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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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domenica 10 agosto 2014

SOCIALISMO E FEDERALISMO di Riccardo Achilli




SOCIALISMO E FEDERALISMO 
di Riccardo Achilli



Il potere economico e politico, su scala nazionale e globale, tende ad accentrarsi e verticalizzarsi, derivando inevitabilmente verso assetti oligarchici, slegati dalle comunità, nazionali e locali, che vengono sospinte verso un ruolo passivo di mera subordinazione lavorativa e di opinione. E' una tendenza spontanea del capitalismo, che in realtà è stata sempre presente dentro questo sistema,  anche con vesti differenti (ad esempio il colonialismo) e che negli ultimi vent'anni si è accelerata per motivi diversi, così sintetizzabili: 

- sotto la spinta dell'enorme sviluppo di tecnologie informatiche che azzerano lo spazio e costruiscono comunità globali, riducendo e per alcuni aspetti omogeneizzando le differenze culturali e le identità locali, e creando mercati globali delle merci e delle attività finanziarie. Andando così a costituire la piattaforma tecnologica di un governo del mondo sempre più centralizzato e slegato dai tradizionali concetti di spazio territoriale e di Patria e Sangue;

- come conseguenza dell'inevitabile oligopolizzazione dei settori produttivi trainanti dell'economia globale, come risposta alla tendenziale, e costante, riduzione del saggio di profitto generale, mediante la massimizzazione della rendita oligopolistica e monopolistica, come già insegnavano Sweezy e Baran negli anni Sessanta, ed al fine di monopolizzare le innovazioni scientifiche e tecnologiche che creano nuovi prodotti e nuovi mercati, sui quali contrastare momentaneamente la tendenza alla riduzione del saggio di profitto, secondo i ben noti dettami del modello di ciclo di vita del prodotto di Vernon;

- come effetto della finanziarizzazione del capitalismo, che non ama le frontiere e le differenze, perché lucra sulla dimensione di scala dell'investimento effettuato e sull'assenza di vincoli e barriere amministrative o normative nazionali, preferendo un mercato omogeneo sul quale operare.
Il potere economico, e quindi politico, tende spontaneamente a verticalizzarsi, accentrarsi e legarsi a competenze tecniche sempre più esclusive, per gestire la crescente complessità della globalizzazione. Competenze che divengono escludenti, nella misura in cui chi non le possiede viene tagliato fuori dalla gestione politica ed economica di questo nuovo mondo, portando inevitabilmente ad assetti politici sempre meno democratici e sempre più oligarchici.

Ciò dovrebbe indurre la sinistra a valorizzare la dimensione locale, il federalismo, le reti comunitarie come terreni elettivi della democrazia residua e di interventi di solidarietà e redistribuzione. Recuperando tradizioni proudhoniane e libertarie. Ma la sinistra, in particolare quella italiana, non è più attrezzata culturalmente per tale visione. Residui stalinisti centralizzatori, la tendenza alla generalizzazione ed astrazione massificatoria presente in una lettura non attenta di Marx (che pure aveva lottato per un esperimento locale come la Comune di Parigi, anche se visto come miccia di una rivoluzione più estesa e generale) e l'estinzione della cultura socialista, con il suo carico di libertarismo e comunitarismo, contribuiscono a diffondere, in ciò che resta della sinistra italiana, una tendenziale avversione per il federalismo ed il regionalismo.
Con la conseguenza che le espressioni politiche del federalismo, nel nostro Paese, sono state consegnate alla destra, degenerando quindi in xenofobia, opportunismo romanocentrico, ed in termini economici e fiscali, in un localismo meramente difensivo ed egoistico. In ciò ha avuto un ruolo anche la storia del processo di unificazione del nostro Paese, fondata essenzialmente su annessioni dall'alto, e la profonda sfiducia, nutrita dalla dirigenza liberale che costituì la destra e la sinistra storica, verso ogni forma di autonomia locale, letta come minaccia ad una unità nazionale mai del tutto metabolizzata dalle popolazioni locali.

La progressiva ricentralizzazione dello Stato, imposta dalla riforma renziana del Titolo V, non può funzionare, come non funzionava lo Stato unitario pre-regionalista, inefficiente, burocratizzato, elefantiaco, disattento alle istanze ed alle specificità locali, e spesso preda di tentazioni autoritarie. Ed evidentemente, tale controriforma del Titolo V non può funzionare nemmeno in funzione strumentale ad una progressiva unificazione politica europea, che, per come è stata impostata dalle nazioni egemoni (Germania e suo “contado” nord, centro ed est europeo) è su una strada potenzialmente fallimentare. Fallimentare perché sta procedendo su linee oligarchiche, tecnocratiche, neoliberiste, socialmente darwiniste, sempre meno digerite dai popoli, come dimostra la crescita di astensionismo elettorale e di crescita dei partiti euroscettici e nazionalisti, crescita preoccupante perché tali movimenti, non di rado, si alimentano di strisciante razzismo, nazionalismo aggressivo, demagogia. Ma che i partiti eurocentrici e le forze sociali che li sostengono hanno difficoltà a capire, ad interpretare, e quindi ad anticiparne le minacce potenziali. Un'Europa che rischia sempre più di convertirsi in un Sacro Romano Impero nella fase del declino, ovvero in un'unione lasca, perlopiù formale, incapace di contrastare la conflittualità economica e politica, e perfino le guerre, fra le nazioni europee. Oppure che rischia di esplodere in una reazione rabbiosa dei popoli, impoveriti e sempre meno rappresentati.    

Occorre quindi che la sinistra, senza ovviamente rinnegare i progressi dell'unificazione europea come fattore di pacificazione e sviluppo (come sopravviverebbero le micro-nazioni europee in un mondo dove la competizione economica non si basa più su stati-nazione, ma su Stati-continente, se non su blocchi geo politici?) sappia recuperare uno spazio di analisi e proposta politica federalistico e localistico. In fondo, anche economisti borghesi come Porter identificano nella comunità locale lo spazio dove creare reti e relazioni in grado di proteggere le persone dagli effetti negativi della globalizzazione liberista, e dove riappropriarsi di una connessione più diretta con le istanze che provengono dal basso, che un assetto sempre più verticistico del potere rischia di perdere.

In una simile dimensione, la sinistra può anche andare oltre il mero lavoro politico, e recuperare attività di mutuo soccorso ed assistenza, di sussidiarietà orizzontale diremmo noi oggi, in grado di consentirne, con i fatti, un nuovo radicamento fra le classi sociali più vulnerabili e sfruttate. E di promuovere modelli cooperativistici in grado di recuperare occasioni di lavoro, oltre che una più forte connessione fra la matrice dello sviluppo economico e la matrice ambientale, contrastando la dilapidazione di risorse ambientali prodotta dalle grandi multinazionali, espressione del potere verticistico e verticale di cui sopra, sostanzialmente insensibili (al netto di virtuosi casi di studio, affidati però al volontarismo della singola impresa) rispetto al territorio in cui operano, e che oggi minacciano la nostra stessa esistenza come specie.

Da questo punto di vista, non è vero che Bossi sia stato un politico geniale, come afferma Grillo, perché è stato, invece, colui che ha politicizzato, usandolo strumentalmente, il pensiero di Gianfranco Miglio. Pensiero che meriterebbe di essere rispolverato, ovviamente su alcuni aspetti. La crisi dei sistemi di rappresentanza intermedia e la progressiva deriva individualistica della società furono da lui anticipate e previste. 
Così come non dovremmo aver paura di confrontarci con la soluzione da lui proposta: un modello confederale con un governo collegiale rappresentativo di ogni regione, ed una presidenza federale elettiva. Nell'ambito di un'Europa che si occupi solo dei macro-temi oramai non più gestibili su base nazionale, ovvero di politiche macroeconomiche (politiche monetarie, politiche di tutela della libertà di circolazione dei fattori produttivi, e di armonizzazione dei regimi fiscali generali, lasciando però libertà di determinazione di imposte nazionali e locali, su basi imponibili non generali, cioè al di fuori della imposizione su redditi, consumi e profitti), politica estera e di sicurezza comune, e poco più. E gli Stati membri che tornano titolari delle politiche settoriali (industriali, agricole, dei servizi), di quelle sociali e del lavoro. Tornando quindi ad avere la responsabilità di rispondere alle istanze di equità, lavoro e sviluppo delle proprie comunità.


Per inciso, non è la gestione monetaria centralizzata, di per sé, a generare diseguaglianze, recessione e disoccupazione. Se così fosse, allora non si capirebbe come mai i singoli Stati degli USA accettino una moneta unica, stampata da una Banca Centrale unica, seppur costruita su base federale. Oppure non si capirebbe perché crisi di grandi dimensioni, come quella degli anni Trenta  del secolo scorso, si siano sviluppate in presenza di monete nazionali, aggravandosi, anzi, per via di guerre sui tassi di cambio. Occorrerebbe peraltro interrogarsi sui sostanziali fallimenti, o la sostanziale scarsa rilevanza, di esperimenti di creazione di monete locali, che in genere, e nel migliore dei casi (quando cioè non producono vere e proprie premesse di iperinflazione, rese ancor più gravi dalla scarsa credibilità della moneta e delle autorità emittenti) non fanno altro che creare micro-circuiti di scambio autocontenuti, incapaci quindi di produrre sviluppo (che dipende dall'apertura di tali micro-circuiti in reti commerciali e relazionali più ampie).  
E' la gestione della moneta associata ad assetti di governance politica poco democratici, impregnati di idee monetariste e liberiste, che delegano la gestione delle politiche ad élite di tecnocrati poco attenti agli effetti sociali delle politiche economiche che effettuano, a generare gli effetti suddetti. 



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