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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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domenica 30 novembre 2014

FERGUSON, MISSOURI, 2014 di Riccardo Achilli






FERGUSON, MISSOURI, 2014


di Riccardo Achilli




La tragedia di Michael Brown è una tragedia del capitalismo più selvaggio, quello statunitense. Si colloca in un sobborgo impoverito di St. Louis, abbandonato dalla piccola borghesia bianca che lo aveva fondato, ed oggi abitato soprattutto da neri, con un tasso di disoccupazione stratosferico per gli USA, che supera il 14%, ed un reddito medio familiare inferiore di 20 punti rispetto alla media dello Stato del Missouri. 
E se anche, come sembra, l'agente Darren Wilson, che ha sparato al giovane Brown, sarà "dimissionato" dalla polizia locale, la catena delle responsabilità è ben lungi dall'essere completa. 
E coinvolge non solo il capo della polizia locale, molto attento a proteggersi. Coinvolge anche il sistema giudiziario statale, che ha assegnato la causa ad un procuratore distrettuale figlio di un poliziotto ucciso da neri, evidentemente molto poco imparziale, e nonostante un precedente preoccupante: già nel 2000, il procuratore McCulloch salvò dall'incriminazione due agenti che spararono a due ragazzi neri disarmati, manipolando le testimonianze (ed il fatto che non sia stato incriminato o costretto alle dimissioni la dice lunga sul "sistema") e qualificando spregiativamente i due ragazzi morti, chiamandoli "vagabondi". 
Coinvolge il sindaco, un democratico, che non ha assunto nessuna iniziativa politica per invertire una pericolosa deriva di militarizzazione ed autoreferenzialità della polizia locale. 

venerdì 28 novembre 2014

LA MOSTRA “IL LUNGO VIAGGIO DELLA POPOLAZIONE PALESTINESE RIFUGIATA” NON PUÒ CHE CONTRIBUIRE ALLA PACE



ebreicontro



Rete ECO 

Ebrei Contro l'Occupazione si congratula con gli organizzatori della mostraitinerante “Il Lungo Viaggio della popolazione palestinese rifugiata”, curata dall'UNRWA – agenzia ONU per i rifugiati palestinesi – e attualmente esposta presso il Museo Diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della Libertà di Torino.
La mostra documenta la vita e la sofferenza dei rifugiati palestinesi, una popolazione che oggi – a 66 anni dalla prima guerra arabo-israeliana - conta oltre 5 milioni di persone. 
Guardarli negli occhi è il primo imprescindibile passo verso la pace. 
Si tratta di persone che, nel 1948, hanno visto collassare la propria società. È la storia di un Paese che improvvisamente si svuota perdendo nel giro di pochi mesi circa due terzi dei suoi abitanti, è la storia di famiglie sparse ai quattro venti. È la Nakba. E poi i 66 anni di esilio, insicurezza e povertà: anni in cui Israele, che ha reso queste persone profughe, nega loro il diritto al ritorno a casa, anni in cui il conflitto si acuisce e la conta dei morti continua a salire, anni in cui a volte si è costretti alla fuga più volte – come accadde questa estate a molti profughi nella Striscia di Gaza sotto i bombardamenti israeliani di “Margine Protettivo”, o ai rifugiati nel campo profughi di Yarmouk, in Siria, sotto i bombardamenti delle forze governative siriane durante i combattimenti tra le forze di Assad e le fazioni dissidenti. E mentre nei campi profughi le tende vengono sostituite da baracche, il Paese viene trasformato e colonizzato da altri. I negoziati infiniti sembrano dimenticare i profughi. La speranza viene meno. Aumenta invece la disperazione.

Spiegare e ricordare tutto ciò è doppiamente importante perché in questo caso non si tratta solo di 
commemorare una catastrofe passata per trarne insegnamenti e far sì che non si ripeta, ma anche di riconoscere e fermarne una in corso, una Nakba continua.

Tener viva la memoria, contrastare la disumanizzazione dei profughi e riportare i loro diritti dimenticati al centro dell'attenzione è un dovere etico per chiunque, e non può che contribuire alla pace, far bene all'umanità tutta.

L'archivio dell'UNRWA è un patrimonio inestimabile: in tutti questi anni l'agenzia ONU è stata un'ancora di salvezza per i profughi palestinesi, fornendo loro aiuti umanitari, assistenza sanitaria, educazione ed altro ancora in 59 campi profughi nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania, Giordania, Libano e Siria.
Se c'è un'organizzazione al mondo capace di testimoniare la storia e la situazione attuale di queste persone, che le ha accompagnate ovunque lungo l'intero periodo, questa organizzazione è proprio l'UNRWA.
E se c'è un museo adatto a ospitare una mostra del genere, questo è proprio il Museo della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della Libertà; museo dedicato alla Seconda Guerra Mondiale e alle sue conseguenze. Perché è a seguito degli orrori di questa guerra che è nato il diritto internazionale umanitario, quello che riguarda la protezione delle vittime dei conflitti armati,fondamento del lavoro dell'UNRWA. 




Rete ECO – Ebrei Contro l'Occupazione


26 nov 2014

Fonte







giovedì 27 novembre 2014

L'OSCENA (INSANABILE?) CONTRADDIZIONE FRA AUMENTO DELLA RICCHEZZA GLOBALE E CRESCENTE POVERTA' DEI CITTADINI





L’oscena (insanabile?) contraddizione fra aumento della ricchezza globale e crescente povertà dei cittadini
di
Norberto Fragiacomo




Cosa c’è che non va nella ricchezza? Nulla, a parte il fatto che nella storia umana ha sempre avuto un doppio in cui specchiarsi: la miseria.
Ne L’Ideologia Tedesca Karl Marx individua uno dei presupposti del Comunismo nello “sviluppo universale della forza produttiva” (e nelle sue “relazioni mondiali”): in mancanza di questa precondizione – ammonisce – “si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda.”
Al di là del suo carattere profetico – visto che spiega… scatologicamente, con cento e passa anni di anticipo, le ragioni del fallimento di quello che Costanzo Preve definiva “comunismo storico novecentesco” – la frase dovrebbe infonderci ottimismo e coraggio, inducendoci a raddoppiare gli sforzi: oggi (assai più che nel 1917) lo “sviluppo universale della forza produttiva” è un dato di fatto. Le geremiadi a cottimo di funzionari e chierici del Capitale non possono nascondere, infatti, che il pieno sfruttamento delle risorse planetarie mette oggigiorno a disposizione dell’umanità ricchezze inimmaginabili1 nei secoli precedenti che, se equamente distribuite, garantirebbero ad ogni essere umano un’esistenza più che dignitosa, cioè il completo soddisfacimento dei bisogni fondamentali. Se ciò non avviene è perché qualcuno ha innalzato delle dighe, accaparrandosi l’acqua che altrimenti potrebbe scorrere liberamente. Esiste una lampante contraddizione tra il benessere potenziale e il malessere reale, che dalla periferia va diffondendosi nel centro (gli USA, l’Europa sotto scacco dei mercati e delle lobby): i tempi sono maturi per un suo superamento, per una “sintesi” che consentirebbe al genere umano un nuovo balzo in avanti e forse – come preconizzato da Gene Roddenberry, l’utopista di Star Trek – la conquista di remoti corpi celesti. Da un certo punto di vista, l’arresto della corsa allo spazio è un altro frutto marcio del crollo dell’URSS: l’abbandono del contendente ha privato di senso una sfida lanciata per ragioni di prestigio (cioè di marketing politico). In fondo, inventarsi i derivati e saccheggiare il patrimonio pubblico, welfare europeo in primis, richiede minore impegno (e minori investimenti) che intestardirsi nella ricerca tecnologica – è per questo che l’ipersonico Hotol, ad esempio, vola solamente sulle pagine di Dan Brown. A lungo andare toccherà rimettersi le ali (la maschera Obama ha accennato alla futura colonizzazione di Marte), ma nel breve-medio periodo il Capitale ritiene che mangiarsi le terre emerse sia l’opzione più proficua e meno dispendiosa.

mercoledì 26 novembre 2014

PER UNA COSTITUENTE DI SINISTRA di Maurizio Zaffarano







PER UNA COSTITUENTE DI SINISTRA 
di Maurizio Zaffarano




Ci sono almeno due cose che proprio non vanno giù a quel tanto o poco che resta del popolo della Sinistra.
Anzitutto che non riesca a costituirsi un forte soggetto politico unitario della Sinistra, pur in una situazione di terribile crisi economica causata ed aggravata dalle politiche liberiste e di austerità ed in una fase di attacco finale - condotta da Renzi con la definitiva svolta a destra del PD - ai diritti dei lavoratori, allo Stato sociale, ai principi costituzionali su cui è stata fondata la Repubblica nata della Resistenza.
E poi che l'Italia sia l'unico Paese in Europa a non avere una Sinistra degna di questo nome: in Spagna e Grecia Podemos e Syriza sono in testa nei sondaggi. E nel resto d'Europa – ad esempio in Francia e Germania con la Gauche e la Linke – le Sinistre mantengono una presenza certo largamente minoritaria ma comunque dignitosamente concreta.

In Italia, dopo i fallimenti ed i tradimenti del centrosinistra ulivista, l'urgenza di costituire un forte soggetto politico unitario di Alternativa è evidente da anni e avvalorata da ogni passaggio dell'involuzione centrista o peggio destrorsa di coloro che hanno nominalmente ricevuto, dilapidandola ed infangandola, l'eredità del vecchio PCI: ne abbiamo avvertito il bisogno di fronte alla pretesa maggioritaria del PD di Veltroni (che sbatteva le porte in faccia alle formazioni della Sinistra radicale mentre inciuciava con Berlusconi), al lungo corteggiamento al postfascista Fini in virtù della sua fronda interna alla maggioranza berlusconiana, all'appoggio del PD di Bersani – in accordo con Berlusconi - al governo del massacro sociale di Monti e della Fornero (con il voto al pareggio di bilancio in Costituzione ed alle controriforme dell'articolo 18 e delle pensioni), al dopo elezioni 2013 con la rielezione di Napolitano (il peggior Presidente della storia repubblicana preferito a Rodotà) e con la sostanziale condivisione delle responsabilità di governo, con Letta e poi con Renzi, tra PD e Forza Italia il cui effetto è stato il contemporaneo ulteriore attacco ai diritti sociali ed ai principi democratici e del pluralismo politico sanciti dalla Costituzione.
Questo Soggetto Unitario doveva formarsi almeno tre anni fa, due anni fa, un anno fa ed ogni volta si è atteso l'approssimarsi delle elezioni per raffazzonare improbabili cartelli elettorali senza alcuna possibilità, per la scarsa incisività della proposta politica ed il poco tempo a disposizione per farsi conoscere dei cittadini, per assumere un ruolo rilevante nel quadro politico.
Dopo l'esperienza (contraddittoria) della Lista Tsipras e le speranze che comunque aveva suscitato, stiamo ancora, dopo sei mesi dalle elezioni europee, al nulla: alla speranza della discesa in politica di Landini, all'attesa della scissione della cosiddetta sinistra piddina (i cui esponenti, su cui peraltro gravano responsabilità politiche e morali grosse come macigni, non hanno palesemente alcuna intenzione di rinunciare alla propria comoda poltrona), alle inutili speranze (coltivate da chi nasconde disonestà politica ed intellettuale) di poter condizionare Renzi dall'interno della sua maggioranza, alla vaghezza delle elucubrazioni sulla forma partito dei settantenni - ex Lotta Continua – Viale e Revelli, alla promessa di Paolo Ferrero, sempre più subalterno nei confronti degli “intellettuali” ed incapace di dare un ruolo attivo e propositivo a Rifondazione Comunista, di ricominciare fra due mesi il processo unitario.
Scrive Santiago Alba Rico, uno dei più autorevoli intellettuali che hanno firmato il manifesto che è stato all’origine dell’esperienza di Podemos: “Per fronteggiare questa offensiva (quella del 'sistema' ndr) sono necessari tre elementi fondamentali: una leadership democratica, intelligente e convincente, una militanza ben preparata e capace di abbandonare la mentalità di minoranza marginale e, soprattutto, le maggioranze sociali, obiettivo che si può conseguire solo se si rende chiara in ogni istante, in ogni gesto, in ogni misura, la rottura etica, politica e culturale con il regime. Il tempo corre a nostro favore; il tempo ci vola contro. “
Be' in Italia non abbiamo avuto un movimento di massa come quello degli Indignados da cui è derivato Podemos, in Italia abbiamo mafie, corruzione, familismo, voto di scambio, economia in nero, clericalismo, un sistema dell'informazione quasi completamente asservito al potere. I movimenti sociali di base che i Viale e Revelli immaginano come fondamenta di un movimento politico che nasca per iniziativa dal basso sono movimenti di nicchia, senza un seguito di massa. E lo dimostrano i risultati elettorali ridicoli che le liste espressione di questi movimenti riescono a conseguire. E' molto più adattabile alla nostra realtà piuttosto il “modello” Syriza con la federazione di tanti piccoli soggetti in precedenza dilaniati da conflitti e divisioni.
Partiamo allora dalla concreta realtà italiana e cerchiamo di trarre insegnamento, per quanto possibile, dalle esperienze che ci vengono dal resto d'Europa: da Podemos, da Syriza, dalla Linke, da Izquierda Unida, dal Front de Gauche. E si devono fare dunque tre cose. Subito.

martedì 25 novembre 2014

RISPONDENDO A RICCARDO ACHILLI di Stefano Santarelli





RISPONDENDO A RICCARDO ACHILLI
di Stefano Santarelli




Euro o non Euro? E' questo il dilemma shakespeariano come viene definito dall'enigmatico Olmo Dalcò che sta dilaniando la sinistra del nostro paese. E fatalmente tale dilemma non poteva non coinvolgere la nostra Redazione.
Tale dibattito è stato ed è molto duro all'interno di Bandiera Rossa in Movimento e sicuramente ancora non si è sviluppato fino in fondo.
Il mio articolo sul Convegno della Sinistra contro l'Euro che si è tenuto a Roma il 22 novembre è stato criticato dalla colonna della nostra Redazione, Riccardo Achilli, il quale è rimasto colpito negativamente dal finale del mio scritto dove contestavo un suo articolo sugli effetti che una eventuale uscita dall'Euro provocherebbe nei ceti più deboli della società.
Ora in verità lo stesso Giancarlo D'Andrea, che ha presieduto questa conferenza, membro anch'esso della nostra Redazione, ha ritenuto il mio articolo obiettivo. Certamente le mie valutazioni politiche sono ovviamente opinabili, ma ciò fa parte della libertà di pensiero.

Allora veniamo ai punti in questione che hanno colpito negativamente Achilli e che riporto qui di nuovo integralmente:

lunedì 24 novembre 2014

LA MOBILITAZIONE NECESSARIA. RAGIONAMENTI SUI CALL CENTER E LA CRISI DEL SETTORE A PARTIRE DA UNA MANIFESTAZIONE UNITARIA di Marco Zanier




LA MOBILITAZIONE NECESSARIA. RAGIONAMENTI SUI CALL CENTER E LA CRISI DEL SETTORE A PARTIRE DA UNA MANIFESTAZIONE UNITARIA 
di Marco Zanier


Il 21 Novembre a Roma è stato organizzato un corteo non molto partecipato ma estremamente interessante per l’adesione di tanti lavoratori e lavoratrici di aziende significative del settore e per la mobilitazione unitaria delle rispettive sigle di CGIL CISL e UIL ed una presenza anche dell’UGL (che non ha detto cose sbagliate in verità) per dire basta alla delocalizzazione del lavoro, chiedere uniformità di trattamento per i lavoratori inseriti in aziende nazionali con sedi differenti sul territorio e fermare la corsa al ribasso delle commesse delle singole realtà aziendali. Io ci sono andato con mia moglie, mi sono confrontato con alcuni lavoratori e ho ripercorso i miei molti tentativi di inserirmi stabilmente in un mondo del lavoro che troppo spesso vive di profonde crisi strutturali in cui aziende grandi e meno grandi falliscono e mettono per strada migliaia di operatori ed operatrici competenti e formati. Si tratta spesso di grandi aziende nazionali nate per gestire pezzi importanti di servizi essenziali nazionali che una volta erano di proprietà statale e poi sono stati privatizzati.

domenica 23 novembre 2014

Risposta all'articolo Santarelli "Sulla conferenza della sinistra contro l'euro", di Riccardo Achilli

Rispondo all'articolo di Santarelli "Sulla conferenza della sinistra contro l'euro" perché sono stato interpellato nella parte finale. Quindi giudico corretto spiegare meglio la mia posizione rispetto alle obiezioni che mi vengono poste.
Il problema centrale, che è perlopiù politico, è che stare dentro l'euro significa, fino almeno al 2017 (data delle prossime elezioni politiche tedesche), sottostare ad una disciplina di politica fiscale (che Schaeuble vorrebbe rinforzare con uno specifico ministro europeo) che è profondamente distruttiva, che le politiche monetarie espansive (come quelle seguite già dalla Bce di Draghi sin dal 2011) non sono sufficienti a compensare, e sottostare ad una disciplina di politiche sociali e del lavoro improntata al neoliberismo. Il Jobs Act, che noi critichiamo tanto, non è una cosa nata dentro la capoccia di Renzi e di Poletti. Fa parte del set di "raccomandazioni" che la Commissione Europa ha fatto all'Italia, nell'ambito della sua attività di sorveglianza preventiva prevista dal MIP. Ecco le raccomandazioni specifiche che nel 2011 la Commissione ha fatto all'Italia, e che sono state la molla per la riforma Fornero e il successivo Jobsc Act, che ha completato il lavoro della Fornero: vedasi il punto 2, pag. 4: "rivedendo aspetti specifici della legislazione a tutela dell’occupazione, comprese le norme e le procedure che disciplinano i licenziamenti". Ci tengo a precisare che queste raccomandazioni sono adottate ai sensi del Six Pack che include il Fiscal Compact. Se non usciamo da questa trappola dei cosiddetti "trattati" (che in realtà tecnicamente trattati non sono) non adremo da nessuna parte. Questa è la vera posta in gioco.
Se non recuperiamo margini di manovra che la partecipazione all'euro ci preclude, anche correndo dei rischi, non potremo piangere per le conseguenze di una crisi che proseguirà, e che pagheranno i lavoratori. Perché la crisi, signori miei, continuerà, per molti anni ancora, e le sofferenze della classe lavoratrice italiana ed europea, dentro il paradigma dell'euro, sono appena iniziate. L'avvitamento deflazionistico incide negativamente sulle aspettative, rimanda gli investimenti, le assunzioni ed i consumi, generando una crisi da aspettative autorealizzanti. Difendere i lavoratori significa, in primo luogo, evitare di continuare su una strada già percorsa, rispetto alla quale ciascuno può misurare i risultati sulle classi popolari.
In questi termini, è vero che i paracadute in caso di uscita dall'euro che prevedo nell'articolo sono, nello scenario attuale, improponibili politicamente (ma mi limito a sottolineare che, se veramente fossero portati alla discussione, ciò sarebbe in un quadro politico molto diverso da quello attuale, e che i quadri politici diversi si cotruiscono lavorandoci sopra, non lamentandosi che non esistono), però:
a) vorrei capire da Stefano Santarelli quale sia l'alternativa, se secondo lui vi è una alternativa più "politicamente praticabile" della mia. L'idea di Ferrero del ripudio dei Trattati restando dentro l'euro non mi sembra percorribile. Il motivo è stato recentemente spiegato, in modo per me molto chiaro, dal professor Takemori, dell'Università di Tokyo: l'area euro non pone problemi di movimenti di capitale né di rischio di cambio, per cui basta un piccolo differenziale di credibilità e rischio-Paese per produrre spostamenti di investimenti dal debito pubblico dei meno virtuosi a quello dei più virtuosi, con il rischio, per i primi, di un aumento dello spread inarrestabile, se non seguono una strategia del tipo "follow the leader", in grado cioè di produrre gli stessi effetti di credibilità del leader sui mercati. Inoltre, il tasso di inflazione tende ad omogeneizzarsi fra i Paesi aderenti, e, nel caso specifico, a scendere verso la deflazione, se la strategia ocmune è, per l'appunto, deflazionistica. 
 
E se qualcuno ha dei dubbi su quale sia la distribuzione sociale delle conseguenze di un default, può andare a vedere cosa è successo in Argentina o in Uruguay 10-12 anni fa.
D'altra parte, anche eventuali monete alternative come i CCF non risolvono strutturalmente il problema, anche perché siamo in una classica situazione di trappola della liquidità, con interessi reali negativi, operatori bancari che assorbono qualsiasi quantità di denaro venga loro offerta perché in crisi patrimoniale. Come ciascuno sa, in trappola della liquidità gli impulsi monetari espansivi non si trasmettono al settore reale dell'economia. Come gli Ltro già fatti dalla Bce, peraltro, dimostrano;
b) il timore di "mescolarsi" con proposte della destra è a mio avviso un falso problema. Piaccia o meno, il fascismo ha realizzato i primi fondamenti dello Stato sociale in Italia, ed ha costruito l'intervento statale in economia con l'IRI e la nazionalizzazione delle banche di interesse nazionale, oltre a propugnare un (mai realizzato) progetto di cogestione dei lavoratori nelle imprese. Tutto ciò, però, non ha impedito alla sinistra italiana di continuare a propugnare concetti come lo Stato sociale, la nazionalizzazione dell'economia e la cogestione. Si tratta di impadronirsi del tema e dargli una declinazione di sinistra, cioè una declinazione di classe, piuttosto che di destra, ovvero sovranista. Non possiamo avere paura dei temi perché ne parla la destra, quando poi questi temi hanno anche un impatto in termini di consenso politico, perché così facendo si abbandonano le classi lavoratrici alle "cure" della destra, anziché contendergliele da sinistra. 

SULLA CONFERENZA DELLA SINISTRA CONTRO L'EURO di Stefano Santarelli





SULLA CONFERENZA DELLA SINISTRA CONTRO L'EURO
di Stefano Santarelli



La conferenza del Coordinamento nazionale sinistra contro l'euro che si è tenuta ieri a Roma con la presenza di economisti del valore di Emiliano Brancaccio, Vladimiro Giacché, Enrico Grazzini e del segretario di Rifondazione comunista Paolo Ferrero e presieduta da Giancarlo D'Andrea ha avuto un indiscutibile successo di partecipazione che non era affatto scontato anche se pone un problema politico alla sinistra che non si può non affrontare.
Dispiace l'assenza dell'esponente del PD Stefano Fassina dovuta ad un ritardo aereo.

UNA DOMENICA DI 34 ANNI FA di Lucio Garofalo



UNA DOMENICA DI 34 ANNI FA 
di Lucio Garofalo



Esattamente una domenica di 34 anni fa, calma ed insolitamente calda, si consumò una delle tragedie più dolorose impresse nella memoria collettiva locale. Ormai ci siamo ridotti a dover rimpiangere e idealizzare la realtà antecedente a quel maledetto sisma del 23 novembre 1980. 

Una data "indelebile" che, tuttavia, per una sorta di meccanismo di rimozione inconscia, si tende a derubricare dal calendario. Ma per le popolazioni del cratere, che subirono la furia selvaggia e devastante del cataclisma tellurico (fenomeno non esente dal concorso di colpe e dalla complicità e corresponsabilità politica e morale ascrivibili agli uomini), a cui seguirono scelte politiche controverse e scellerate prese dalle classi dirigenti locali nella fase storica dell'emergenza e della ricostruzione post-sismica, tale data assume ancor oggi un valore profondo, impregnato di ricordi strazianti, di forti ed intensi significati emotivi e psicologici. 

Una data spartiacque, simbolica sul versante storico ed antropologico. Nel corso degli ultimi trent'anni è intervenuto un brusco e repentino processo di accelerazione storica che ha visto mutare, in un senso profondamente deteriore, i rapporti umani e le dinamiche interpersonali, generando effetti di abbrutimento etico-civile e spirituale. Con evidenti ripercussioni negative sul terreno delle relazioni, dei comportamenti e persino dei sentimenti che rientrano nella sfera esistenziale quotidiana. 

Si è messo in moto un fenomeno di regressione ed imbarbarimento culturale e civile, una deriva che ha condannato le nostre comunità ad un destino di alienazione ed involuzione sociale di massa. Tale effetto di brutale radicalizzazione ha investito la vita e il funzionamento della macchina amministrativa locale. Si è innescata una spirale perversa di efferatezza e faziosità, di avidità, cinismo e spregiudicatezza morale che non si erano mai riscontrate nelle precedenti esperienze della nostra storia. Tra faide tribali e rese dei conti tra bande rivali che si contendono selvaggiamente il controllo del territorio (gli affari della città) e l'occupazione sistematica degli scranni nei palazzi istituzionali, dal branco dei lupi famelici sono emersi gli esemplari più feroci e voraci, che hanno preso il sopravvento grazie ai mezzi più disonesti e spregiudicati. 

Tali infamie e brutture nutrono sentimenti di rimpianto ed alimentano una spinta alla idealizzazione dei "bei tempi", creando un'immagine idilliaca della vita "prima del terremoto". Ma, aggiungo, non furono male pure gli anni immediatamente successivi, che videro uno straordinario moto di solidarietà e di partecipazione popolare ad esperienze politiche e sociali di autogestione e di protagonismo di massa, tra comitati, circoli e coordinamenti di varia origine e natura. Furono momenti entusiasmanti di risveglio civile e di abbraccio corale, che animarono e diffusero vaste e sincere aspettative di rinascita delle nostre comunità. Speranze, puntualmente, disattese o tradite. 

Per tali ed altre ragioni resta solo l'amaro in bocca per la cocente delusione storica. Persiste tuttora una sensazione triste e dolente, anzi una convinzione, una coscienza rabbiosa, per quella che è stata un'eccezionale ed irripetibile occasione storica fallita. Svanita nel "miraggio" di uno "sviluppo industriale" mai realizzato. Un'illusione ingannevole in partenza. È l'opportunità di un riscatto economico, civile e culturale mancato dalle "zone terremotate"...






venerdì 21 novembre 2014

C’ERA UNA VOLTA IL BUON IMPRENDITORE (CHE SALTA ADDIRITTURA I PASTI!) di Norberto Fragiacomo






C’ERA UNA VOLTA IL BUON IMPRENDITORE (CHE SALTA ADDIRITTURA I PASTI!)
di
Norberto Fragiacomo




Va di moda, oggi, distinguere tra imprenditori buoni e pessimi.
I secondi – adeguatamente rappresentati dal “caimano” Davide Serra, l’amico di Renzi che propone di limitare il diritto di sciopero1 – sarebbero identificabili nei supermanager alla guida di multinazionali e fondi d’investimento, che storpiano le economie, “tagliano” popoli interi, vivono di speculazione e non creano nulla; i “buoni”, invece, corrispondono alla classe dei piccoli e medi produttori che, stabilmente (?) legati al territorio, sono stati gli artefici di miracoli italiani reali o presunti, ed oggi appaiono strozzati dalla crisi.

In sintesi: finanza contro manifattura. Alle piccole e medie imprese, sostenitrici in passato (perlopiù) del centrodestra, si rivolge l’efficacissima propaganda di Matteo Salvini, che – appropriatosi di un’inedita dimensione nazionale – annuncia la riscossa contro l’euro e le tecnocrazie europee, ma strizzano pure l’occhio molti ideologi della sinistra extraparlamentare. L’auspicio è quello di un’alleanza fra datori e forza lavoro, che consenta al Paese di riacquistare un minimo di prosperità e - prima ancora - di uscire dalle secche in cui la tecnocrazia europea l’ha cacciato.

giovedì 20 novembre 2014

Perché proporre l’uscita dall’euro? di Riccardo Achilli





Ho finora sempre sostenuto la strategia della permanenza nell’euro, e della lotta "da dentro", contro le politiche economiche imposte dai trattati europei. Oggi ho cambiato posizione, sostenendo l’esigenza di mettere sul tavolo un piano di fuoriuscita, il più possibile ordinato, dall’euro stesso. Cerco di dare conto delle ragioni di questo mio cambiamento di opinione.

I non- problemi: per sgombrare il campo

Il problema non è quello di pensare, come fanno i sovranisti monetari, che recuperando sovranità monetaria possiamo stampare moneta a go-go, uscendo magicamente dalla crisi. La fragilità della ripresa giapponese, che nonostante politiche gigantesche di quantitative easing e di acquisto di titoli del debito pubblico (cfr. grafico) è caduta in recessione, ma anche la fragilità intrinseca dell’economia statunitense dopo i grandi Q.E. fatti dalla FED (con una crescita trimestrale del PIL reale caduta per ben due trimestri in recessione, ed uno in stagnazione, da metà 2009 ad oggi, e con segnali di rallentamento anche per il terzo trimestre 2014) dovrebbe far riflettere molto sull’efficacia degli strumenti monetari. Soprattutto per chi conosce un po’ di teoria keynesiana. Infatti, i meccanismi di trasmissione di un impulso monetario verso l’economia reale si arrestano in condizioni particolari, dette di trappola della liquidità, nelle quali le aspettative degli operatori bancari che ricevono la liquidità primaria dalla Banca Centrale sono improntate alla certezza che i tassi di interesse non possano scendere, per cui assorbono qualsiasi quantità di moneta venga loro offerta, senza rimetterla in circuito nell’economia. Soprattutto se poi questi operatori bancari sono in difficoltà patrimoniale, come mostra l‘asset quality review fatto recentemente dalla Bce, in cui quattro banche italiane, di cui due di rilevanza nazionale (Mps e Carige) risultano in condizioni di carenza patrimoniale anche dopo le operazioni di rafforzamento fatte quest’ anno, e, in base allo stress test, il Cet 1 ratio delle banche italiane sarebbe inferiore a quello medio europeo (10,2%, a fronte dell’11,8%). In tali condizioni, quindi, le banche assorbirebbero una grande quantità di liquidità emessa da una neonata Banca d’Italia che tornasse a stampare lire, neutralizzando qualsiasi effetto reale del Q.E., soprattutto se una uscita disordinata dall’euro comportasse fenomeni di corsa allo sportello da parte dei risparmiatori. 

Asset totali delle principali banche centrali











Fonte: Financial Times, IMF, Haver Analytics, Fulcrum Asset Management LLP


Il motivo non è neanche quello riferito ai  vantaggi esportativi da svalutazioni competitive. Tutti gli studi, ivi compreso uno recente di Tockarick (2010) pubblicato peraltro fra i working papers del FMI[1], e che già tiene conto dell’effetto della partecipazione all’euro, mostrano che la condizione di Marshall-Lerner è verificata. Ma evidentemente l’argomento per uscire dall’euro non può essere quello che l’uscita ci migliora le esportazioni! Per questo, basterebbe una politica valutaria che guidi l’euro verso una svalutazione, ed il gioco sarebbe fatto, atteso che l’Italia sta destinando quote crescenti del suo export verso i mercati no-euro già da diversi anni a questa parte[2].

La vera ragione

No. La ragione vera, a mio avviso, è più profonda, ed è a cavallo fra politica ed economia. Per motivi in parte di convenienza economica, ma anche di cattura del consenso elettorale interno, e più in generale per un interesse specifico di ristrutturazione classista in senso regressivo dell’intera Europa, la Germania e la corona dei Paesi nordici, supportati dagli organismi tecnici del capitalismo finanziario globale, impongono, contro ogni razionalità economica una strategia di politica economica disastrosa. La deflazione non è un tragico effetto inatteso delle politiche economiche neoliberiste in atto, ma è voluto, anticipato, nel 2013,  da una intervista chiarissima di Hans-Werner Sinn, capo del centro studi economici IFO e consigliere economico della Merkel, che prefigurava esattamente una deflazione interna come strada maestra per i Paesi più indebitati dell’area-euro, stimando anche l’entità di tale deflazione (10% per l’Italia, 30% per la Grecia)[3]. Tra l’altro, la deflazione conviene a milioni di piccoli e medi risparmiatori tedeschi, stante il valore particolarmente basso del rendimento nominale dei Bund, che ovviamente richiede una inflazione prossima allo zero. E costoro rappresentano la spina dorsale dell’elettorato del partito della Merkel, che ha costruito quella Germania di ceti medi tutelati dalle politiche di austerità imposte agli altri, che siede sulla polveriera dell’immiserimento del resto del continente. 

 E più in generale, la deflazione dei costi è voluta dal capitalismo transnazionale, finanziario e delle multinazionali, ed appoggiato anche dai piccoli capitalismi nazionali, pure nei Paesi in crisi, perché comporta un ovvio spostamento della ricchezza dal lavoro al capitale. Il grafico seguente mostra il calo del rapporto fra retribuzioni lorde dei lavoratori e Pil, in Italia, fra 2009 e 2013: in questi 4 anni, detto indicatore perde 0,7 punti. Evidentemente, la ricchezza prodotta che non è più destinata a retribuzioni, viene destinata a profitti e rendite. 

Questo scenario, però, prefigura la riduzione di ampie parti dell’Europa verso la fascia medio-bassa della ricchezza, condannandole a sopravvivere di esportazioni di prodotti di fascia medio-bassa, che giustifichino costi competitivi, o di turismo dall’area “ricca” dell’Europa, mentre l’industria ad alto valore aggiunto, che garantisce quindi gli spazi per la crescita dei salari, sarà concentrata in Europa del Nord. Un vero e proprio progetto egemonico, nel quale borghesie nazionali sempre più compradore si ritaglieranno spazi di sopravvivenza sulla compressione dei salari e dei diritti, magari operando come fornitori dei sistemi produttivi più avanzati del Centro-Nord Europa. Non è infatti un caso se le politiche di austerità e deflazione sono accompagnate in modo stretto dalle “riforme strutturali”, miranti ad indebolire i sistemi di difesa del lavoro, ed a flessibilizzarlo sempre più. 

Andamento del rapporto percentuale fra retribuzioni lorde e Pil in Italia


Elaborazione su dati Istat

Questo sistema avrà i punti di tenuta, da un lato, in una riduzione progressiva degli spazi democratici e di espressione a livello nazionale (e nelle riforme istituzionali che convergono verso un presidenzialismo associato a leggi elettorali dove è forte il controllo delle direzioni dei partiti sugli eletti si vedono già alcuni sintomi, accanto a provvedimenti mirati esplicitamente a ridurre lo spazio di espressione politica sul web, o a dibattiti sempre più frequenti su regolamentazioni restrittive del diritto di sciopero) e dall’altro proprio nella sopravvivenza dell’euro. Infatti, l’appartenenza ad una medesima area valutaria, dove i movimenti di capitale sono perfettamente liberalizzati, crea un differenziale di credibilità, sui mercati finanziari, fra i Paesi caratterizzati da alto debito e bassa crescita, ed i Paesi a più basso debito ed a più alta crescita. 

Detto differenziale di credibilità costringe i Paesi meno virtuosi ad una strategia del tipo “follow the leader”, fatta di politiche di austerità e di deflazione interna tali da portarli sullo stesso livello del leader, in termini di saldi di finanza pubblica, CLUP e inflazione potenziale. Il prezzo da pagare nel non seguire tale strategia è ovviamente costituito dalla crescita dello spread sul servizio del debito, fino a livelli da default. D’altra parte, però, la strategia “follow the leader” comporta una continua rincorsa al ribasso (se il leader continua a fare politiche di contenimento della spesa pubblica, della domanda e dei suoi costi interni) che avvita chi insegue in una spirale mortale di austerità-deflazione-decrescita-ulteriore aumento degli squilibri di finanza pubblica (endogeni sia alla decrescita che alla riduzione dell’inflazione, che fa lievitare gli interessi reali sul debito, e riduce la svalutazione della sua quota capitale) ed ulteriore spinta verso la decrescita e la deflazione. Una situazione sintetizzabile da una antica fiaba contadina: un uomo sogna di prendere la Luna che si specchia, di notte, nell’acqua del suo pozzo. Butta nel pozzo il suo bugliolo, ma quando lo ritira è pieno d’acqua, e il riflesso della luna rimane dentro il pozzo. A forza di buttare il bugliolo per catturare il riflesso della Luna, il pozzo rimane senz’acqua. L’uomo muore di sete. Il riflesso della Luna è scomparso, e l’astro splende, irraggiungibile ed indifferente a noi mortali, nel cielo.  

Per uscire da questa tragedia annunciata, ci sono solo tre possibilità:
a  a) Il leader cambia direzione alle sue politiche, in senso espansivo, consentendo a chi insegue di rifiatare. Non ci sono oggi le condizioni politiche per questo. La Germania non ha alcuna intenzione di veder ridurre il suo straordinario avanzo commerciale, facendo politiche di sostegno alla domanda interna che vadano oltre il compromesso fatto, in sede di accordo di Governo, con la Spd (e che in un mio precedente articolo, http://bentornatabandierarossa.blogspot.it/2013/11/un-accordo-dignitoso-di-riccardo-achilli.html#more , stimo avere un impatto di riduzione, nel medio periodo, di circa 2 punti, del saldo commerciale tedesco, evidentemente troppo poco per rilanciare la crescita del resto dell’area-euro) ed anche l’annunciato programma di investimenti infrastrutturali sembra essere piuttosto modesto in termini di impatto sulla domanda interna tedesca, poiché i 10 miliardi di investimenti annunciati da Schaeuble saranno coperti dai 300 miliardi di investimenti annunciati da Juncker (ed è quindi una partita di giro: la Germania si riprende una parte dei soldi che eroga al bilancio Ue) e comunque gli effetti sul debito interno tedesco saranno sterilizzati, con tagli alla spesa pubblica in altre voci;
bb)  A livello europeo, si accentrano le politiche fiscali nazionali, lanciando un programma di crescita della domanda e di rilassamento fiscale, assieme ad una mutualizzazione dei debiti pubblici nazionali, oppure ad una significativa ristrutturazione di quelli dei Paesi più indebitati. Manco a parlarne: queste cose non le vogliono nemmeno i socialisti europei, e tutto ciò che è stato ottenuto per il prossimo quinquennio è un miserrimo programma di investimenti da 300 miliardi (pari al 3% del totale degli investimenti fissi lordi fatti in un solo anno a livello di area-euro, una goccia nel mare, una presa in giro); 
c)    Si esce dall’euro (ma non dal mercato unico europeo, né dalle istituzioni della Ue), nel modo più ordinato e concordato possibile. Più nello specifico, ad esempio, si potrebbe costituire una parità centrale fra lira ed euro, con margini di oscillazione ampi (ad esempio, + o – il 20%) e stabilendo un committment politico di lungo periodo, in termini di mantenimento di una disciplina di bilancio pubblico coerente (che non significa austerità, ma solo gestione ordinata e prudenziale dei conti sul versante del solo saldo fra entrate ed uscite correnti, tecnicamente il cosiddetto risparmio pubblico, che dovrebbe rimanere tendenzialmente positivo, senza però stabilire parametri quantitativi, ed abolendo tutti quelli oggi imposti dai Trattati Europei) e di target inflazionistico positivo, ma non eccessivo (dell’ordine del 4-5%) nelle politiche monetarie, ristrutturando al contempo il debito, in modo concordato con le Autorità internazionali, e destinando a riduzione del debito, e non del disavanzo, le imposte patrimoniali già esistenti (come l’imposizione sulla casa, ad esempio). Evidentemente, sarebbero i mercati stessi a punire una deviazione da tale committment.

E’ evidente che, se le prime due strade sono precluse, l’unica strada per evitare di fare la fine del proprietario del pozzo è la terza, cioè l’uscita dall’euro, al di là dei dettagli tecnici che poi fornisco sul “come uscire”, sui quali si può essere o meno d’accordo. Anche perché, continuando su questa strada, la fine dell’euro avverrà per autocombustione, perché è diventato socialmente, prima ancora che economicamente, insostenibile. Ma usciremo in condizioni di degrado degli assetti economici, politici e sociali, molto più gravi di quelle che otterremmo uscendo subito. Siamo come i protagonisti di un film americano, L’Inferno di Cristallo. Se rimaniamo nel palazzo in fiamme, abbiamo la certezza di morire incendiati. Se ci buttiamo fuori, forse moriamo, forse no.

Possibili obiezioni e mia opinione in merito

Qualcuno potrebbe dire: va beh, ma non ci sono le condizioni politiche per uscire dall’euro. La mia risposta è: ci sono allora le condizioni politiche per imporre una delle due summenzionate strategie, la a) o la b)? Direi di no. E’ inutile che continuiamo ad aspettare un Godot, che non arriverà mai, e che cambierà le carte in tavola nella politica europea. Basta guardare a ciò che è successo sinora. Il socialismo europeo non è stato assolutamente in grado di esercitare alcun ruolo significativo in questi anni, di fatto ratificando l’austerità, e respingendo qualsiasi ipotesi, non dico di mutualizzazione dei debiti, ma quantomeno di calmieramento degli interessi sugli stessi (attraverso ipotesi, come il redemption fund, che lo stesso Martin Schulz ha respinto nella sua campagna elettorale). Tale ruolo ancillare del socialismo europeo è arrivato fino al punto di votare la fiducia alla Commissione Juncker senza alcuna traccia di un negoziato programmatico, talché la dialettica politica europea è tutta interna alla destra popolare, fra sostenitori dell’economia sociale di mercato e più ortodossi monetaristi. Una dialettica ovviamente inadeguata a rappresentare la gravità della situazione. E francamente il dibattito in Germania sulla questione è limitato ad ambienti intellettuali o sindacali, che non ricevono attenzione nemmeno dalle componenti più filogovernative dell’Spd. Mentre il suicidio politico dei socialisti francesi, guidati, nonostante mal di pancia inoffensivi e dichiarazioni roboanti e poi smentite dai fatti, dal rigorismo di Hollande e Valls, rende semplicemente impossibile immaginare un asse euromediterraneo anti-austerità. Anche perché l’altra estremità dell’asse dovrebbe essere Renzi. Figuriamoci… In sostanza, se la destra europea non è in grado di offrire altro che miserrimi programmini di investimento, nel quadro della prosecuzione dell’austerità, il socialismo europeo sembra aver esaurito tutte le, pur numerose, opportunità che ha avuto in questi anni per imporre un cambiamento di direzione alle politiche europee.

Altra obiezione: ci rischi enormi di buttarsi fuori dalla finestra. Rischi che peraltro pagherebbero le classi più deboli della società, quelle che la sinistra ha il dovere di tutelare. I rischi tradizionalmente menzionati (inflazione importata) sono stupidaggini. Anzi, ben venisse un po’ di inflazione. La fuga dei capitali può essere contenuta con misure amministrative, e comunque già oggi dal nostro Paese i capitali fuggono in misura molto massiccia.

Il rischio è un altro. I recenti lavori di Brancaccio e Garbellini (2014)[1] mostrano che un’uscita dall’euro avrebbe effetti negativi sulla dinamica dei salari reali e sulla quota dei salari rispetto al PIL, quantificabili, per un Paese come l’Italia, in 4 punti di caduta del salario medio nell’anno della fuoriuscita (però in cinque anni il salario recupera e cresce di 1,7 punti) e in una riduzione di 5 punti della quota salari/reddito nazionale in 5 anni. Ma, ripeto, le stesse classi sociali deboli sono schiacciate, già oggi, anche dalla prosecuzione sine die di un’austerità, più o meno moderata, che promette altri decenni di lenta deriva sociale e stagnazione economica ed occupazionale. Gli stessi Brancaccio e Garbellini, infatti, ci dicono che negli ultimi cinque anni i salari medi lordi reali italiani sono diminuiti di 2,2 punti, per effetto della crisi, e, come ho evidenziato io prima, la quota retribuzioni lorde/PIL è diminuita di 0,7 punti in quattro anni. Quindi, qui si tratta di scegliere fra una morte lenta, ma sicura, ed uno shock che, forse, potrebbe nel medio periodo invertirsi e riportare verso la crescita i salari (come per l ‘appunto nelle stime di Brancaccio). Fra la certezza di un declino lento e la possibilità di invertirlo, seppur dopo uno shock nel breve, io ho pochi dubbi su quale strada scegliere.

E poi si possono immaginare anche i doverosi paracadute, utili a far passare la nottata nella fase di shock da fuoriuscita: sistemi di indicizzazione dei salari, meccanismi di reddito minimo garantito, programmi di edilizia popolare e di lavori di pubblica utilità, interventi di calmieramento dell’aumento del prezzo delle materie prime energetiche importante, panieri alimentari sovvenzionati, ecc. Tutti interventi mirati a sostenere i salari ed il tenore di vita nella fase di fuoriuscita, e quindi a ridurre gli effetti negativi di cui sopra.


[1] E. Brancaccio, N. Garbellini, “Uscire o no dall’euro: gli effetti sui salari”, in Economia e Politica, 19 Maggio 2014, rinvenibile su http://www.economiaepolitica.it/distribuzione-e-poverta/uscire-o-non-uscire-dalleuro-gli-effetti-sui-salari-e-sulla-distribuzione-dei-redditi/#.VG2xqK7i3Wi






[1] S. Tockarick, “A Method for Calculating Export Supply and Import Demand Elasticities”, IMF, WP 10/180, luglio 2010
[2] Nel 2002, l’Italia esportava il 45,1% dei suoi beni nell’area-euro 12; nel 2013, tale quota è scesa al 34,2%.
 

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