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sabato 1 novembre 2014

TRA LEOPOLDA E S.GIOVANNI: LE CONTRADDIZIONI DEL PD di Renato Costanzo Gatti






TRA LEOPOLDA E S.GIOVANNI:
LE CONTRADDIZIONI DEL PD 
di Renato Costanzo Gatti



E’ necessario riflettere a fondo su cosa è successo il 25 ottobre 2014, o forse cos’è successo quando si fondò il Pd. In fondo gli equivoci, che oggi sono diventate contraddizioni, sono tutti nell’atto costitutivo del Pd. In quella sede si costituì, sulle macerie della DC e dei DS, un partito che in primis si negò ogni connotazione socialista per approdare alla filosofia dell’economia sociale di mercato, aspetto umanitario e commiserevole dell’economia di mercato di cui smussa le asperità più evidenti.


Tutti i job acts e la legge di stabilità accettando in pieno la filosofia di mercato, prevedono interventi a tutela delle posizioni più infelici cui i lavoratori possono incappare, dalla tutela della maternità all’estensione degli ammortizzatori sociali (anche se poi ne risultano insufficienti gli stanziamenti). Si danno aiuti incondizionati alle imprese ignorando gli insuccessi passati ed affidandosi completamente ai meccanismi del mercato, con una fiducia assoluta alla capacità dello stesso, con gli aiutini dati, di tornare ad essere virtuoso.
Insomma si predispongono strumenti per guarire le ferite inferte dal mercato ma non si risale a curare la causa prima del male, ovvero l’incapacità del mercato, specialmente in questa fase storica, di risolvere i problemi. Si rifiuta qualsiasi politica industriale, qualsiasi progetto di programmazione pur possibile anche con le regole europee. Ricordo che alle elezioni del 2013 solo CGIL e Confindustria presentarono piattaforme di politica economica non in contraddizione ma componibili fra di loro. Nelle due proposte c’era molto interventismo e investimenti pubblici. Sia il governo Letta che il governo Renzi ignorarono completamente quelle proposte avviandosi con fare pietoso ad accompagnare l’agonia del paese.
Anche l’ipotesi di una patrimoniale, che con insistenza la Camusso propone, viene ignorata drasticamente, senza dare una risposta all’andamento dell’indice Gini ed alle conseguenze di una mala distribuzione.


A tutto ciò si aggiunga la dichiarazione solenne del premier di dichiarare defunta la concertazione. Strano che in una economia sociale di mercato non ci sia spazio per la concertazione, e che un governo si assuma in proprio tutta l’iniziativa di guidare il paese, in nome di un decisionismo che ha poco a che vedere con la ricerca della pace sociale.
Ci mancavano poi le manganellate ai lavoratori della FIOM e l’infelice uscita della Picierno sulle tessere false della Camusso e l’esaltazione del decisionismo di quella minus habens della Serracchiani.


Le contraddizioni del Pd sono, a questo punto, insanabili. Si è aperto un solco difficilmente componibile. Una scissione adesso non servirebbe a nulla. La domanda è entrare nel Pd a rafforzare l’ala di cultura socialista o rafforzare Sel con la prospettiva di un soggetto politico che rappresenti piazza S.Giovanni?
Il Pci non votò lo statuto dei lavoratori. L’interpretazione ideologica di allora era che lo statuto riconosceva l’egemonia del capitale e all’interno di quella egemonia si scavassero importanti e incisivi diritti per i lavoratori, incluso l’art. 18. In pratica però l’accettazione dello statuto dei lavoratori (risultato dell’arte del possibile) comportava la rinuncia della classe lavoratrice di tendere ad un progetto gramsciano di egemonia, specialmente pensando al fallimento della linea dell’Eur che rivendicava per i lavoratori la conoscenza dei piani delle imprese.


La conoscenza dei piani delle imprese non era naturalmente fine a se stessa, era la premessa per giudicare quei piani, fare critiche, controproposte. Era cioè l’avvio di una politica di corresponsabilizzazione preludio di una concertazione. Furono Meade e l’Agathotopia (seguiti da Baglioni e Archibugi) a mettere le basi per un lavoro di costruzione di una cultura che unisse il mondo del lavoro, nelle sue due espressioni dell’imprenditoria e del lavoro dipendente, contro l’ignavia del capitale che fuggiva all’estero o si rifugiava nella speculazione finanziaria.
Il sindacato (tranne la Cisl) non seguì questa strada preferendo invece una gestione dei diritti da conquistare o da difendere, ma sempre nell’ambito di una egemonia del capitale.
Che i renziani dicano poi che il concetto di classe è vecchio come il gettone telefonico nei confronti dell’i-phone (non so neppure come si scrive), mi spinge a chiedere loro una risposta a questo quesito:
“Come mai i guasti catastrofici del capitalismo finanziario esploso con i sub-primes e deflagrato con la Lehman, sono ricaduti sulle banche, che hanno scaricato sugli stati, e alla fine si sono risolti nel licenziamento di milioni di lavoratori. E’ questa situazione l’esempio cristallino che la storia è storia di lotte di classe o è la normale logica dell’economia sociale di mercato?”





La vignetta è del Maestro Mauro Biani




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