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domenica 12 ottobre 2014

IL PAESE SECONDO MATTEO di Renato Costanzo Gatti





IL PAESE SECONDO MATTEO

di Renato Costanzo Gatti




Gli scontri verbali e fisici sui job acts, le discussioni infinite sull’art. 18, le sceneggiate dei grillini, l’opportunismo di Forza Italia, l’impotenza conclamata dei sindacati, l’urlo di Landini, le dimissioni di Tocci, l’esultanza di chi dichiara che il XX secolo è finito, tutte questi movimenti, rumori, sentiments non fanno altro che denunciare il declino fatale del nostro paese che ogni giorno di più affonda nelle sabbie mobili di una recessione da cui sarà difficilissimo rientrare.


Ma tutti questi movimenti, a mio modo di vedere, fanno discutere sui diritti, che alcuni chiamano privilegi, del mondo del lavoro, prevalendo comunque nella visione collettiva un non detto che sovrasta ogni commento. Solo Poletti l’ha detto apertis verbis, bisogna togliere lacci e lacciuoli alle imprese, dare loro certezze nelle procedure e nei percorsi, abbassare l’asticella delle difficoltà e rendere il terreno libero per far scorrazzare gli animal spirits dell’intrapresa che rilancerà produzione, occupazione e redistribuzione. E’ lo stato burocratico, il sindacato conservatore, l’ideologia che considera l’impresa come il “padrone” che affossano la capacità di riassorbire l’occupazione, in specie quella giovanile.


Nella visione polettiana c’è la potenzialità dell’impresa che aspetta solo di essere messa in grado di liberare e mettere in atto le sue potenzialità, dall’altra parte ci sono tutte le resistenze culturali e di interesse che si oppongono alla creazione di un azienda Italia del III millennio.
Quante volte nella mia vita ho sentito questo discorso: togliamo questo ostacolo, che porta sicuramente dei sacrifici a chi ostacola, ma poi si libereranno le potenzialità con nuove opportunità per tutti. L’ho sentito quando si combatté la scala mobile (i due punti di contingenza), quando si predicava il “fatti imprenditore di te stesso”, quando si osanna la mobilità, tutti pezzetti di riforma unidirezionalmente rivolti a stabilire nuove regole che con i loro risultati mirabolanti avrebbero fatto ripartire alla grande il paese.
Tutte promesse deludenti che però hanno distolto il ragionamento dal problema che, a mio modo di vedere, è la causa prima della nostra crisi. 
E’ DA TRENTA ANNI CHE LA PRODUTTIVITA’ DEL NOSTRO PAESE E’ SE NON NEGATIVA VICINA ALLO ZERO.


Il modello di sviluppo italiano, smantellato il sistema che per brevità chiamiamo IRI, che aveva miliardi di difetti, anche abnormi, ma che dava un contributo allo sviluppo della produttività e innovazione italiana, è entrato in una fase afasica incapace di uscire da una contraddizione di base.
L’imprenditore italiano (con le debite ma rare eccezioni) non è l’imprenditore schumpeteriano che è oggi indispensabile per reggere il confronto della globalizzazione.
L’imprenditore italiano (con le debite e rare eccezioni) vivacchia nell’edilizia che non conosce concorrenza straniera, vive di commesse pubbliche, non innova, non investe in ricerca, cerca di creare competitività agendo sul costo del lavoro, privilegia il lavoro precario che costa meno. Insomma il padrone italiano (e voglio chiamarlo così come provocazione culturale) è familista, come Giano bifronte riunisce in sé il capitalista e l’imprenditore, non ama il rischio, non ama investire le proprie risorse ma ricorre sempre più al credito bancario fino a diventare banco dipendente. 
Altro che animal spirits, l’imprenditore italiano (con le debite e rare eccezioni) non ha retto alla sfida rivoluzionaria della globalizzazione e ha fallito la sua missione di conduttore e gestore della macchina economica, piuttosto che animal spirit si è dimostrato una zecca timorosa.


Ne è testimonianza l’articolo di Fubini sul lunedì della Repubblica, si legge tra le righe della Mariana Mazzuccato eppure, come rileva l’ultimo numero delle Scienze c’è stato un momento in cui potevamo ambire di essere tra i protagonisti dell’innovazione tecnologica. Molti citano Olivetti per gli esperimenti di lavoro partecipativo, io lo cito per il modello 101 il personal computer che sorprese il mondo all’esposizione mondiale negli USA.
Anche il mondo del lavoro si è adeguato a questo ambiente industriale dormiente, cerca di conviverci e ora di sopravviverci puntando sulla tutela dei diritti piuttosto che puntare, così come ha fatto CGIL, per le elezioni del 2013, su un piano del lavoro alla Di Vittorio. 


Il mondo sta esprimendo una domanda di lavoro con una specializzazione consona allo sviluppo del clima tecnologico in essere, in Italia il sonno imprenditoriale non valorizza queste specializzazioni, complice di un sistema di pubblica istruzione totalmente disgiunto dal mondo della produzione, e la disoccupazione giovanile raggiunge vette inaudite.
Da una parte abbiamo un gruppo di imprese schumpeteriane (quelle che definivo debite e rare eccezioni) che stanno al passo con le sfide della globalizzazione; dall’altra abbiamo la massa di giovani che Marx definirebbe general intellect portatori di scienza e desiderosi di innovare, studiare, ricercare (li abbiamo visti domenica mattina al Maker fair all’Auditorium di Roma); queste due realtà sono quelle su cui puntare per salvare il Paese dal suo destino di decadenza (una volta si sarebbe detto che sono il soggetto rivoluzionario).
Un’alleanza inedita tra imprenditori schumpeteriani e general intellect; ecco il blocco sociale alleato per contrastare l’ignavia del capitale che cerca solo rendimenti speculativi, per contrastare l’ozio sindacale che non osa affrontare il problema cogestivo, per contrastare le zecche timorose dell’imprenditoria imbelle.
Ecco una piattaforma di lotta costruttiva che il mondo del lavoro italiano dovrebbe portare avanti collegandosi con un grande progetto di rinnovamento con le forze socialiste europee.




La vignetta è del Maestro Mauro Biani







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