devastatrici, del consumo di terreno agricolo con il cemento e l'asfalto della speculazione edilizia, delle autostrade deserte, dell'EXPO, dell'inquinamento atmosferico cancellato per decreto aumentando i limiti consentiti delle sostanze tossiche e cancerogene nell'aria, dell'imminente dittatura incontrastata delle multinazionali attraverso il TTIP, dello Sblocca Italia.

Siamo di fronte ad una ipocrisia, ad una attitudine alla truffa intellettuale e alla menzogna senza limiti: sull'ambiente come sull'economia.
Le politiche di pareggio di bilancio rappresentano infatti una bestialità in termini di risultati economici: far crollare la domanda interna con l'austerità significa ridurre la produzione di ricchezza (quella che viene grossolanamente ed arbitrariamente misurata con il PIL) e dunque aumentare l'incidenza, in termini relativi ed assoluti, proprio del debito pubblico.
Quello che ci hanno spiegato gli economisti non a libro paga del grande potere economico è che uno Stato non funziona come un singolo individuo o una famiglia che deve spendere nei limiti delle proprie entrate.
La spesa pubblica finanziata attraverso il debito o stampando denaro attiva le potenzialità del sistema produttivo, è trasferimento di ricchezza verso i cittadini addirittura anche quando viene sperperata nella corruzione e negli sprechi e tanto più quanto è impiegata in modo efficiente ed equo in investimenti e spesa sociale. La spesa a deficit e il debito pubblico sono la normalità nella vita degli Stati purché questi mantengano la sovranità sugli strumenti per governare la moneta, che non si facciano legare mani e piedi dalla speculazione finanziaria, che riescano a mantenere in equilibrio i conti con l'estero.
Quello che viene indicato come il furto dei vecchi a danno dei giovani – condizioni di lavoro e retribuzioni dignitose, la sanità pubblica, la pensione in un'età che non preceda immediatamente la morte, l'istruzione superiore e l'università accessibile ai più – è proprio quello che ha consentito ai giovani di vivere meglio di chi li ha preceduti ed anzi se ancora oggi, nonostante il precariato e la disoccupazione, non sono alla fame e possono continuare ad accedere in larga parte alla maggior parte dei beni di consumo è proprio grazie ai risparmi accumulati da genitori e nonni.
Il futuro dei giovani e delle prossime generazioni non è messo a repentaglio dal debito pubblico ma al contrario da un sistema capitalistico che accentrando totalmente il monopolio della ricchezza e della produzione della ricchezza nelle mani di pochi (questo è il liberismo) determina disoccupazione e precariato, il non poter accedere a scuole e università di qualità, il non potersi curare adeguatamente in caso di bisogno, il non poter progettare la propria esistenza, il non poter avere una casa a costi ragionevoli per conquistare autonomia e indipendenza dalla propria famiglia, il non potere sperare in una pensione dignitosa da vecchi. E che queste stesse cose vengano contemporaneamente tolte ai propri genitori e ai propri nonni, che ad essi vengano negate persino cure e assistenza, non è una consolazione ma un ulteriore danno.
I risultati delle politiche di “contenimento” del debito pubblico sono sotto gli occhi di tutti: deindustrializzazione e colonizzazione economica (“gli investimenti esteri”) dell'Italia, la stagnazione del Paese a fanalino di coda a livello mondiale nella ricerca scientifica, l'esplosione della disoccupazione e della povertà unitamente alla precarietà, il contemporaneo aumento della mortalità e la diminuzione della natalità, milioni di italiani che non hanno più la possibilità di curarsi, la rinuncia di massa a seguire studi universitari.

Per quanto mi riguarda è passato il tempo in cui mi illudevo che con il voto si potesse cambiare la realtà delle cose ma comunque non voglio rinunciare alla possibilità di gridare ciò che considero giusto e razionale per il bene di tutti. Dunque il 17 aprile andrò a votare e voterò SI: per il presente e il futuro dell'Italia, contro Renzi, contro la dittatura del Capitalismo “l'economia che uccide”.
 
 
 



domenica 20 marzo 2016

IN DIFESA DELLA SCUOLA PUBBLICA di Lucio Garofalo





IN DIFESA DELLA SCUOLA PUBBLICA 
di Lucio Garofalo



Nella mia carriera professionale mi sono imbattuto soprattutto in due tipologie di dirigenti. La prima categoria, forse la più diffusa nel mondo della scuola, è quella del preside “hitleriano”, o dispotico, che tratta l’istituzione in modo autocratico e verticistico, scambiando l’autonomia scolastica per una tirannide individuale e stimando i rapporti interpersonali in termini di supremazia e subordinazione.
Questa figura di preside non ama affatto le norme e le procedure democratiche, scavalca gli organi collegiali ed assume ogni decisione in maniera arbitraria e discrezionale senza consultare quasi mai nessuno. Costui si pone sempre in modo arrogante, protervo ed autoritario, dimostra (intenzionalmente, oppure istintivamente) un cipiglio severo e spietato per intimorire e mettere in soggezione gli altri. Abusa spesso dei propri poteri e tende a commettere facilmente angherie e soprusi verso i sottoposti, trattati alla stregua di sudditi privi di ogni diritto ed ogni libertà, con i quali si comporta in modo inclemente.

venerdì 18 marzo 2016

MOBY PRINCE: UNA FERITA LUNGA VENTICINQUE ANNI di Riccardo Achilli








MOBY PRINCE: UNA FERITA LUNGA VENTICINQUE ANNI
di Riccardo Achilli





Fra meno di un mese sarà il venticinquesimo anniversario della tragedia del Moby Prince. Alle 22.25 del 10 aprile 1991, il traghetto Moby Prince, della compagnia Navarma di Onorato, appena salpato dal porto di Livorno con 141 persone a bordo, diretto ad Olbia, va a colpire di prua, a tutta velocità, il fianco della petroliera Agip Abruzzi, nel cono di uscita del porto. Lo sfondamento del serbatoio 7 della petroliera riversa sul ponte del Moby 300 tonnellate di petrolio. A contatto con il ponte surriscaldato dall’energia cinetica dell’impatto, il petrolio prende fuoco in un gigantesco rogo. L’equipaggio raduna i passeggeri nel salone “De Luxe”, dotato di paratie ignifughe e porte tagliafuoco. Ma i soccorsi, inspiegabilmente, tarderanno moltissimo, troppo, ad arrivare. Benché il punto dell’incidente fosse vicinissimo alle banchine del porto, la motovedetta della Capitaneria localizzerà lo scafo del traghetto soltanto un’ora dopo, alle 23.35. I passeggeri scampati alla morte per carbonizzazione, ivi compresi quelli concentrati nel salone De Luxe circondato da un alone di fiamme, moriranno per asfissia da fumi tossici.

NO alla maternità surrogata: basta NI di Giuliana Nerla





NO ALLA MATERNITA' SURROGATA: BASTA NI
di Giuliana Nerla




La maternità surrogata non è una novità del nostro tempo, al contrario è una pratica molto antica. Lo scorrere dei secoli ha squadernato a più riprese, sotto i cieli più disparati, casi di donne che hanno portato in grembo figli per le classi più agiate. Nel Vecchio Testamento si narra che Abramo chiese alla serva Hagar, “surrogata ante litteram”, di portare il figlio in vece della moglie Sara. Sono sempre state le donne più povere, o le schiave, a partorire al posto delle più ricche, mai il contrario. Il superamento di questa pratica è stato una conquista di civiltà, non lo è certo legalizzarla.

La surrogazione della maternità oggi consiste nell’impiantare un embrione nel corpo di una donna, che si impegna contrattualmente a portare avanti la gravidanza e a consegnare il figlio ad una coppia committente dopo il parto. Questa pratica è chiamata in vari modi fra i quali “utero in affitto” o “gestazione per altri”; useremo indifferentemente queste espressioni, anche se la locuzione migliore è surrogazione della maternità (non a caso adoperata dallo stesso legislatore nella L. 40/04) perché più fedele a quanto effettivamente avviene. Il periodo della vita della donna interessato è infatti largamente esteso: tutta la gravidanza fino al parto e alle prime cure del neonato dopo la nascita, nonché il recupero post-partum. “Surrogazione di maternità” suona fastidiosa a quanti preferiscono definizioni che fanno riferimento solo alla gestazione o all’utero, per rintracciare un presunto legame con slogan femministi tipo “L’utero è mio...”. Quest’assunto è evidentemente infondato perché non vi è alcun nesso fra le battaglie fatte per l’autodeterminazione, con la mercificazione insita in questo tipo di pratica.

giovedì 17 marzo 2016

PANORAMA MINIMO di Norberto Fragiacomo





PANORAMA MINIMO 
di Norberto Fragiacomo 




Giornata fredda, azzurra e ventosa, che già si arrende alla sera.
Camminando in mezzo al verde, soccombo alla tentazione di tracciare al volo bilanci in perdita. Quello personale, anzitutto: mai avrei immaginato, da bimbo, un futuro grigio topo come il mio presente. Un mese fa, a Roma, ho sostenuto la quinta e ultima prova di un concorso a tempo indeterminato, che come un’edera si avvinghia all’esistenza quotidiana dal lontano 2010 (bando pubblicato nell’autunno 2009). Ne sono uscito con onore, direi: risultati sensazionali all’inizio (prima manche: 2010-13), più che dignitosi alla fine (seconda manche: 2015-16). Mi correggo: non ne sono ancora uscito, dal momento che – a conclusione di due impegnative tornate concorsuali – le prospettive di effettivo impiego restano evanescenti, ipotetiche. Si trattava di diventare segretari comunali, ma d’improvviso, a primavera 2014, una slide renziana cancella la figura, sopravvissuta nei secoli ad annessioni territoriali, rivolgimenti e riforme. Cancella? Forse le cambia soltanto l’abito, promuovendola (o retrocedendola) a “dirigente apicale”… un dirigente dal ruolo nebuloso, dalle competenze tutte da scrivere. Fino a due anni fa il percorso di carriera era pianificabile, oggi l’iscrizione all’Albo – ma resterà l’Albo? Chissà… - sarà il primo, timoroso passo in una terra incognita. Non più segretari, dunque, ma neppure in prima battuta dirigenti e, di conseguenza, men che meno apicali. Forse ci toccheranno due anni da “funzionari”, in aggiunta a quelli che abbiamo quasi tutti alle spalle, ma su mansioni, trattamento e possibile destinazione il mistero resta fitto: che ne sarà di pubblici fantasmi - né dirigenti né segretari, né questo né quello - abilitati per comuni fino a 3.000 abitanti a fronte di una disciplina che sembra imporre ai piccoli enti l’esercizio della funzione in forma associata? Cerco sollievo nella disciplina regionale in gestazione, e il mio umore peggiora: la bozza menziona fuggevolmente i “colleghi” di fascia A e B, sui C non spende mezza parola. Indegni di “dirigere” e finanche di esistere, nonostante l’accesso alla carriera (?) sia condizionato al superamento di esami scritti ed orali al cui confronto i concorsi per dirigenti pubblici degradano a provette da terza media.

martedì 15 marzo 2016

GIOVANNINO VA A... "LA MERICA" di Sara Palmieri






 GIOVANNINO VA A... "LA MERICA"

di Sara Palmieri



Giovannino salì sul bastimento appeso alla gonna della sorella.
Non aveva mai visto un porto, né una barca così grande e neppure tante persone insieme.
Uomini, donne e bambini, intere famiglie coi sacchi in spalla e i vestiti dimessi o laceri, che cercavano di salire sul barcone e guadagnare un posto per accucciarsi a terra o, perfino, per rimanere in piedi, rassegnati alla lunga traversata, ma determinati a sostenerla perché, se c’è la salute e le gambe buone e il posto in cui si è nati è avaro, bisogna pur trovare il coraggio di vivere, di cambiare la propria condizione.
Cogli occhi sgranati, Giovannino si guardava intorno incontrando gli sguardi di altri bambini come lui, stretti ai pantaloni o alle gonne di qualcuno.
Da quando i genitori erano morti, non aveva che sua sorella e, insieme, l’unica cosa che possedevano era il futuro, che - a pensarci bene - non è poco, così Maria aveva deciso di metterlo a frutto, partendo per terre lontane, ma più generose di quelle in cui erano nati.
Una volta in viaggio il mare non aveva più l’orizzonte breve del loro paesello, si era espanso ed era divenuto immenso; si alternarono notti e giorni in cui era in tempesta e faceva paura con quelle onde alte che sovrastavano perfino il bastimento; poi c’erano i giorni di calma e le sue acque azzurre, ora sfiorate, ora attraversate dai raggi del sole, riportavano serenità e fiducia fra passeggeri ormai provati, ma ansiosi di quell’approdo, per quanto sconosciuto.
Giovannino non sapeva contare e non saprà dire neppure in seguito quanti giorni durò quel viaggio; saprà solo dire che fu lungo, quasi infinito, che aveva avuto il tempo di farsi qualche amico e di trascorrere qualche ora di gioco sotto l’occhio premuroso di Maria; che il pane che si erano portati era finito presto e che solo grazie ad alcuni compagni di viaggio erano riusciti a sostentarsi.
Avevano sentito di altri bastimenti partiti per La Merica, quella del nord, ma Maria aveva scelto quella del sud perché il clima è più simile a quello dell’Italia e la gente pure e le terre sono così grandi, ma così grandi, che possono accogliere tutti e a tutti dare un lavoro e una casa, una vita finalmente degna di questo nome.
Del Brasile, Maria, aveva sentito parlare da altri compaesani che già c’erano andati, che là avevano fatto fortuna e avevano potuto mandare denari a casa e perfino delle fotografie in cui posavano con pagliette candide, begli abiti e capelli impomatati.
Il viaggio fu più lungo dell’immaginabile, un’odissea senza pause e senza distrazioni.
Sembrava non finisse mai e Giovannino cominciò a pensare che forse gli toccava di vivere per sempre su quel bastimento, anzi peggio.
Lo scoramento si impossessò del suo cuore e inutili diventarono le rassicurazioni della sorella. Neppure i giochi con gli altri bambini, in verità divenuti rari e ripetitivi, riuscivano più a distrarlo ed aveva preso ad immaginare onde cattive che lo risucchiavano in fondo al mare, tra pesci giganti, con fauci spalancate e denti aguzzi.
Si ricordò di quella storia che Maria gli aveva letto una sera, faticosamente, alla luce di una lampada fioca, scandendo bene ogni vocabolo.
Non sapeva dire come il libro fosse arrivato a casa sua, ma il racconto era affascinante, almeno così gli era sembrato mentre lo ascoltava tra le mura comunque confortanti della sua stanza, prima di addormentarsi, disteso in un letto, nel suo letto.
Parlava di un vascello e di mostri marini dai tentacoli lunghi e avviluppati che cercavano di mandarlo a fondo.
L’aveva scritto un tale che si chiamava… Giulio…sì, Giulio Verne e forse – pensò durante il viaggio Giovannino – questo Giulio non se lo era proprio inventato!
Forse si era trovato su un barcone simile al suo e il mostro l’aveva visto per davvero.
Insomma quella storia, nell’attuale circostanza, gli sembrò terribilmente realistica.
Si disperava tra le braccia di Maria e la notte era preda di incubi che lo costringevano a svegliarsi tra i singhiozzi.
Sei un uomo – lo esortava Maria – e gli uomini non piangono!”
Ma Giovannino si sentiva solo un bambino e non gli sembrava più una bella trovata quella della sorella di andare a La Merica e poi a fare cosa che non si sapeva nemmeno che faccia avesse questa La Merica e cos’era quella parola “futuro” che Maria usava di continuo e che gli era venuta a noia, che sembrava bella e potente, ma anche cattiva e piena di trappole.
Il futuro è oggi – rifletteva Giovannino - al massimo è domani e saremo ancora su questa barca!”
Quando furono al limite delle forze fisiche e dello sconforto morale – lo era anche Maria benché facesse la coraggiosa - una mattina, all’improvviso, con un gran rumore e un gran fumo dallo stantuffo del bastimento, e poi con un bagliore, comparve La Merica.
Evviva, guardate, siamo a Porto de Santos – urlò qualcuno.
Il porto dei Santi – tradusse di getto Maria, sollevando il fratello e dandosi arie da competente.
Se ci sono di mezzo dei Santi – pensò di rimando Giovannino – allora si può stare tranquilli!”
Quei passeggeri, stanchi, provati, affranti, furono distratti dalle rare faccende della mattinata e si voltarono, d’un tratto, a guardare, tutti, nella stessa direzione, per scorgere – mano alla fronte e cuore grosso - quella riva densa di promesse, ma anche di incognite, cercando di immaginare ciò che finalmente si palesava.
Ma, dal mare, si capiva solo che era una terra grande: due immensi bracci di cemento si facevano sempre più vicini e a Giovannino parvero le braccia di una mamma.
Di colpo si sentì forte, proprio come un uomo vero.
Con le sue gambe magre scese dal bastimento, determinato a prendere il futuro per la collottola. 

 

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