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mercoledì 23 gennaio 2013

COM'ERI BELLA MARCIA DELLA PACE di Stefano Macera





COM'ERI BELLA MARCIA DELLA PACE
di Stefano Macera


Chi conosce Glauco Pellegrini? Temo che il suo nome – al di fuori della cerchia degli studiosi della settima arte – sia pressoché ignoto. Eppure non è stato un regista irrilevante. Certo, le sue incursioni nel cinema di finzione (come la realizzazione, assieme ad altri autori, del film Amori di mezzo secolo, nel 1954), non hanno lasciato una traccia profonda. Ma la sua trentennale attività di documentarista – iniziata nel 1942 con Giotto e la cappella degli Scrovegni e Arquà Petrarca – si distingue tanto per la varietà dei temi trattati che per la ricercatezza delle soluzioni espressive adottate.
Ne è una prova La marcia della pace (1962), un documentario in bianco e nero,  dedicato alla prima marcia Perugia-Assisi, svoltasi il 24 settembre 1961, che in soli 12 minuti riesce sorprendentemente a restituire un momento e le energie che lo hanno attraversato. Un piccolo miracolo, dovuto ad uno sforzo produttivo non disprezzabile ed alla cura minuziosa di ogni aspetto di questo prodotto audiovisivo: dal commento che, porta l’illustre firma di Gianni Rodari, alle immagini, frutto del lavoro di tre operatori, fino alla musica, appositamente scritta dal maestro Fausto Ferri.


                                       Gianni Rodari

Ma procediamo con ordine. Il commento recitato dalla voce fuori campo fornisce, a ben vedere, non solo l’intelaiatura narrativa, ma anche quella ideale del documentario. Ciò perché realizza una interessante dialettica con quello che vediamo. Si pensi  a quando, prima della “cronaca” della giornata, vengono ricordati i versi de La bambina di Hiroshima del poeta turco Nazim Hikmet (“avevo dei lucenti capelli, il fuoco li ha strinati, avevo dei begli occhi limpidi, il fuoco li ha spenti. Un pugno di cenere, quello sono io, poi venne il vento e ha disperso la cenere”). Davanti a noi compaiono anzitutto due primi piani di persone assorte, ma poi vi è una inquadratura della Rocca di Assisi – luogo di arrivo della marcia – che si allarga sino a comprendere una banda musicale e la gente assiepata. E’ evidente, da parte del regista, la consapevolezza che altre facce contrite avrebbero assunto un carattere di sottolineatura retorica.
Nel momento in cui, finalmente, assistiamo allo sfilare della marcia, la voce fuori campo insiste sulla varietà di opzioni culturali e politiche che la contrassegnano e ci anticipa, in tal senso, che poi vedremo un ritratto di Lumumba, qui fiancheggiato da quelli del Mahatma Gandhi e di Dag Hammarskjold, Segretario generale dell’Onu dal 1953 al 1961. In effetti, l’immagine dell’eroe dell’indipendenza congolese ci appare qualche minuto dopo: è il segno che il commento è stato pensato nei termini, non convenzionali, di una sorta di conversazione con lo spettatore.
Quando la marcia arriva ad Assisi, ingrossandosi di continuo in un cammino deciso ma più lento, e la voce fuori campo ci porge la domanda “ma dove giungerebbe, fin dove il corteo dei 26 milioni di morti della seconda guerra mondiale, quello dei sei milioni di ebrei trucidati nei campi di concentramento”, si realizza il massimo della (deliberata) divaricazione fra testo e immagini. Se  le parole si caricano degli accenti più drammatici, noi vediamo invece volti stanchi ma entusiasti e gli operatori, molto attenti, ci restituiscono – con tre inquadrature di gente che saluta o che osserva dalle finestre delle case – l’accoglienza che il paese riserva ai “volontari della pace”.
Del resto, viene da pensare, qui si esprime un’allegria consapevole, che non vuole essere fuga dai problemi e dalle tragedie della storia.
Certo, in qualche momento si ha la sensazione di un eccesso di parlato, cui il dato visivo sta dietro a fatica. E’ il caso del passaggio in cui si sintetizzano gli interventi effettuati (al termine della manifestazione) da tre grandi del novecento italiano: Aldo Capitini, l’ideatore dell’iniziativa, il pittore Renato Guttuso e lo scrittore Guido Piovene.
Ma nel complesso, l’uso della voce fuori campo è ben calibrato. Si può dire altrettanto per il suggestivo commento musicale di Fausto Ferri? Con i suoi crescendo ed il suo indovinato tono generale, energico ma non trionfalistico, esso accompagna il documentario per tutta la sua durata, salvo la manciata di secondi dedicata ai versi di Hikmet ed una più corposa parte in cui – nel vivo della marcia - è sostituito dalla nota canzone Dove vola l’avvoltoio di Italo Calvino. Forse, qualche ulteriore interruzione non avrebbe guastato, ma in ultima analisi, la colonna sonora funziona perché il suo andamento è naturalmente in sintonia con le immagini. Le quali, come si accennava, sono il risultato dello sforzo di tre operatori, che si sono impegnati a raccogliere tutto quello che poteva suggerire il senso della giornata. Dai numerosi cartelli, perlopiù scritti a mano (“Evviva i paesi non allineati!”, “Tutto il bilancio dello Stato per opere di pace”), ai tanti volti che danno l’idea di un’umanità variegata, fino ai gesti “rubati”, come quello di una signora che si aggiusta il fazzoletto sul capo.
A questa molteplicità di aspetti corrisponde una notevole diversificazione dei tipi d’inquadratura. Abbondano i primi piani, ma la marcia è ripresa dall’alto, in campo lungo e lunghissimo (come quello che ne riduce i partecipanti a puntini che si muovono sul ponte). Per non dire dei numerosi dettagli, tra cui spicca quello dei piedi in movimento. O dei volontari della pace che – giunti in paese – sono brevemente “ritratti”, quasi di spalle, da sottinsù.
Il montaggio è rapido, talora serrato, così da raggiungere un preciso effetto: le inquadrature, trattenute pochi secondi, trasmettono un senso di immediatezza e di spontaneità, quasi non fossero state costruite.
Ma la ricchezza dello spaccato offertoci in pochi minuti non sembra essere il solo risultato di accorgimenti cinematografici, corrispondendo, invece, a un dato reale. L’evento appare segnato da uno slancio formidabile e non solo perché non aveva precedenti e beneficiava dell’entusiasmo degli inizi. C’è un’immagine che, in tal senso, appare rivelatrice. E’ quella di un ragazzino che salendo verso la Rocca, con altri suoi coetanei, porta con sé un cartello con scritto “Libertà per l’Algeria”.

In quella fase storica, popoli già sottoposti alla lunga e feroce colonizzazione occidentale, stavano riprendendo in mano il proprio destino. La loro spinta era presente anche nella marcia, in cui la pace è rivendicata come un obiettivo tanto più urgente quanto più coniugato con quello della giustizia. Lo stesso Capitini, dal palco, denunciava mali come il razzismo, l’imperialismo e lo sfruttamento economico. E i diversi modi in cui i volontari della pace esprimevano il rifiuto della guerra erano accomunati da questo sentire, non più eurocentrico.
Dunque, lode a Pellegrini e ai suoi tecnici, per le doti “riassuntive” dimostrate. Ma essi hanno lavorato su qualcosa di vivo, su una manifestazione la cui istanza utopica non era discorso generico, poggiando invece su un impulso alla trasformazione sociale espresso da milioni di donne e uomini in ogni angolo del pianeta.

Oggi, la marcia Perugia-Assisi ha perso molto del suo significato. S’è trasformata in un rito, per giunta segnato spesso da presenze equivoche, come quei politicanti che pensano che la pace sia la ricostruzione dopo le guerre, ipocritamente dette “umanitarie”, di cui sono complici.
Forse, anche il regista più grande avrebbe difficoltà a trasformarla nel pulsante documento di un’umanità che afferma una diversa concezione del vivere civile e delle relazioni tra i popoli.


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