Cerca nel blog

i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
.

giovedì 27 dicembre 2012

Una risposta inadeguata, di Riccardo Achilli



di Riccardo Achilli


Come ho già scritto in precedenza (cfr. Il progetto europeo pericolante) la via di uscita (si fa per dire) alla crisi dei debiti suggerita da un impasto di liberismo e nazionalismo economico dei Paesi egemoni ha creato le condizioni affinché l’unione monetaria europea venga strutturalmente indebolita e resa più vulnerabile, anche quando la crisi sarà passata. Il non aver voluto adottare i criteri delle aree valutarie ottimali, che fondamentalmente richiedono condizioni di omogeneità/coordinamento delle economie reali e delle politiche fiscali, in nome di una omogeneità concentrata esclusivamente sui parametri inflazionistici e finanziari, come previsto dall’accordo di Maastricht, ha creato le premesse per la situazione esplosiva che viviamo oggi. Il nazionalismo delle economie forti (Germania in testa) che ha scaricato sui PIIGS tutto il peso del riaggiustamento fiscale imposto dalla speculazione sui debiti sovrani ha fatto il resto.
Il riaggiustamento fiscale è stato anche l’occasione per imporre un processo di ristrutturazione sociale dei mercati del lavoro e dei sistemi di welfare dei Paesi PIIGS, inappropriato e controproducente rispetto all’obiettivo di ridurre rapidamente il rapporto fra debito pubblico e PIL (atteso che i saldi di finanza pubblica sono endogeni al ciclo, e naturalmente il processo di ristrutturazione sociale, o di massacro sociale per essere più appropriati, ha effetti depressivi sul ciclo stesso) ma appropriato per creare quelle condizioni strutturali, cioè di medio e lungo termine, attraverso le quali far ripartire il saggio di profitto (sia attraverso un maggior sfruttamento del lavoro, reso possibile dalla riforma-Fornero, sia attraverso nuove opportunità di business, attraverso annunci, mai realmente smentiti, di parziale privatizzazione di importanti comparti del welfare pubblico) e, soprattutto, attraverso le quali far ripartire l’investimento finanziario, rassicurando gli operatori circa la sostenibilità di lungo periodo del debito pubblico dei PIIGS, di fatto abbattendo l’incidenza sul trend del debito della spesa pubblica previdenziale e sociale (cioè, riducendo il cosiddetto “debito implicito”).
Tale processo è però denso di contraddizioni esplosive che rischiano di farlo fallire, azzerando i risultati attesi dai “ristrutturatori”. Tale processo infatti non incide sul debito implicito delle economie egemoni (Germania e Francia) proprio perché il peso della crisi è stato scaricato sui PIIGS, ma ciò ovviamente significa che il problema dell’aggregato di debito dell’intera area euro è stato risolto solo in parte, poiché, ovviamente, le economie egemoni sono anche quelle che hanno la maggiore incidenza del loro debito nazionale sul debito europeo totale. E peraltro la Germania, in primis, utilizza alcuni artifici contabili (ovviamente resi legittimi dalle regole di calcolo del debito di Maastricht) per celare una parte importante del suo debito pubblico. Poi vi sono le contraddizioni già analizzate nel mio articolo precedente (potenziale riduzione della coesione politica europea derivante dall’allargamento della forbice del benessere fra Nord e Sud dell’area, entrata in stagnazione del ciclo economico delle stesse economie egemoni, per distruzione dei loro mercati di esportazione mediterranei, aumento delle disparità nei fondamentali macroeconomici reali fra le diverse economie nazionali, che rende sempre più difficile gestire in forma univoca gli strumenti di politica monetaria, anche a fronte di possibili attacchi speculativi futuri sul tasso di cambio dell’euro).
L’unica possibilità di uscita da queste contraddizioni è costituita da due componenti: in primis, dalla riattivazione della crescita economica, in modo da avere le risorse aggiuntive per gestire una situazione debitoria che, a livello aggregato europeo, ma anche a livello dei singoli Paesi PIIGS, continua ad essere critica, ed in secondo luogo dalla preparazione di strumenti di politica economica in grado di garantire qualche forma di maggiore omogeneizzazione dei cicli economici reali delle singole economie, e di maggiore coordinamento delle politiche fiscali, cercando cioè di correggere le maggiori distorsioni del concetto monetarista dell’area valutaria comune introdotto dal trattato di Maastricht.
Mentre è oramai probabile che i trattati europei, ed il fiscal compact in particolare, verranno rinegoziati nel giro di un anno al fine di riattivare, seppur in modo prudente, la crescita economica, la strategia europea complessiva per tentare di riattivare le crescita e garantire maggiore omogeneità e coordinamento (cioè per rispondere alle due condizioni sopra richiamate necessarie per salvare l’euro dalle sue contraddizioni) è contenuta in un documento appena proposto dalla Commissione, chiamato “Blueprint for a deep and genuine economic and monetary union”. Tale documento prevede una strategia di corto, medio e lungo termine. Le misure per la crescita ed il coordinamento da attivare entro i prossimi 6-18 mesi prevedono la creazione di uno strumento finanziario destinato a supportare il ribilanciamento ed il riaggiustamento del ciclo delle economie nazionali partecipanti alla UE, sanando quello che è uno dei maggiori limiti di tale area valutaria, ovvero l’assenza di un sistema di controbilanciamento di shock asimmetrici che dovessero colpire soltanto alcune e non tutte le economie partecipanti, in vista della creazione di un sistema che garantisca una migliore convergenza dei cicli economici nazionali.
Nel medio termine (18 mesi-5 anni) si prevede la creazione di una politica fiscale comune, con la possibilità di imporre modifiche vincolanti alle manovre finanziarie nazionali non allineate agli obiettivi comunitari, un coordinamento delle politiche fiscali e del lavoro, la creazione di una capacità fiscale autonoma dell’Unione Europea per condurre le sue proprie politiche, superando in parte il finanziamento del bilancio comunitario ad opera dei bilanci dei singoli Stati membri che vige oggi. Si prevedono forme molto timide di mutualizzazione del debito pubblico europeo, alternativamente tramite lo strumento del redemption fund (essenzialmente un fondo che acquista i debiti pubblici nazionali che eccedono la soglia del 60% del PIL, finanziandosi con l’emissione di titoli garantiti da tutti i Paesi Ue, e nei confronti del quale i Paesi che hanno versato il loro extra debito rimangono responsabili del pagamento a scadenza della quota capitale ed interessi dei titoli pubblici dell’extradebito stesso) oppure tramite gli euro-bill (titoli a breve scadenza, non superiore ai 2 anni, emessi dalla Ue in sostituzione dei singoli Stati membri, e garantiti dalla Germania, una forma di mutualizzazione del debito pubblico nazionale limitata al solo debito a breve scadenza).
Nel lungo termine (oltre i 5 anni) si prevede una completa unificazione fiscale, monetaria e della gestione debitoria, con un parallelo processo politico di unificazione istituzionale, con accresciuti livelli di democraticità, rappresentatività e accountability delle istituzioni comunitarie.
Purtroppo, il disegno in questione (che rappresenta solo una proposta, che deve essere approvata, ma soprattutto implementata, dal Consiglio Europeo) è al contempo troppo ambizioso e troppo rinunciatario. In altri termini, è velleitario.  E’ troppo ambizioso perché recupera quell’idea, politica prima ancora che economica, di Stati Uniti di Europa, che è stata propria dei suoi padri fondatori, e che però se non si è mai realizzata, soccombendo a nazionalismi e rendite di posizione. Poiché per l’unificazione politica ed economica la Commissione, nel suo documento, prevede un orizzonte superiore ai 5 anni, cioè un orizzonte entro il quale i meccanismi di crescita si saranno prevedibilmente riattivati, non si capisce perché, superata l’angoscia della crisi, quegli stessi nazionalismi e quelle stesse rendite di posizione dovrebbero farsi da parte, quando non lo hanno fatto negli ultimi 60 anni. Finita l’emergenza della crisi, se finirà, non basterà il richiamo secondo cui ciò che è successo potrà succedere di nuovo, se l’area euro non si dota delle caratteristiche di area valutaria ottimale e solidale. Perché la memoria delle tragedie di questa crisi sarà rapidamente perduta in una nuova orgia di crescita, consegnata a sbiaditi libri di storia, ed ognuno tornerà a coltivare il proprio orticello nazionale, cercando, come sempre, di massimizzare a suo vantaggio, ed a svantaggio del vicino, i frutti della ritrovata crescita. Se invece la crisi non sarà stata superata entro i prossimi 5 anni…beh…avremo altro a cui pensare di più urgente rispetto ai problemi di integrazione europea. La verità è che i processi di integrazione politica non dipendono dalla spinta dell’economia, ma da fattori culturali, storici, etnografici,  sociali e relazionali, persino attinenti alla psicologia di massa dei popoli e dei loro simboli aggregativi. Quindi tali processi camminano da soli, oppure non camminano. Se si cerca di farli camminare con la forza, con un disegno burocratico calato dall’alto, non attecchiscono nel profondo, ed esplodono, spesso in modo sanguinoso.
Non sono le Blueprints della Commissione a poter creare i presupposti per l’integrazione. E’ la scuola, che deve avere un approccio profondamente europeistico e multiculturale sin dalle prime classi, è la politica dei singoli Stati, che deve dare maggiore esempio di europeismo agli elettori, anziché rifugiarsi in comodi richiami alla Terra ed al Sangue ogni volta che c’è da negoziare a livello comunitario foss’anche la più futile delle questioni, che so, la proposta di regolamento europeo che stabilisce quanta percentuale minima di burro di cacao debba esserci dentro il cioccolato prodotto in Europa, o stronzate simili. E’ il mercato del lavoro che deve essere più aperto, eliminando i residui di regolamentazioni nazionali ed incentivando maggiormente i lavoratori a girare per l’Europa, foss’anche per brevi periodi.
Oltre che essere esageratamente ambizioso, questo documento della Commissione riesce anche nella mirabile impresa di risultare timido. Non una parola, tranne una chiacchiera generica sul concetto di “economia sociale di mercato” (che ovviamente implica l’accettazione dei meccanismi di mercato, “emendata” da qualche mancetta caritatevole, assolutamente inadeguata per correggere le distorsioni del mercato e per affrontare il grave impoverimento in atto di ampi strati della società) e sull’ovvietà che le politiche sociali andrebbero coordinate e rafforzate anche tramite il FSE (ma senza dire come) sulla progressiva realizzazione di un welfare europeo, che potrebbe essere generosissimo, poiché basato sul debito pubblico europeo, e non su quello dei singoli Stati. Con la risultante pazzesca che non si ammette che le regole sulla vigilanza bancaria, ad esempio, possano essere diverse da Stato a Stato, ma si ammette che la tutela dei lavoratori, dei malati, degli anziani possa essere diversa da Stato a Stato. E poi si pretende di creare una unificazione politica!!! Basata sulle ingiustizie!!! Non si punta con decisione agli eurobond, cercando compromessi di basso livello (eurobill per mutualizzare soltanto il debito pubblico a breve, che rappresenta meno dell’11% del debito pubblico totale dell’area euro, redemption fund, che lascia assolutamente immutati gli obblighi di pagamento dell’extra debito da parte degli Stati membri, confidando soltanto in un eventuale calo dei rendimenti dovuto alla garanzia tedesca, che non si sa quanto possa essere solida, alla prova dei mercati). Non si fissa un valore minimale di dotazione finanziaria dello strumento finanziario per il controbilanciamento degli shock asimmetrici.
Un documento al contempo velleitario e rinunciatario ha un solo, reale obiettivo: dare fondamento a qualche limitata azione, di piccolo cabotaggio: per l’appunto, gli euro-bills piuttosto che il redemption fund, qualche contrattino stipulabile fra Stato nazionale e Commissione per avere qualche soldarello in caso di crisi asimmetrica,  un maggiore controllo comunitario sulle manovre finanziarie degli Stati membri che, in assenza di una maggiore democrazia politica nell’agire degli organi europei (poiché come detto tale obiettivo è velleitario) si traduce soltanto in un controllo burocratico ed antidemocratico sulle decisioni di Governi e Parlamenti nazionali.
Serve maggior coraggio. Serve l’immediata e completa mutualizzazione del debito nazionale, serve un ridisegno completo delle strategie di politica economica, che sia basato su crescita, ma anche redistribuzione della ricchezza, altrimenti la crescita da sola non serve. Serve una politica industriale di scala europea che preservi, rafforzandoli, i campioni industriali, anche tramite la creazione di imprese di proprietà multigovernativa nei settori strategici. Serve una politica di sostegno alla domanda, che allarghi lo spazio del welfare pubblico, identificando dei criteri di tutela minimi che ogni Stato deve assicurare, iniziando dal reddito minimo garantito pari ad almeno il 60% del reddito mediano. Occorre costruire un mercato del lavoro europeo basato sui diritti e sulle opportunità, che da un lato uniformizzi il costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP) tramite un parametro omogeneo di variazione delle retribuzioni in base alla produttività, e d’altro lato determini un “core” comune di diritti sindacali e del lavoro da garantire in ogni Stato membro, più ampio di quello attualmente identificato dalla Ue (davvero striminzito, tale cioè da consentire una ampia riduzione dei diritti del lavoro preesistenti), nonché meccanismi incentivanti la cogestione e la compartecipazione dei lavoratori alle decisioni aziendali, servono meccanismi fiscali e di trasferimenti pubblici in grado di controbilanciare shock macroeconomici asimmetrici su singoli Stati, serve un rafforzamento, finanziario ma anche di miglioramento dei meccanismi di programmazione e governance, dei fondi strutturali, per ridurre le sacche di disoccupazione e ritardo di sviluppo esistenti nei Mezzogiorni d’Europa (segnalo che nel documento economico Achilli/Gatti della Lega ei Socialisti si fanno numerose proposte per rendere più snella e flessibile la programmazione dei fondi strutturali, e per ridefinire in modo statisticamente più rigoroso le regioni europee a ritardo di sviluppo; per informazioni e per visionare il documento si può scrivere a r.achilli@libero.it oppure a renatocostanzogatti@gmail.com). Servono infine regole automatiche che impongano, agli Stati membri in condizioni di avanzo strutturale delle partite correnti, l’attivazione di politiche a sostegno della domanda per consumi, in modo da migliorare il saldo delle partite correnti dei Paesi deficitari tramite l’aumento dell’export negli Stati membri eccedentari.
Serve una ridefinizione oggi, non domani, dell’assetto istituzionale europeo, in modo da renderlo più democratico, più partecipativo, de-burocratizzandolo, e togliendo alla Commissione gran parte dei poteri di iniziativa, per attribuirli al Parlamento Europeo. Così come il Consiglio Europeo va sostituito con un organo di garanzia super partes eletto dal Parlamento. Serve poi una definizione di tipo ocnfederativo a maglie larghe delle autonomie che rimarranno in capo ai singoli Stati membri. E tale ridefinizione serve oggi, non va posposta a quando saranno stati omogeneizzati i meccanismi di gestione dell’economia e delle politiche sociali e del lavoro. Perché la costruzione politica e democratica deve precedere la costruzione economica, altrimenti il rischio è quello di rimanere dentro un assetto euro-burocratico, in cui le decisioni vengono assunte da ristrette oligarchie tecnocratiche, autoreferenziali rispetto alla volontà popolare. Come avviene oggi. Le Blueprint della Commissione esaminate sopra, questo documento inutile e velleitario, sono esattamente il prodotto di un’Europa burocratica ed oligarchica. 

Nessun commento:

Stampa e pdf

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...