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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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giovedì 30 maggio 2013

UNA PRIMA ANALISI DEL VOTO di R. Achilli


di Riccardo Achilli


E’ difficile dire quanto i risultati del voto amministrativo di questo fine settimana incideranno sul Governo Letta. Nel breve periodo, non vi saranno effetti. Il Pdl è in stato confusionale dopo la batosta elettorale: il fedelissimo Cicchitto è arrivato addirittura a mettere in dubbio il potere sinora indiscusso di Berlusconi sul partito, chiedendo che i coordinatori regionali siano scelti dal basso, e non nominati dall’alto. E’ una rivendicazione di portata clamorosa: significa rimettere in discussione un assioma sinora mai sfiorato, nei vent’anni di berlusconismo: il diritto supremo del capo di modellare il partito a sua immagine e somiglianza. Si tratta dell’apertura di una crepa esiziale, oppure di una iniziativa estemporanea di un dirigente spaventato? Troppo presto per dirlo, ma se due indizi fanno una prova, la querelle fra Nitto Palma e Bondi sulla cosiddetta “salva-Silvio” evidenzia una condizione di spaccatura fra le truppe cammellate berlusconiane proprio sul tema che sta più a cuore al loro caro leader.
E’ evidente che a questo punto al PDL convenga evitare problemi, almeno per il momento, al governo Letta, nonostante il fatto che i risultati elettorali porteranno inevitabilmente il PD ad alzare il livello delle richieste. Tra l’altro, francamente, il PDL vince quando c’è l’effetto-Berlusconi a trascinarlo, perché il suo radicamento sul territorio (fondamentale per vincere elezioni amministrative) è senz’altro molto meno forte di quello del PD. E se Berlusconi non si espone personalmente, mettendoci la faccia in campagna elettorale, i risultati sono quelli che si sono visti.
Il PD ha vinto? Se andiamo oltre ai candidati eletti o in vantaggio per i ballottaggi, dobbiamo prendere atto del fatto che il PD ha una struttura territoriale radicata, ereditata dai vecchi Ds, che lo conduce, a volte, a fare meglio nelle elezioni amministrative, dove il peso del territorio e delle sue micro-istanze è più importante, che nelle politiche. Nel 2001, Veltroni è eletto sindaco di Roma, subito dopo il trionfo del centro-destra alle politiche. Nel 2005, la tornata trionfale di amministrative lasciava presupporre una vittoria schiacciante anche alle politiche di qualche mese dopo, che però fu molto inferiore alle aspettative. Soprattutto, il centro-sinistra vince in un contesto di allarmante aumento dell’astensionismo, una deriva che dura oramai da anni, riguarda tutte le tipologie di elezioni, con qualsiasi sistema elettorale (questo per dire che chi, come Renzi, attribuisce a sistemi di voto, come quelli dei sindaci, che consentono una maggiore personalizzazione del confronto, virtù salvifiche di ritorno alla passione politica, dice una cazzata. I problemi dell’astensionismo in crescita sono ben più complessi). Se per ipotesi Marino dovesse vincere al ballottaggio, si troverebbe a governare una città in cui il 47% degli elettori non è andato a votare. Dove la sfiducia e di lontananza dalla politica riguarda quasi un cittadino su due. Governare in queste condizioni, soprattutto per chi, come i sindaci, deve amministrare a diretto contatto con la comunità, sarà difficilissimo. Fare scelte condivise di risanamento finanziario del bilancio di Roma ed al contempo di difesa dei servizi pubblici essenziali, senza partecipazione diffusa dei cittadini, sarà un compito improbo. Che non può essere superato da salvifiche suggestioni alla figura di un leader carismatico che risveglia le folle dal loro torpore. La vittoria del PD consiste, di fatto, nel presidiare fortini circondati da una crescente arida sterpaglia. Più che una vittoria, sembra un tentativo di resistere.
Oramai non c’è più nemmeno il M5S a fare da rete alla marea montante di rifiuto della politica. La disfatta elettorale dei grillini dipende fondamentalmente da tre fattori, il più importante dei quali è il non aver saputo dimostrare di avere la capacità di imprimere una svolta di governo, in grado di affrontare la crisi. Aver rifiutato ostinatamente ogni coinvolgimento di governo, essersi trastullati con cazzate come gli scontrini dei rimborsi o un moralismo dall’insignificante impatto finanziario ed economico, mentre il Paese sprofonda e chiede risposte forti e significative, aver dimostrato un evidente gap di competenze politiche, ha spezzato il legame mistico, intermediato da un demiurgo mediatico rivelatosi politico di scarsa capacità tattico/strategica, che una parte importante e trasversale del Paese aveva creato, nell’ultimo anno e mezzo, con il MoVimento. Poi pesa l’assenza di una struttura territoriale radicata, per cui a livello territoriale, spesso, la presenza politica dei grillini non è percepibile. Ed infine il M5S sconta la fine dell’effetto-novità che, in un elettorato capriccioso e con scarsa coscienza politica come quello italiano è sempre premiante, ma solo all’inizio: fu così anche per il PD, che nel 2008 raccolse, per l’effetto-novità, un risultato elettorale che non eguaglierà mai più nella sua storia.
Quale che sia il motivo della disfatta, in pratica la dissoluzione (almeno contingente, poi vedremo, perché i risultati delle amministrative non si ribaltano automaticamente sulle politiche) della rete di sicurezza grillina è da valutarsi negativamente, perché ha come immediata contropartita la crescita dell’astensionismo. Dentro la quale incubano pulsioni antipolitiche insieme a diffusa disperazione sociale, un cocktail che può trovare una sola sintesi possibile: la demagogia autoritaria di chi riesce a presentarsi come il Salvatore, dirigendo la rabbia antipolitica verso capri espiatori ben precisi, e consegnando alla disperazione sociale una illusione di riscatto. Generalmente, sono i sistemi fascistoidi a interpretare meglio tale ruolo. Si illude chi, nella sinistra radicale, pensa di poter dirigere l’astensionismo verso obiettivi rivoluzionari. L’astensionista è, nella maggior parte dei casi, individualista. Non vota perché rifiuta la partecipazione politica, che è partecipazione collettiva per definizione. Solo chi si presenta come antagonista alla rappresentanza politica, può quindi incrociare l’interesse dell’astensionista. All’astensionista non interessa un nuovo modello di società. Vuole che si portino a soluzione i suoi problemi, e vuole che chi li ha creati, ovvero la politica tradizionale ed il suo apparato istituzionale, venga distrutto. Non c’è niente di meglio di una soluzione autoritaria, aggressiva e demagogica, che al tempo stesso si presenta come antisistema, e come soluzione ai problemi concreti dei suoi simpatizzanti ,che non porta a ragionare su alternative fattibili e concrete, e nemmeno su cambiamenti di paradigma sociale (che richiedono comunque un ragionamento ed una analisi) ma su vaghi sogni di rivalsa.
Certo, è pensabile anche che nel M5S vi sia una spaccatura, e che la sua ala di sinistra e più “governista” converga, con il PD e la SEL, a formare un polo progressista. Credo che una spaccatura del M5S è probabile, se Grillo ed i suoi fedelissimi continueranno in una analisi dualistica della società italiana (i cattivi ed i protetti che votano per il PD, i buoni ed i nobili per noi). Questa analisi, che Grillo ha riproposto come base per spiegare la sconfitta elettorale del suo movimento, è ovviamente puerile e lontana dalla realtà. E certamente, alla fine, i militanti ed i dirigenti meno acritici finiranno per allontanarsi da questa incapacità di leggere le dinamiche sociali, ora che il fascino personale del demiurgo non basta più a vincere le elezioni.
Io però non credo che ci potrà essere un riavvicinamento fra PD e transfughi del M5S, a meno, ovviamente, che questi ultimi finiscano per perdere la loro identità politica, e vengano quindi annullati dentro il PD stesso. L’ascesa di Renzi, con il suo blairismo in ritardo di dieci anni, il suo approccio leaderistico e maggioritaristico alla politica, l’aggressività senza un progetto di insieme della società, i legami con i poteri finanziari forti, una filosofia di politica sociale fondamentalmente liberista, porterà a conclusione la parabola del PD verso un posizionamento di tipo liberaldemocratico: l’unica strada ancora percorribile per il PD per conquistare il suo obiettivo fondante, ovvero l’egemonia sulla società italiana, quando il berlusconismo sarà finalmente tramontato, e l’area di destra dell’elettorato sarà presidiabile (e chi può escludere che il laboratorio di larghe intese non sia il terreno sul quale il PD e ampi spezzoni del PDL non stanno tentando qualcosa che vada anche oltre il governo Letta?) In queste condizioni, è evidentemente difficile pensare che un polo progressista possa nascere, con dentro anche il PD.

Ci sarebbero peraltro spazi, che si liberano, per la costruzione di un movimento socialista, che raccolga i cocci del M5S e li metta insieme in una logica socialdemocratica radicale, che dia una alternativa sistemica reale, ed al contempo attuabile, anche all’elettorato più di sinistra del PD, che non potrà inseguire verso il centro, per sempre, il suo partito. Lavorando anche con la SEL che, nonostante una modalità confusa, poco lineare, non del tutto coerente, di collocarsi all’opposizione del Governo Letta, sta ricevendo segnali elettorali interessanti ed incoraggianti. Il posizionamento a sinistra comunque paga, e dimostra, sia pur in fieri, che gli spazi di crescita esistono. Però serve più democrazia dal basso, meno scimmiottamento di leaderismo, coerenza assoluta, credibilità nel posizionamento, senza tentennamenti che lascino pensare ad un ritorno all’ovile del PD.  


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