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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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sabato 30 maggio 2015

LA COSTITUZIONE E’ UNA VARIABILE INDIPENDENTE? di Norberto Fragiacomo




LA COSTITUZIONE E’ UNA VARIABILE INDIPENDENTE?

La sentenza n. 70/2015 della Corte Costituzionale sul blocco delle pensioni: una pronuncia e tanti commenti fuori tema
di
Norberto Fragiacomo





Partiamo dall’oggettività, cioè dal dato normativo nudo e crudo.

L’articolo 134 della Costituzione recita: “la Corte Costituzionale giudica sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni”; il successivo articolo 137 incarica il legislatore di stabilire – con legge costituzionale – “le garanzie di indipendenza dei giudici della Corte” (1° comma) e sancisce che “contro le sentenze della Corte non è ammessa alcuna impugnazione” (3° comma).

Quindi, senza scendere troppo nello specifico, enucleiamo tre concetti chiave: la Corte verifica la costituzionalità delle leggi, cioè la conformità ai principi e alle norme espressi dalla Carta Fondamentale, non la loro opportunità/necessarietà/utilità; l’indipendenza dei giudici della Corte è un valore da preservare, una garanzia ordinamentale; le sentenze emesse sono definitive e incontestabili.

E’ consentito criticare le sentenze della Consulta? Assolutamente sì: ogni cittadino può avvalersi del diritto, concessogli dall’articolo 21, di esprimere liberamente il proprio pensiero – chi scrive, ad esempio, ha spesso biasimato certe rese all’esecutivo e alle pretese della dittatura economica, specie in giudizi che contrapponevano lo Stato centrale agli enti territoriali. In quelle occasioni, a parer mio e di altri commentatori, la Corte ha volontariamente rinunciato a un po’ della sua indipendenza, inchinandosi alle ragioni della Realpolitik – deviazioni non imprevedibili, vista l’eterogenea composizione del collegio e i suoi obbiettivi legami col mondo politico (v. l’art. 135).


Diversa è l’ipotesi in cui alla Consulta si imputa non di essersi fatta influenzare, ma l’esatto contrario: di aver deciso una controversia senza tener conto di sollecitazioni esterne e presunte “necessità storiche”, valutando solo l’elemento giuridico del rispetto della Carta – di essere stata indipendente, in ossequio a quanto la Costituzione prevede. Se poi l’accusa proviene da altro potere dello Stato (il Governo, naturalmente appoggiato dalla manovalanza giornalistica) la faccenda è ancor più grave, perché segnala una rottura degli equilibri costituzionali, una pericolosa invasione di campo.

Alludo, lo si sarà compreso, al bailamme, anzi al sabba infernale scatenatosi intorno alla sentenza n. 70/2015, quella sul blocco biennale della “rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici”, decisa, a fine 2011, dall’esordiente Governo Monti per tutti i “fortunati” percettori di assegni superiori a “tre volte il trattamento minimo INPS” (la miseria di 1.405,05 euro lordi al mese).

La questione di costituzionalità, ovviamente, non se l’è inventata la Consulta: fu posta, oltre che dal Tribunale di Palermo, da ben due Sezioni giurisdizionali della Corte dei Conti, quella dell’Emilia Romagna e quella ligure.

Tutti i rimettenti lamentavano, in primis, la violazione degli articoli 3 (principi di uguaglianza e ragionevolezza), 36 (principio per cui il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata a quantità e qualità del suo lavoro, e in ogni caso sufficiente ad assicurare a lui e alla famiglia una vita libera e dignitosa) e 38, secondo comma (“I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di (…) vecchiaia”); in secondo luogo, degli articoli 2, 23 e 53, in quanto il prelievo assumerebbe carattere di prestazione patrimoniale di natura tributaria, “in violazione del principio di universalità dell’imposizione a parità di capacità contributiva”, perché gravante sui soli pensionati. La Corte dei Conti emiliana, infine, ipotizzava anche una violazione dell’articolo 117, primo comma, in relazione alla CEDU e alla Carta di Nizza (UE), mescolate un po’ oscuramente.

In effetti, l’ultimo argomento viene liquidato dalla Consulta in poche righe, visto che lo sbrigativo “richiamo alla CEDU si rivela, nella sostanza, erroneo”. Non miglior fortuna incontra la censura concernente la natura sostanzialmente tributaria della prestazione. Confermando un proprio consolidato orientamento, la Corte ribadisce che tre sarebbero gli elementi indefettibili della fattispecie tributaria: la decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo deve assumere carattere di definitività, non deve modificare un preesistente rapporto sinallagmatico e – da ultimo – le risorse reperite dall’erario devono essere destinate dalla legge alla copertura di pubbliche spese. Nel caso di specie, farebbero senz’altro difetto il primo ed il terzo elemento, per cui la questione risulterebbe infondata. Davvero manca “il requisito che consente l’acquisizione delle risorse al bilancio dello Stato”? Siamo nel campo dell’opinabile (in fondo, le entrate tributarie provenienti da imposte finanziano le spese pubbliche in maniera indifferenziata), ma l’importanza pratica della decisione scema alquanto alla luce dell’accoglimento della prima obiezione, cui i giudici della Consulta dedicano un esame approfondito, di cui è opportuno richiamare alcuni passaggi, riassumendone altri.

La Corte procede ad un excursus storico dell’istituto della perequazione automatica, introdotto dalla Legge 903/1965 e più volte oggetto di interventi legislativi. Dall’esame delle norme si evince, sotto un profilo sistematico, che “la disciplina generale che si ricava dal complesso quadro storico-evolutivo della materia, prevede che soltanto le fasce più basse siano integralmente tutelate dall'erosione indotta dalle dinamiche inflazionistiche o, in generale, dal ridotto potere di acquisto delle pensioni” e che, di conseguenza, gli assegni più elevati possono essere oggetto di minori garanzie. In concreto, viene fatto un paragone tra la misura esaminata – che “congela” per due anni tutte le pensioni superiori a 1.400 euro circa – e l’articolo 1, comma 19, della Legge 247/07, che aveva limitato (per un anno) l’azzeramento temporaneo della rivalutazione ai trattamenti superiori a otto volte il minimo, definiti “particolarmente elevati”. La Corte rammenta che proprio l’agevole sostenibilità del sacrificio da parte di pensionati oggettivamente benestanti determinò la pronuncia di una sentenza di rigetto (la n. 316/2010), che conteneva però un monito finale: “dev’essere, tuttavia, segnalato che la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, ovvero la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, esporrebbero il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità (su cui, nella materia dei trattamenti di quiescenza, v. sentenze n. 372 del 1998 e n. 349 del 1985), perché le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta.”

Nella vicenda esaminata a distanza di cinque anni le cose stanno in maniera differente, dato che “la norma oggetto di censura si discosta in modo significativo dalla regolamentazione precedente. Non solo la sospensione ha una durata biennale (anziché annuale); essa incide anche sui trattamenti pensionistici di importo meno elevato”, mettendo oggettivamente a repentaglio il potere d’acquisto di milioni di (ex) lavoratori appartenenti alle fasce deboli della popolazione. Più che sui “diritti quesiti” – di cui si riempiono la bocca i commentatori mainstream (quasi tutti ultrabenestanti, sia detto per inciso) e che, tuttavia, nel testo non sono evocati manco per sbaglio – l’accento viene posto sul rischio di un irrimediabile impoverimento dei soggetti incisi, rischio che diviene certezza se si considera, come fanno i giudici, che “ogni eventuale perdita del potere di acquisto del trattamento, anche se limitata a periodi brevi, è, per sua natura, definitiva. Le successive rivalutazioni saranno, infatti, calcolate non sul valore reale originario, bensì sull'ultimo importo nominale, che dal mancato adeguamento è già stato intaccato.”

E’ ben vero che al legislatore va riconosciuta ampia discrezionalità politica nelle scelte, ma tale discrezionalità – argomenta la Corte – non può tradursi nell’accantonamento dei principi costituzionali di proporzionalità e ragionevolezza, specialmente se ci si limita, come fece la maggioranza montiana di allora, a richiamare genericamente la «contingente situazione finanziaria», senza che emerga dal disegno complessivo la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi.”

Un mezzo suggerimento diluito in un giudizio – comunque - tranchant? Non lo escluderei, visto e considerato che la sentenza è passata a strettissima maggioranza – le conclusioni sono comunque nette e ineccepibili: “l’interesse dei pensionati, in particolar modo di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo consequenziale il diritto a una prestazione previdenziale adeguata. Tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio. Risultano, dunque, intaccati i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (art. 36, primo comma, Cost.) e l'adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.). Quest'ultimo è da intendersi quale espressione certa, anche se non esplicita, del principio di solidarietà di cui all'art. 2 Cost. e al contempo attuazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all'art. 3, secondo comma, Cost.

Cos’ha dunque di “anomalo” questa sentenza? Da un punto di vista strettamente giuridico, nulla: è chiara, completa (si veda l’esauriente ricostruzione storica della disciplina della perequazione), adeguatamente motivata. Il problema per qualcuno sta proprio in questo: è troppo giuridica, troppo poco politica.

Come scrivevo all’inizio, si rinfaccia alla Corte di aver… fatto il suo lavoro, cioè di aver agito da tecnico indipendente. Gli attacchi, infatti, non si sono appuntati sul merito della decisione, bensì, potremmo dire, sulla sua “cornice” – e sono stati attacchi sbracati, in certi casi vere e proprie intimidazioni. Passi per le insulse lamentazioni della coccodrilla in fuorigioco, che seguita a piangere sull’altrui latte versato, ma le piccate osservazioni del Ministro Padoan, secondo cui la Consulta avrebbe dovuto valutare “l’impatto economico della sentenza” ed urgerebbe “un dialogo di cooperazione (??) tra organi dello Stato indipendenti, come Governo, Corte, Ministri e Avvocatura dello Stato (quest’ultima non è affatto indipendente, NdR)”, rappresentano altrettante negazioni dello Stato di diritto e del secolare principio della tripartizione dei poteri, vecchio e – di conseguenza – in via di pensionamento (senza perequazione). Il consigliere giuridico di un ex Presidente della Repubblica è andato persino oltre, affermando che “la sentenza è sbagliata dal punto di vista politico (sic!)”; quanto al premier, ha sfoggiato i soliti trucchi da illusionista da baraccone, prima inventandosi un codicillo alla pronuncia e ipotizzando una restituzione parziale (ai più poveri: lui è il Robin Hood dell’Arno, visto che distribuisce gli 80 euro “di sinistra”), poi facendo melina in attesa delle regionali, che gli auguro di cuore di straperdere. Della canea giornalistica, Repubblica e Corsera in testa, non merita parlare: qualcuno ha agitato il sospetto, facile ad attecchire, che i giudici della Consulta abbiano pensato anzitutto alle loro ricche pensioni, ma l’esame del testo contraddice questa malignità.

Le uniche voci levatesi a difesa della Consulta (e dei rimasugli di democrazia) hanno trovato ospitalità su “Il Fatto Quotidiano”: ricordo un’analisi puntuale dell’ottimo Marco Palombi e un’intervista a Stefano Rodotà (28 maggio), che notava preoccupato come “nei confronti della Corte costituzionale ci siano pressioni: mi auguro che la Consulta abbia la forza, come è capitato altre volte in passato, di respingere pressioni e minacce.” Quanto alle insinuazioni/accuse di far politica, l’anziano giurista sgombra con schiettezza il campo da equivoci creati ad arte: “Non c’è alcun dubbio che quando al Corte dichiara incostituzionale una legge interviene su ciò che la politica ha fatto: è nella sua natura, se non lo facesse dovrebbe chiudere bottega. Proporre questa obiezione mi pare il segno di un malessere culturale.”

Più che il malessere culturale, evocherei la malafede, che comunque è uno dei tratti caratteristici dell’attuale sistema pseudo democratico, innalzato come una muraglia a difesa degli interessi economico-patrimoniali delle lobby finanziarie occidentali. L’insofferenza nei confronti dei presidi democratici non è una peculiarità italiana: abbiamo già dimenticato quanto costò a George Papandreou l’abbozzo di idea su un referendum – istituto democratico per antonomasia – a proposito dell’austerity imposta dalla Troika alla Grecia?

Personalmente resto pessimista, non ritenendo che una solitaria rondine giuridica possa essere annunzio di primavera in un cielo costantemente plumbeo. Tra qualche tempo la Consulta sarà chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale del blocco degli stipendi pubblici, in vigore dal 2010 e destinato a protrarsi per sempre. Giuridicamente la soluzione è elementare, anche perché la Corte l’ha già trovata: “la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo esporrebbero il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità, perché le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta”. Sostituite “pensioni” con “stipendi” e il gioco è fatto, gli articoli della Costituzione interessati sono i medesimi, l’esigenza di conservare il potere d’acquisto di retribuzioni in gran parte modeste pure. Lo stop alla “perequazione” (contrattuale) per i dipendenti pubblici, poi, magari fosse biennale: è sine die!


Di cosa terrà conto la Corte, della paventata voragine nei conti pubblici (12 miliardi) o di quanto sta scritto in Costituzione? Sogno con Rodotà che la Consulta abbia la forza di respingere pressioni e minacce.






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