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giovedì 19 dicembre 2013

La piazza o la politica? Implicazioni per la sinistra e per SEL, di Riccardo Achilli



di Riccardo Achilli

Questo breve articolo nasce da una interessante contrapposizione, sul web, fra chi intravede nel rapido precipitare della protesta di piazza nel nostro Paese, non solo limitato ai Forconi, una opportunità per la sinistra di classe, e chi invece ritiene che tale evoluzione sia sterile, in assenza di politiche fatte dentro le istituzioni. Ed ha ovviamente un riflesso immediato per l’unico partito di sinistra democratica ancora rimasto in piedi nel nostro Paese, ovvero SEL. Di seguito riporto alcune mie riflessioni che, ovviamente, impegnano solo la responsabilità di chi scrive, e non la redazione di BRIM.

Perché non serve più la piazza

Per capire quali implicazioni abbia la protesta di piazza, occorre avere un’idea delle evoluzioni del capitalismo moderno, in direzione del capitalismo cognitivo del general intellect. Il general intellect è una categoria marxiana, è stata definita nel frammento sulle macchine dei Grundrisse, e si riferisce ad una evoluzione del capitalismo in cui i tradizionali fattori di produzione si smaterializzano, per cui il fattore produttivo di base diviene l’informazione, la conoscenza ed il suo modo di trasmettersi. Anche in questo, quindi, Marx ha indovinato nel prevedere le evoluzioni cognitive che il capitalismo avrebbe avuto nella sua fase post-industrialistica. Tuttavia, l’errore è stato quello di pensare che tale evoluzione, con la formazione di un lavoratore cooperativo collettivo associato, inevitabilmente coalizzantesi con il proletariato industriale, avrebbe accelerato il superamento del capitalismo stesso.
In realtà il capitalismo cognitivo ha assunto modalità di organizzazione produttiva, sul piano strutturale, e di stratificazione culturale, su quello sovrastrutturale, tali da diluire, da un lato, e segmentare, dall’altro, le classi sociali otto/novecentesche, talché, oggi, per parlare in termini leninisti, non esistono più le condizioni soggettive, di passaggio dalla classe in sé a quella per sé, per immaginare un passaggio rivoluzionario, o di piazza, in grado di introdurre il socialismo. Dirò di più: manca anche una delle condizioni oggettive descritte da Lenin, ovvero la perdita, da parte delle classi dominanti, del controllo politico sulle istituzioni e sul Paese. In Italia, tale situazione è aggravata anche dall’assenza totale di qualsiasi élite rivoluzionaria, stante la mediocrità delle classi dirigenti di sinistra, ma tali questioni si ripropongono, identiche, anche al di fuori dell’Italia.
Persino in Grecia, che secondo alcuni sarebbe in condizioni pre-rivoluzionarie, nonostante il fatto che il Governo Samaras, pur con le sue debolezze, è ancora saldamente “in control”, violando quindi una delle condizoni oggettive di una rivoluzione secondo Lenin, chi sostiene Tsipras sa benissimo che la sua crescita elettorale va di pari passo con una piattaforma politico/programmatica via via sempre più moderata (tanto da creare una frattura con la componente comunista all’ultimo congresso di Syriza). E sappiamo che, se si andasse domani alle urne, Tsipras arriverebbe primo, ma per governare il Paese sarebbe comunque costretto a cercare un accordo politico con segmenti di Sinistra Democratica e persino del PASOK.
Le condizioni del socialismo latino americano non sono esportabili da noi, perché parliamo di un socialismo che attecchisce in Paesi dove persiste, nelle opinioni pubbliche, un potentissimo substrato antimperialista, e quindi anti-USA, che da noi non esiste, per ragioni storiche, dove il capitalismo locale è rimasto ancora allo stato iniziale, in Paesi ancora agrari come la Bolivia o il Paraguay, oppure allo stato della prima industrializzazione di massa, come il Brasile. In stadi in cui, quindi, si sta consolidando, o si è consolidata, una classe operaia, insieme ad ampie masse contadine diseredate, tali da supportare un socialismo con forti caratteristiche rivoluzionarie, anticapitaliste ed antimperialiste. Peccato che da noi queste condizioni sociali siano state superate, e che persino nei Paesi latinoamericani a capitalismo più maturo, come l’Argentina, il Cile o l’Uruguay, il socialismo al potere ha caratteristiche socialdemocratiche e liberali, ed addirittura non disdegna di allearsi con componenti moderate piccolo-borghesi, come nel caso del FA uruguayano. E tutto ciò senza menzionare la questione indigena, che rappresenta un ulteriore elemento di differenziazione fra Europa ed America Latina.
Siamo quindi in una situazione in cui la perdita di coscienza di classe non è reversibile nel breve e medio periodo, perché è un dato strutturale, immanente alla stessa organizzazione produttiva del capitalismo cognitivo. Chi conosce gli scritti di Negri e Vercellone su tale tema sa benissimo che lo sfruttamento del lavoratore cognitivo assume forme completamente diverse da quello del tradizionale proletario industriale in catena di montaggio, forme che devono necessariamente assumere, per stimolare l’estrazione di plusvalore intellettuale e creativo, modalità orizzontali, di rete, de-gerarchizzanti, recuperando la disciplina lavorativa tramite la precarizzazione del rapporto di lavoro, in sostituzione della tradizionale stabilità del rapporto con i mezzi di produzione dell’operaio fordista. Tutto ciò segmenta la domanda sociale in mille rivoli diversi, distorce l’autorappresentazione sociale dei lavoratori del general intellect, indotti ,anche artificiosamente, a contrapporsi al tradizionale proletariato di cui pure fanno parte, e quindi induce oggettive difficoltà di conduzione di un progetto rivoluzionario, anche solo nell’unificare le diverse piazze con parole d’ordine comuni. Perché attenzione: unificare sotto la bandiera del contrasto all’euro ed all’Europa liberista e tecnocratica conduce, a seconda della piattaforma ideologica, o a conclusioni di tipo sovranista e nazionalista, quindi di destra, o a conclusioni di tipo socialdemocratico, quindi comunque non rivoluzionarie. Unificare sotto la bandiera antiliberista, del welfare, della sicurezza del posto di lavoro, conduce ancora una volta a posizioni socialdemocratiche, non rivoluzionarie. Unificare sotto la bandiera della rivolta fiscale porta dritti dritti in bocca alla Destra sociale, come visto con i Forconi. Unificare sotto una generica bandiera anticapitalista conduce a numeri da prefisso telefonico, indicativi di assenza di radicamento sociale, proprio in ragione dei suddetti impatti che il capitalismo cognitivo ha avuto sulla coscienza di classe1. A meno che l’anticapitalismo non sia una foglia di fico per nascondere una identità socialdemocratica, come avviene per la maggioranza filo-Tsipras di Syriza, che anticapitalista non è, dal momento che rifiuta la nazionalizzazione delle banche o accetta la permanenza nell’euro.
In queste condizioni, dunque, il ricorso alla piazza può sfociare soltanto in rivendicazioni socialdemocratiche, che però, per loro stessa natura, richiedono la presenza di una sinistra politica dentro le istituzioni democratiche, oppure in rivendicazioni di tipo fascistoide, nazionalista, sovranista, neocorporativo ed antidemocratiche. In questo brodo di coltura, se dovesse sorgere, dal basso, un Masaniello abbastanza furbo da non farsi vedere mentre gira in Jaguar, la frittata sarebbe fatta: il Paese degraderebbe verso l’autoritarismo ed il neofascismo. Non c’è spazio per credere di poter dirigere da sinistra la piazza. C’è solo, ed è doveroso che ci sia, lo spazio per colloquiare con la piazza da sinistra. Ma per colloquiare occorre avere gli argomenti, cioè le proposte politiche.
Cosa rimane, allora? Rimane ciò che con grande chiarezza e lucidità dice il compagno Renato Gatti, e che riporto testualmente: “dobbiamo sostenere le istituzioni in quanto tali, sostenere la democrazia come atto di riconoscimento di chi è votato, proporre, e questa è la cosa più difficile e impegnativa, soluzioni sincere, impegnative, responsabili alle vittime della crisi del capitalismo, che non di trasformino in complici di golpe di destra. Ritengo che si debba agire con la consapevolezza dei rapporti di forza, con intelligenza e insinuandosi nelle pieghe della società , non credo che quella che viviamo sia lotta di classe di una classe consapevole del suo stato”.

Quali implicazioni per SEL?

Tutto ciò significa saper avere cultura politica, saper coltivare il compromesso, saper distinguere fra contrapposizione di idee e progetti politica e sterile e dannosa contrapposizione personale. In soldoni: è del tutto evidente che il vertice del principale partito di sinistra che esiste sulla scena politica italiana, ovvero SEL, stia pensando ad una riproposizione di un accordo politico con il PD renziano. Una prima parte, sperimentale, di tale accordo, è già in atto. Landini, che oltre ad essere segretario della Fiom, è anche iscritto a SEL e vicinissimo a Vendola, sta discutendo con Renzi su temi come la rappresentatività sindacale e la partecipazione dei lavoratori alla gestione aziendale. I dirigenti più vicini a Vendola, quasi quotidianamente, lanciano messaggi di disponibilità al confronto. Chi scrive ha la più profonda disistima, politica e personale, per Renzi. Però, d’altra parte, la personalizzazione del confronto, in politica come sul lavoro, è nociva, e d’altra parte, anche se in condizioni storiche del tutto diverse e non comparabili con quelle attuali, se un PSI molto più a sinistra di quello craxiano seppe fare un compromesso di Governo, fecondo di conquiste sociali e welfaristiche per i lavoratori, con Aldo Moro, vorrei capire che scandalo ci sia a fare un accordo, ovviamente di competizione e sfida sui temi e le questioni programmatiche, con Renzi! Mi riesce difficile, nonostante tutto, pensare che Renzi sia più a destra di Aldo Moro. Ovviamente le condizioni storiche sono del tutto diverse, non è pensabile che SEL possa riaprire una fase welfaristica come quella del centrosinistra degli anni'60, ma è possibile che possa ergersi in una funzione di resistenza contro la deriva neoliberista, inserendo alcuni sassi dentro il meccanismo, cosa che solo da una postazione di potere, e non certo di minoritaria testimonianza, potrebbe fare.
Vorrei anche sommessamente ricordare che l’adesione al PSE, richiesta sia da SEL che dal PD, ove andasse a buon fine, comporterebbe un’alleanza politica su scala europea, sia pur basata su posizioni diverse, di maggiore o minore critica nei confronti dell’impostazione delle politiche europee, di maggiore o minore radicalismo, ma pur sempre dentro un alveo politico comune! Ha mio avviso poco senso pensare che SEL possa stare dentro il PSE, ma senza supportarne, sia pur in termini critici e di “pungolo” continuo, il candidato ufficiale, ovvero Shultz, navigando dentro una presunta “terza posizione”. Questi giochini non sono molto tollerati in sede europea. Fanno parte della cultura politica italiana, che non è delle più apprezzate fuori dai patrii confini.
Dentro il corpo elettorale e dei militanti di base del Partito Democratico ci sono molte persone che hanno una cultura vagamente progressista, ben diversa da quella dei quadri intermedi e dei vertici del partito2, le conosco personalmente, ed a riprova di quanto affermo vi sono i risultati più rappresentativi, quelli delle primarie degli iscritti che, a differenza delle primarie del secondo turno, non sono inquinate da milioni di voti di elettori di centro-destra (il più noto dei quali è Gustavo Selva, fotografato mentre votava). In questo turno, piattaforme programmatiche più a sinistra di quella di Renzi hanno avuto, complessivamente, il 54,6% dei voti. In province di tradizione progressista, come Livorno, Cuperlo, che al di là dell’evidente apparentamento con D’Alema proponeva una mozione molto più a sinistra di quella renziana, ha stracciato Renzi (stiamo parlando del 51,4% per il primo, e del 39,3% per il secondo). Analogo discorso nella provincia di Genova, infiammatasi per la protesta dei ferrotranvieri del capoluogo. Non è minimamente pensabile una ricostruzione di una sinistra di massa mettendosi in contrapposizione con centinaia di migliaia di elettori progressisti che stanno dentro il PD. A meno di coltivare una vocazione minoritaria che non serve a niente. E che con una legge elettorale come quella proposta dal PD, di tipo prettamente maggioritario, comporterebbe la sparizione di ciò che resta della sinistra dalle istituzioni. E’ bene chiarirlo: un sistema elettorale alla spagnola e con alte soglie di sbarramento, come quello proposto da Violante e Renzi, fa sopravvivere solo i piccoli partiti con preminente radicamento regionale, e fa sparire gli altri. Avremmo un Parlamento con dentro la Lega Nord e senza più SEL. Resterebbe solo la piazza, ma per quanto sopra detto, la piazza è inutile per la sinistra.
Qual è il vero problema, allora? Il vero problema è che la dirigenza di SEL, per problemi credo anche inerenti la cultura politica poco incline al confronto con la base da parte dei suoi esponenti (cresciuti a pane e centralismo democratico), non riesce a trasmettere in modo franco e trasparente con i suoi militanti l’esigenza di realizzare un accordo politico, ovviamente di tipo competitivo e sfidante sui temi, con il PD, anche per paura di perdere la frangia meno disponibile ad aperture. Se vi fosse tale franca comunicazione, anche a costo di perdere qualche pezzo intransigente, sarebbe possibile stabilire, nel dibattito congressuale, le condizioni ed il perimetro programmatico di tale accordo, e presentare al PD tali condizioni con la massima compattezza possibile, strappando quindi il massimo possibile di concessioni a sinistra. Se invece il proposito, reso necessario dalle condizioni, rimane dentro una nebulosa di indeterminatezza, di mezze frasi, di dichiarazioni fatte e poi smentite, di congetture tatticistiche, si presentano, nell’ordine, i seguenti effetti controproducenti:
  • Massimizzazione della confusione mentale di iscritti ed elettori, con conseguente perdita di tessere e voti;
  • Comportamenti incoerenti e poco comprensibili nelle scelte politiche, che attirano critiche sia da destra che da sinistra;
  • Persistenza di posizioni antitetiche e non conciliabili dentro il partito, che ne minano l’autorevolezza, e che giustificano una direzione centralizzata molto forte, come unico elemento aggregante;
  • Debolezza intrinseca nel negoziare con il PD le condizioni di un accordo politico, che conduce inevitabilmente ad un indebolimento della posizione di SEL, con piattaforme programmatiche dove le rivendicazioni di SEL vengono semplicemente cancellata, come ad esempio il documento d’intenti di Italia Bene Comune, che sembrava in tutto e per tutto una mozione interna del PD;
  • Processo di tâtonnement walrasiano nella ricerca di un accordo politico con il PD, che porta a “fughe in avanti” inopportune, come quella di Landini con Renzi, sia perché non sono state adeguatamente spiegate alla base, che giustamente si incazza, sia perché finiscono per mettere in difficoltà inutilmente chi le attua (infatti Renzi è stato lesto ad utilizzare il suo feeling con Landini per isolare ulteriormente la CGIL. Peccato però che la FIOM sia una componente della CGIL, e che quindi, a cascata, risenta degli stessi danni che la CGIL subirà);
  • Impossibilità di dialogare con il disagio sociale espresso dalla piazza, perché, anziché fare le proposte di politica economica e sociale necessarie per fornire risposta, ci si perde in un tatticismo di posizionamento che non interessa più un Paese alla fame.
La conseguenza di tutto ciò sarà che una SEL ulteriormente indebolita in termini di credibilità ed elettorali finirà per consegnarsi senza condizioni al PD renziano, finendone massacrata.

Conclusioni

In conclusione: il tempo di una sinistra di rappresentanza è finito. La piazza, da sola, non è più portatrice di una coscienza di classe sulla quale innestare dinamiche antagonistiche efficaci, anche solo per ottenere rivendicazioni minime e, nel deserto del panorama politico italiano, rischia soltanto di dare spazio ad un Masaniello, in grado di dare un collante di destra alle rivendicazioni. D’altro canto, l’evoluzione leaderistica e plebiscitaristica delle nostre democrazia priva di qualsiasi spazio di agibilità politica una sinistra intenzionata ad uscire dal capitalismo per vie costituzionali e parlamentari.
Chi vuole continuare a sognare di “nuovi modelli” può farlo, ovviamente, però sarà una ricorsa persa per evitare ciò che accadrà, non fra venti o dieci anni, ma probabilmente fra cinque: un’uscita dalla crisi di tipo neo-medievale, con sistemi di potere di tipo oligarchico basati su circuiti chiusi, spazi di agibilità politica dal basso pressoché azzerati, sistemi sociali irrigiditi in blocchi magmatici ma privi di mobilità ascendente, mercato del lavoro molto più competitivo, precario e alienante. C’è ancora il tempo per sognare? Credo di no.
1 Vorrei ricordare che i numeri da prefisso telefonico non riguardano solo chi avrebbe, presuntamente, “tradito” la classe, ma anche chi è rimasto fedelissimo alla linea, ed è assolutamente inattaccabile sul piano della coerenza politica. Qualcosa vorrà pur dire…

2 La recentissima indagine di Questioni Primarie rivela infatti che il 30% dei votanti alle primarie degli iscritti del PD si sente di sinistra, mentre solo uno dei delegati eletti per l'Assemblea nazionale di quel partito si colloca in tale area.   

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