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giovedì 18 dicembre 2014

LA CRISI ECONOMICA RUSSA: A CHI CONVIENE E QUALI SONO I RISCHI di Riccardo Achilli





LA CRISI ECONOMICA RUSSA: 
CHI CONVIENE E QUALI SONO I RISCHI
di Riccardo Achilli




Tanto tuonò che piovve. Sono anni, direi dall’esplosione, ancora irrisolta, dell’intera area caucasica a partire dal 1991 (e che ha avuto nel primo conflitto osseto-georgiano, nel conflitto georgiano-abcaso, e nella guerra russo-georgiana del 2008, oltre che nel lunghissimo conflitto ceceno, che ha coinvolto anche l’Inguscezia) che l’Occidente e la Russia stanno combattendo una guerra per la redistribuzione delle aree di influenza. Una guerra che ha coinvolto i Balcani, poi in tempi più recenti la Siria e la Libia, che si è acuita con la crisi economica europea, combinandosi in modo perverso con la tradizionale dottrina tedesca di politica estera dello spazio vitale ad est, che ha trascinato l’Europa intera nella deflagrazione programmata dell’Ucraina.

Era inevitabile che una guerra guerreggiata non tracimasse anche in una guerra economica. Sono mesi che le politiche economiche occidentali stanno alimentando una situazione globale svantaggiosa per gli interessi russi. Ad iniziare dal grande risiko degli oleodotti/gasdotti, con il progetto europeo del Nabucco chiaramente posto come concorrente del South Stream, per proseguire con gli annunci di fine del tapering, che già diversi mesi fa provocarono una fuga di capitali dalle economie emergenti, ivi compresa quella russa. Le sanzioni economiche imposte a seguito della guerra civile ucraina e la distruzione dell’economia cipriota, tradizionale punto di riferimento bancario per i capitali russi, hanno finito di creare il terreno affinché, con il calo molto forte e sostenuto del prezzo del petrolio, l’economia russa entrasse in recessione.


In effetti, la recessione trae origine, oltre che dalla caduta del prezzo del greggio, e quindi del gas naturale, che vi è collegato, anche da una pesantissima svalutazione del rublo, che sta importando inflazione in un Paese che non ha un’industria di sostituzione dell’import. Tale svalutazione è a sua volta alimentata da forti fughe di capitali, indotte dalla tensione con l’Occidente, dalle sanzioni economiche, che hanno costretto le banche e le società finanziarie, per i pagamenti di fine anno, ad acquistare valuta estera contro il rublo, non avendo più la possibilità di chiedere prestiti a banche europee o statunitensi.

La destrutturazione dell’economia russa risponde quindi anche a logiche di guerra, ed a interessi economici precisi, che consistono nel mettere mano agli asset petroliferi ed energetici, ancora fortemente controllati dallo Stato, cioè sostanzialmente a Gazprom ed a Rosneft, ed alle opportunità di privatizzazione del welfare che inevitabilmente Putin dovrà mettere in opera.
Quali saranno le reazioni di Putin? Certamente, pensare che assista inerte allo smantellamento del suo sistema di potere, costruito garantendo, in questi anni, una forte e continua crescita del potere di acquisto del ceto medio urbano del Paese e delle classi popolari, è del tutto illusorio. E probabilmente, si sottovaluta anche lo spirito nazionalista che pervade un Paese che si è sempre sentito investito della missione storica di guidare un impero, con interessi strategici verso il Sud, cioè verso il Caucaso e, in prospettiva, verso uno sbocco sul mare Arabico, uno dei punti centrali della dottrina politica russa, sin dai tempi in cui Stalin proponeva ad Hitler (ancora suo alleato in base al patto Molotov-Von Ribbentropp) di invadere l’Iran e l’Irak attuali, o sin dai tempi dell’espansionismo sovietico in Afghanistan, originariamente una tappa nella marcia verso sud. E con interessi ad est, perché la Russia si è sempre considerata il Paese-faro del mondo slavo.
Interessi alla sopravvivenza politica, nazionalismo diffuso a livello culturale e sociale, necessità di riattivare il complesso militar-industriale a fronte della recessione incombente, così come la necessità di sviare l’attenzione dell’opinione pubblica interna alle prese con un calo già evidente di tenore di vita, non potranno che avere due conseguenze immediate:
-          Una crisi energetica crescente, che già si intravede nella decisione di Putin di abbandonare del tutto il progetto del South Stream (aprendo peraltro una partita diplomatica molto complessa e dai numerosi risvolti con la Turchia, che sarebbe oggetto dell’alternativa progettuale al gasdotto abbandonato, e che viene così sempre più spinta via dall’Europa). Se il prezzo dell’energia non dovesse salire, aumenterebbe la propensione a tagliare le forniture all’Europa, qualora, per l’appunto, i proventi i proventi di tale attività non fossero più sufficienti a garantire la crescita. Si rischia cioè una ritorsione energetica da parte di un Paese spinto a non aver più nulla da perdere nel tagliare il suo stesso export. Un taglio seppur parziale delle forniture energetiche avrebbe infatti conseguenze disastrose su un’economia europea ancora in piena crisi, e che dipende per il 38% circa dalla Russia, per il suo import energetico. Anche perché i fornitori alternativi dell’Asia centrale (Turkmenistan, Kazakhstan, Tadjikistan, ecc.) stanno orientandosi sempre più sul mercato cinese, privando l’Europa occidentale di un fornitore alternativo, mentre la crisi libica continua a rendere le forniture da tale Paese soggette ad un alea;
-          Una possibile risposta militare su micro-scenari regionali, modellata sull’esempio dell’intervento in Crimea. La dottrina militare russa, elaborata nel 2010, sta infatti cambiando proprio in questi mesi, sulla spinta di una crescente identificazione della NATO come avversario principale degli interessi russi. E sta cambiando in direzione di un rafforzamento del controllo presidenziale sull’apparato militar-industriale, e di una strategia fatta di interventi rapidi di piccole forze, di 1.000-3.000 unità, molto ben addestrate ed equipaggiate, che operano come task force relativamente autonome su scenari regionali specifici, mirati ad acquisirne il controllo grazie all’effetto-sorpresa ed a un ambiente politicamente o etnicamente favorevole. Il tutto accompagnato da un rafforzamento di misure di guerra elettronica e cyber terrorismo. Una strategia che sembra più vicina all’idea tradizionale di guerriglia, che non a quella di guerra convenzionale. E che può ottenere risultati molto vantaggiosi, anche in termini di immagine politica, di disarticolazione dei sistemi di comando e controllo nemici, ed anche di conquiste territoriali di prossimità, cioè in aree dove vi sono rilevanti minoranze russofone, o popolazioni che si sentono protette dall’ombrello russo, e che quindi sono disponibili a fornire un contributo alle task force che agiscono da “provocatori” di guerre civili, secessioni o rivolte etniche.

Potrà l’Occidente, sfiancato da una crisi economica irrisolta, da uno sfaldamento dei suoi sistemi sociali, da una prolungata crisi culturale e di identità, che inizia negli anni Ottanta sotto forma di crescente individualismo ed atomizzazione, diviso al suo interno, reggere la sfida militare ed energetica di una Russia che, per quanto in crisi economica, potrà affidarsi al fervore quasi “spirituale” del panslavismo e della missione storica di civilizzazione slava dell’Asia centro-meridionale che pervade, da sempre, la sua storia? Ho i miei dubbi. Da Napoleone in poi, il popolo russo ha sempre dimostrato, quando è sotto attacco, di saper bruciare le riserve di grano ed anche la capitale, se ciò è necessario per fiaccare l’avanzata nemica. Senza contare che la Cina sta alla finestra a guardare, e dallo scontro fra i due colossi, potrebbe risultarne la vera vincitrice.

Probabilmente conviene all’Europa stessa adottare la strada della diplomazia, ad iniziare da una nuova Bretton Woods, che ristabilisca regole comuni di gestione delle politiche valutarie, onde evitare oscillazioni troppo ampie dei tassi di cambio, e riportare il rublo verso valori ragionevoli con la collaborazione di tutte le Banche Centrali, per continuare con un accordo globale sulle forniture energetiche, e quindi con una ridistribuzione delle sfere geopolitiche di influenza, rinunciando all’Ucraina (o quanto meno all’area del Donbass, dove i russofoni sono maggioranza), ed alla folle idea, contenuta nell’ultima riunione della NATO, di portare le forze militari e missilistiche sin sui bordi delle frontiere russe.



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