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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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martedì 25 dicembre 2012

Caligola, il seppellitore delle ultime spoglie di repubblicanesimo, di Riccardo Achilli


di Riccardo Achilli


Provino pure odio per me, purché mi temano
Caligola
Non vi fu servo migliore e padrone peggiore
Svetonio


Introduzione e contesto storico
Gaio Giulio Cesare Germanico, soprannominato Caligola (Anzio? 31 Agosto 12 D.C. – Roma, 24 Gennaio 41 D.C.) visse per ventinove anni e fu imperatore per tre anni, dieci mesi ed otto giorni. Nell’immaginario collettivo, resta l’immagine di uno squilibrato, di un pazzo crudele e privo di freni inibitori, di una figura tragica che, nel pieno della fase più fiorente della storia romana, avrebbe in qualche modo preannunciato il declino di Roma. Albert Camus, nella sua famosa pièce teatrale, fa di Caligola un interprete particolare della teoria dell’Uomo Assurdo, che è centrale nel pensiero del grande Camus: attraverso la sua crudeltà senza apparente motivo razionale, il protagonista di tale pièce rappresenta l’assurdità del potere, che non mira al bene generale, ma alla soddisfazione di impulsi personali del dittatore.
In realtà, di Caligola si sa molto poco. Quasi tutte le informazioni storiografiche e biografiche provengono dalla Storia dei Cesari di Svetonio, storico che lo aggredisce in un modo così virulento e oltraggioso, andando ben oltre la semplice analisi storica dei suoi comportamenti politici e come imperatore, finendo nell’insulto personale, da lasciar supporre che alla base della ricostruzione storica di Svetonio vi fosse livore personale più che seria indagine storico-scientifica. Basti pensare che Caligola viene maltrattato anche rispetto alla sua immagine fisica. Dice Svetonio che “Caligola aveva la statura alta, il colore livido, il corpo mal proporzionato, il collo e le gambe estremamente gracili, gli occhi infossati e le tempie scavate, la fronte larga e torva, i capelli radi e mancanti alla sommità della testa, il resto del corpo villoso”. Tale ritratto fisico peraltro è anche contrastante rispetto ai busti che ci rimangono dell’imperatore. Lo stesso Svetonio si spinge fino a dire che, dopo la morte di Caligola, “i guardiani di questi giardini (i giardini dove riposava la salma dell’imperatore) furono turbati da spettri e che nella casa in cui giacque disteso, tutte le notti furono caratterizzate da qualche manifestazione terrificante fino al giorno in cui la casa stessa fu distrutta da un incendio”.
In verità, l’esagerata sottolineatura del carattere mostruoso e folle di Caligola, fatta da Svetonio, è evidentemente spinta da motivi politici. Lo storico Svetonio era infatti un esponente del ceto equestre, cioè di una classe sociale definita in base al censo (cioè al reddito) ed a radici familiari illustri: si trattava dei ricchi dell’epoca romana, spesso più ricchi addirittura dei patrizi, e che avevano alcune prerogative, come la possibilità di accedere a carriere militari elevata (gli ufficiali dell’esercito romano erano equites) o a carriere amministrative prestigiose (in particolare, giudici ed esattori delle tasse erano scelti fra gli equites). Lo stesso Seneca, che lo tratta al pari di Svetonio, era notoriamente avversario della famiglia di Caligola stesso. Caligola fu un duro e feroce avversario delle classi agiate della società romana, che sistematicamente vessò ed umiliò durante tutto il suo principato, attirandosi quindi il loro odio. Fu in qualche modo il precursore di una durissima lotta di potere fra imperatore e Senato, che, nella storia successiva di Roma, avrebbe progressivamente trasformato il principato, di augusta costruzione, ed ancora rispettoso, sia pur solo formalmente, delle istituzioni repubblicane antiche (e quindi del Senato e della classe patrizia), nel ben più autocratico impero.
Occorre fare un piccolo passo indietro. Il sistema del principato nasce come tentativo di restaurare, sia pur solo formalmente, la defunta Repubblica, distrutta definitivamente da Giulio Cesare, ma in realtà minata alle sue fondamenta da una lunga fase di guerre civili, e dalle sue stesse contraddizioni interne. Con riferimento a queste ultime, va ricordato che il sistema economico di Roma non è mai stato capace di innescare un modello di crescita endogeno, ed è sempre stato dipendente dalle conquiste militari esterne. Il costo dell’enorme apparato burocratico e militare romano (il solo esercito permanente, all’epoca della nascita di Caligola, assorbe circa il 2,5% del PIL dell’impero) e del sontuoso stile di vita di patrizi e equites, associato all’inefficienza cronica di raccolta delle imposte, sia pur con un sistema fiscale oppressivo, rende strutturalmente precarie le casse dello Stato, con l’esigenza di monetizzare i disavanzi, che a sua volta implica l’esigenza di conquistare nuovi territori ricchi di oro e metalli con i quali coniare le nuove emissioni di monete. Il modo di produzione servile richiede sempre nuove guerre per procurarsi schiavi freschi atti a soddisfare una domanda crescente, dopo la stabilizzazione politica ed economica attuata da Ottaviano. Al tempo del proprio splendore Roma, popolata da circa un milione di persone giunse ad importare fino a 3,5 milioni di quintali di frumento ogni anno; almeno tra le 200 e le 300 000 persone vivevano grazie alle distribuzioni gratuite di frumento (ed in un secondo tempo, di pane, olio di oliva, vino e carne di maiale), quindi, calcolando le famiglie degli aventi diritto, si può sostenere che tra un terzo e la metà della popolazione dell'Urbe vivesse a carico dello Stato (la chiamavano la "plebe frumentaria").
D’altro canto, però, a fronte di tale incremento di domanda, la produttività dell’agricoltura, anche durante la lunga fase di prosperità in cui è inserita la vicenda di Caligola, rimarrà stagnante, impedendo quindi di poter risparmiare sul numero di schiavi necessari. I piccoli proprietari terrieri, la categoria più produttiva, si disfano infatti delle loro terre, sia a causa del servizio militare prolungato, sia a causa della concorrenza dei latifondi, che si estendono, ma hanno una produttività molto bassa, anche in ragione della scarsa propensione dei loro proprietari, in genere ricchi patrizi che risiedono a Roma, di investire in migliorie produttive. Neanche i miglioramenti normativi diretti a rendere più umana la vita degli schiavi (la legge Cornelia, dell'82 a.C. proibì che il padrone potesse uccidere lo schiavo senza giustificato motivo e la legge Petronia, del 32, rimosse l'obbligo dello schiavo di combattere nel Circo se richiestogli dal proprietario) servirono ad incrementarne la produttività. Tutto ciò richiederà all’impero romano la duplice esigenza di conquistare nuove terre da coltivare, per contrastare la produttività declinante o stagnante di quelle già controllate, e di procurarsi continuamente nuova manodopera servile.
In conseguenza dell’esigenza di procurarsi metalli preziosi per battere moneta, terre da coltivare e schiavi per lavorare, l’economia romana diverrà sempre più un’economia militarizzata. I capi militari vincenti, sostenuti in qualsiasi avventura, anche politica, dal loro esercito, ricompensato con assegnazioni di terre e premi monetari, assumeranno sempre più prestigio politico fra le masse, fin dal tardo periodo repubblicano, e ciò evidentemente non potrà che condurre verso una deriva autocratica del potere politico. La militarizzazione della vita politica romana è peraltro favorita dalla riforma dell’esercito promulgata da Gaio Mario nel 107 a.c., che estende il reclutamento obbligatorio anche ai cittadini più poveri. Si verrà in questo modo a creare un esercito professionale, composto perlopiù da soldati poveri o nullatenenti, che dipendono per la propria sopravvivenza, in tutto e per tutto dalle elargizioni di terre e di denaro effettuate dal proprio comandante in capo. Di conseguenza i soldati avevano il massimo interesse ad appoggiare il proprio comandante e seguirlo ciecamente, anche quando si lanciava in avventure politiche e si scontrava con i voleri del Senato, composto dai rappresentanti dell'oligarchia dominante e massima espressione dell’assetto istituzionale repubblicano.

Estensione dell'impero romano sotto Tiberio, al momento dell'ascesa di Caligola

Tra l’altro l’evoluzione autocratica del potere sembra essere il modo per dare soluzione alla crescente inquietudine sociale che affligge il tardo periodo repubblicano. Fra l’86 e l’82 a.c. si svolge la sanguinosa guerra civile fra Silla e Mario, che è di fatto la prosecuzione del conflitto di classe fra plebe e classe senatoriale, iniziata sotto i Gracchi, ed innescata dal problema della redistribuzione delle crescenti ricchezze terriere acquisite con l’espansione militare romane, e di conseguenza dal problema della redistribuzione del potere politico fra le istituzioni rappresentanti la nobiltà e quelle rappresentanti la plebe (nonché dal problema connesso dell’estensione della cittadinanza romana, e dei relativi privilegi, anche ai popoli non romani, e non italici, sottomessi). Fra 49 e 44 a.c. esplode la guerra civile fra Cesare e Pompeo, rappresentante, quest’ultimo, degli interessi del patriziato senatoriale (ovvero della fazione degli Optimates). Fino al 31 a.c., si combattono guerre civili che rappresentano la conseguenza dell’omicidio di Giulio Cesare, e che solo Ottaviano riesce a domare definitivamente.
Tuttavia, il prezzo di aver riportato l’ordine a Roma sarà pagato con un radicale cambiamento di regime politico. La già citata militarizzazione della vita economica e politica romana, associata alla consapevolezza che il vecchio ordine repubblicano non era più in grado di dare rappresentanza pacifica al conflitto di classe fra plebe e patriziato, condusse Ottaviano a stipulare un compromesso con il Senato e quindi con i patrizi, che formalmente mantenesse in vita le vecchie istituzioni repubblicane, e sostanzialmente conducesse ad un governo autocratico considerato come l’unico in grado di dare unità e coesione a Roma. Il Senato otteneva in cambio la propria sopravvivenza, sia pur come organismo sostanzialmente consultivo, la plebe otteneva una politica sociale più generosa, fatta di elargizioni di grano e nuove opere pubbliche che ne migliorassero la qualità della vita, oltre che una politica fatta di costosi spettacoli gladiatori e circensi, a beneficio del divertimento collettivo.
Benché il princeps, formalmente, sia solo un primus inter pares, e derivi ancora, sempre formalmente, la sua autorità dalla delega senatoriale (ma di fatto il Senato si limita a ratificare la nomina del successore designato dal princeps stesso), egli è capo militare e religioso, gode della tribunicia potestas, ovvero il potere su tutta la pubblica amministrazione ed il diritto di veto sugli atti promulgati dal Senato, nonché il diritto di emanare, senza controllo senatoriale, decreti ed editti, ovvero norme giuridicamente vincolanti. Inoltre, il princeps, sedendo in Senato, di fatto impone la sua volontà ai senatori, rendendola legge, benché formalmente questa sia ancora promulgata sotto la forma del senatoconsulto, ovvero di un atto di promulgazione senatoriale e non imperiale. D’altra parte, il reato di lesa maestà, introdotto da Tiberio, successore di Ottaviano, gli consente di epurare senza ostacoli i senatori non disposti a ratificare il senatoconsulto suggerito dal princeps. Al Senato restano soltanto funzioni giurisdizionali (operando come tribunale di appello, o come tribunale amministrativo nei confronti di governatori provinciali o degli stessi membri del Senato che si fossero resi responsabili di qualche reato) di normazione in campo religioso ed in alcune materie sociali, e una competenza consultiva nei confronti delle decisioni del princeps.
In questo contesto va inserita la vicenda storica e umana di Caligola. Il suo governo ha una importanza storica notevole, poiché, dopo che il compromesso fra vecchie classi ed istituzioni repubblicane e nuova autocrazia dinastica aveva resistito bene con i suoi predecessori Ottaviano e Tiberio, con Caligola i nodi di tale complesso compromesso vengono al pettine, e si avvia lo scontro frontale fra principe e Senato, che porterà all’esaurimento degli ultimi resti del repubblicanesimo, ed all’instaurazione dell’impero. Il profilo psicologico di Caligola è ovviamente impossibile da tracciare, con le pochissime informazioni che abbiamo su di lui, e con la distorsione delle stesse operata, maliziosamente, dallo storico Svetonio. Però quello che emerge non sembra affatto il ritratto di un folle delirante, ma di un politico estremamente autoritario e privo di scrupoli, con un suo disegno, perseguito anche con una fredda, quasi sadica intelligenza (che si appalesa anche tramite un senso dell’umorismo e dell’ironia feroce nei confronti dei suoi avversari), mirato ad accrescere il suo potere personale ai danni del Senato e delle classi patrizia ed equestre. Il principato di Caligola, per quanto breve, è quindi un punto di snodo fondamentale nella storia di Roma.

Prima della presa di potere
Certamente l’infanzia e l’adolescenza di Caligola sembrano fatte su misura per costruire un carattere intelligente, ambizioso, autoritario e crudele. Terzo dei nove figli di Germanico, uno dei generali romani più di successo e maggiormente amati dal popolo di tutta la storia romana, colui che inflisse alle tribù germaniche una sconfitta talmente cocente da pacificare e stabilizzare per decenni la sempre pericolante frontiera dell’impero con la Germania, che fu addirittura in grado di riportare in patria due delle tre aquile legionarie perse durante la disastrosa strage di Teutoburgo, che ricondusse all’ordine le province orientali, probabilmente Caligola soffrì del classico complesso di inferiorità nei confronti di un padre così famoso ed amato. Complesso probabilmente aumentato dalle aspettative che i genitori collocavano sulle sue fragili spalle di bambino (ad appena sei anni pronuncia un discorso pubblico).

Busto di Germanico, padre di Caligola

Tale complesso può aver creato il conseguente desiderio di emulare la grandezza del padre, che lo rese così ambizioso. D’altro canto, la madre, Agrippina Maggiore, era donna altrettanto carismatica, e quando Germanico morì, con Caligola che aveva 7 anni (peraltro la morte di Germanico creò un enorme scandalo con risvolti giudiziari, per il sospetto, non provato, che fosse stato avvelenato da Tiberio, ovvero dallo zio adottivo di Caligola), non soltanto riuscì a preservarlo dalle più che probabili vendette di Tiberio, ma divenne anche una figura di riferimento per la plebe romana avversa a Tiberio stesso, capeggiando una fazione ostile al princeps, che per tutta risposta, non potendola assassinare per via del prestigio di cui godeva presso il popolo, la segregò nell’isola di Ventotene, facendola morire di inedia, che Caligola aveva 21 anni. La devozione con cui Caligola, una volta divenuto imperatore, raccolse i resti della madre e li fece tumulare nel mausoleo di Augusto, potrebbe andare oltre la normale pietà filiale, ed indicare un attaccamento morboso ad una figura materna che, di fatto, gli aveva salvato la vita, e lo aveva condotto al potere. Non è raro che figli il cui sviluppo maschile è stato ostacolato da una figura materna troppo protettiva sviluppino per compensazione una particolare, feroce forma di ambizione collegata ad una crudeltà ai limiti della disumanità. Naturalmente, l’aver vissuto i primi anni dell’infanzia negli accampamenti militari, a contatto con la durezza e la ferocia delle guerre (il suo soprannome gli fu affibbiato dai legionari, e trae spunto dalla caliga, il sandalo militare) ma anche aver vissuto come ospite nella villa di Capri di Tiberio, a partire dal 31, proprio mentre lo stesso Tiberio metteva a morte l’adorata madre ed il fratello Druso Cesare (ed aver assistito quotidianamente agli eccessi ed alle crudeltà cui Tiberio si abbandonava nella famigerata villa) lo devono aver abituato alla crudeltà ed all’intrigo come elementi normali della vita. Sappiamo che nel 31 Tiberio, mentre gli massacrava la famiglia, e dopo avergli, forse, assassinato anche il padre, lo nominò pontefice, e due anni dopo questore, evidentemente come ricompensa per aver ripudiato il legame con la madre, ed essersi sottomesso a Tiberio stesso. Questo episodio indica chiaramente una intelligenza fredda, cinica fino all’eccesso, calcolatrice ed opportunista.

Agrippina Maggiore, madre di Caligola


Alcuni storici presumono, sulla base però di indizi e non di prove convincenti, che Caligola fosse affetto da una forma di epilessia, che in qualche modo potrebbe giustificare gli accessi di ira che gli storici gli attribuiscono. Questo sia perché l’epilessia era presente in altri membri della sua famiglia, sia perché, forse, alcune tracce di sintomi caratteristici possono essere desunte dal seguente passo di Svetonio: “soggetto ad attacchi di epilessia durante la sua infanzia, divenuto adolescente, era abbastanza resistente alle fatiche, ma qualche volta, colto da un'improvvisa debolezza, poteva a mala pena camminare, stare in piedi, riprendersi e sostenersi”. Tuttavia, in genere, l’epilessia non grave tende a scomparire dopo l’adolescenza, per cui non si può dimostrare con certezza che soffrisse di tale disturbo anche in età adulta. Certamente emerge l’immagine di un uomo tormentato dalla sua psiche: sempre secondo Svetonio, era affetto da insonnia, e quando dormiva aveva incubi. Un elemento che può forse essere indicativo di una psicosi, però sempre dando credito alle poco credibili affermazioni di Svetonio, è l’incubo ricorrente secondo cui Caligola si vedeva a colloquio con lo “spettro del mare”. Si sa che il mare è un potente simbolo dell’inconscio, e il suo “spettro” potrebbe essere rappresentativo di episodi di “invasione psicotica”, quando cioè elementi archetipici dell’inconscio invadono la coscienza dell’Io, sommergendola e devastandola. Naturalmente, però, occorre fidarsi di Svetonio, per fare simili affermazioni.

L'imperatore Tiberio


La prima fase del principato: l’idillio
E’ altresì possibile che la follia, se di follia si possa parlare, sia intervenuta soltanto in un secondo momento. In effetti, l’inizio del principato di Caligola è eccellente, assolutamente brillante. Tiberio muore nel 37, indicando nel suo testamento come successori al trono lo stesso Caligola ed il nipote Tiberio Gemello, di cinque anni più giovane del Nostro. Ma Caligola, stando alla corte di Tiberio, e grazie agli incarichi che lo zio gli aveva conferito (pontefice, successivamente questore, nonché console) si era fatto una cerchia di amici molto potenti, fra cui diversi re tributari di Roma, come Erode Agrippa, re di Giudea, ed i principi Traci Polemone II, Rhoimetalkes e Kotys III, che gli garantivano il controllo della periferia dell’impero. Inoltre, seducendone la moglie, era riuscito ad entrare nella cerchia di Macrone, uomo potentissimo, nominato prefetto del Pretorio da Tiberio, che di fatto era il comandante della guardia pretoriana ed il plenipotenziario, a Roma, di Tiberio, che risiedeva stabilmente a Capri. Questa amicizia fu fondamentale per Caligola, poiché Macrone impose al Senato, con la forza della spada dei suoi pretoriani, l’annullamento del testamento di Tiberio, e la nomina del solo Caligola come suo successore. In pratica, a soli due giorni dalla morte di Tiberio, il Senato ne straccia le ultime volontà e nomina Caligola princeps. Contestualmente, al fine di togliergli ogni legittimità a richiedere la successione, Caligola adotta come figlio il giovane Tiberio Gemello, per poi condannarlo a morte, l’anno dopo, accusandolo di una presunta congiura contro di lui.
Certamente in tale fulminea ascesa al trono gioca molto il fatto che Caligola sia figlio dell’amatissimo Germanico, e che quindi la plebe proietti su di lui l’adorazione che provava per Germanico stesso, così come il fatto che le legioni abbiano fiducia di un uomo cresciuto fra loro, però la fulminea ascesa di Caligola è il frutto, evidentemente, di una mente politica sottile, che ha saputo sopravvivere nell’ambiente del vecchio Tiberio, che ha saputo tessere le relazioni giuste con le persone giuste, che ha saputo muoversi al momento giusto e con i tempi giusti.
L’inizio del governo di Caligola è in effetti eccellente: si produce in generose elargizioni alla plebe, all’esercito ed ai pretoriani, abbassa la pressione fiscale, abolendo alcune imposte, come la tassa sulle compravendite, ripristina l’elezione popolare dei magistrati, ridando quindi voce alla plebe, abolisce il reato di lesa maestà, di fatto riconsegnando quindi al Senato una autonomia rispetto alle proposte di legge formulate dal princeps (che, come si è detto, veniva di fatto soffocata dal rischio di essere accusati, se dissenzienti rispetto all’imperatore, di lesa maestà). Irrobustisce il suo controllo sulle province periferiche, nominando a capo di Stati clienti di Roma i giovani principi traci conosciuti in gioventù (Polemone II, Rhoimetalkes, Polys) e l’amico Erode Agrippa, nonché Antioco IV, mentre esilia o manda a morte alcuni re, di Stati alleati, considerati inaffidabili. Procede alla riabilitazione di tutti i condannati e gli esiliati del periodo di Tiberio. Riabilita gli scritti di Tito Labieno, Cremuzio Cordo e Cassio Severo, in precedenza proibiti dal Senato, ripristina la pubblicazione delle statistiche imperiali, abbandonate da Tiberio, concede ai magistrati la facoltà di giudicare inappellabilmente, privandosi del suo ruolo di giudice di seconda istanza, risarcisce le vittime di incendi, organizza giochi gladiatori e corse di carri (la sua vera passione personale), epura dall’ordine equestre personaggi notoriamente macchiatisi di crimini infamanti. Investe in alcune opere pubbliche di immediato sollievo per la qualità della vita della plebe (acquedotto di Tivoli, che sarà poi completato da Claudio) e realizza o porta a termine alcuni monumenti, teatri e templi, nonché una sontuosa villa all’Esquilino.
Ad un certo punto, però, dopo il primo anno di regno, la musica cambia completamente, ed in modo assolutamente repentino ed imprevedibile. A gennaio del 38, manda a morte il suo ex alleato Macrone, con la moglie, dopo averlo accusato di un complotto, ed al contempo manda a morte anche l’ex aspirante al regno Tiberio Gemello, che inizialmente aveva adottato come figlio. Reagisce in maniera eccessiva alla morte della sorella Drusilla, divinizzandola. Ripristina il reato di lesa maestà ed accusa il Senato di complotto ai suoi danni. Inizia così una lunghissima fase di vera e propria guerra contro la classe patrizia e senatoria, con decine di senatori, consoli e funzionari imperiali condannati e passati per le armi, e continui atti di umiliazione nei confronti del Senato, che rivelano una natura sarcastica, dall’umorismo feroce, cupo. Nomina senatore il suo cavallo da corsa preferito, per dimostrare il suo disprezzo nei confronti dei senatori, li costringe a seguirlo a piedi mentre attraversa la città con la sua lettiga, li minaccia apertamente di morte quando li invita presso il suo desco, per banchetti o pasti ufficiali. E’ chiaro che è in atto un conflitto di potere: il giovane princeps vuole diventare imperator, cancellando ogni residua autonomia del Senato, e l’abitudine che assume di presentarsi in pubblico vestito di sontuosi abiti orientaleggianti, o la pretesa di essere divinizzato (Nel 38 fece introdurre una propria statua nei luoghi di culto di tutte le religioni dell'impero, comprese le sinagoghe), non sono necessariamente sintomi di follia, quanto piuttosto abili mosse politiche per imporsi alle masse con l’immagine di un imperatore orientale, dotato quindi di potere assoluto, considerando il fatto che nell’immaginario collettivo dei popoli antichi l’imperatore era dotato di attributi divini.

L'adorata sorella Drusilla

C’è chi vede nell’improvvisa svolta del principato, da una prima fase liberale e idilliaca alla seconda fase, repressiva ed autoritaria, il segno del definitivo impazzimento di Caligola. Alcuni storici, addirittura, mettono in relazione tale svolta con la misteriosa malattia che colpisce Caligola nei primissimi mesi del suo regno: fra settembre ed ottobre del 37, infatti, egli cade malato, e poiché è ancora nella fase di idillio con il popolo romano, Svetonio racconta di grandi manifestazioni pubbliche per la sua guarigione. Secondo alcuni storici, infatti, la misteriosa malattia di Caligola sarebbe il saturnismo, una intossicazione da piombo attribuibile al rivestimento plumbeo con cui venivano realizzati gli otri in cui, a quei tempi, si custodiva il vino. Tale malattia provocherebbe infatti anche effetti neurologici e psichiatrici, come l’eccessiva irritabilità e disturbi nella coordinazione dei movimenti. Tale teoria è però altamente improbabile. Intanto, dopo la guarigione dalla malattia, Caligola prosegue ancora per altri 3-4 mesi mesi nelle sue politiche liberali e popolari (l’abolizione della tassa sulle compravendite avviene dopo la guarigione). Inoltre, il saturnismo conduce quasi sempre all’impotenza sessuale, ma i racconti di Svetonio ci dipingono un principe piuttosto attivo sessualmente, con mogli di senatori ed amanti varie. E’ invece molto più probabile che la svolta di Caligola derivi dallo smascheramento di un complotto ai suoi danni. Occorre ricordare che l’altro pretendente al trono, Tiberio Gemello, è ancora vivo, e potrebbe covare qualche ambizione. Il Senato sicuramente non ha apprezzato l’idea di restituire alla plebe la possibilità di eleggere i magistrati, e le frange più reazionarie del patriziato non vedono di buon occhio la spesa profusa da Caligola per elargizioni alla plebe, che rischia di tradursi in un esaurimento delle casse dello Stato ed in una conseguente maggiore pressione fiscale sui possidenti ed i ricchi. A sostegno della tesi di una reazione ad un complotto, vi è che Macrone, Flacco e Tiberio Gemello vengono accusati e fatti uccidere praticamente quasi contemporaneamente, e che la reintroduzione del reato di lesa maestà, per rimettere il morso al Senato, viene approvata, insieme ad una denuncia formale di un tentativo di complotto, proprio nello stesso periodo in cui i tre vengono giustiziati.

Tiberio Gemello


La seconda fase del principato: la repressione politica e le avventure militari
Vedendo il suo potere pericolante per i complotti di una classe patrizia troppo reazionaria per apprezzare le politiche liberali e popolari che cerca di mettere in campo, Caligola imprime quindi una svolta autoritaria e repressiva al suo principato. Consapevole del fatto che un imperatore deriva la sua autorità soprattutto dall’effettuazione di campagne militari vincenti, si lancia in una avventura militare, con il proposito di conquistare la Britannia, allora abitata da combattive tribù celtiche, al solo fine di accrescere il suo prestigio e potere personale nei confronti del Senato. Inoltre, Caligola ha l’esigenza, come prestigio, di mantenersi all’altezza del padre Germanico, e dei suoi incredibili successi militari. Prepara la campagna, molto utile dal punto di vista strettamente economico, poiché, benché la campagna di Giulio Cesare, oltre 90 anni prima, avesse assoggettato numerose tribù britanne all’influenza di Roma, non aveva ottenuto un dominio territoriale stabile, che era peraltro costantemente minacciato da altre tribù, più settentrionali e non controllate da Roma. La Britannia è importante economicamente per Roma, poiché fornisce metalli, gioielli, carbone, e già Ottaviano, 12 anni prima della campagna di Caligola, aveva tentato di invadere stabilmente tale terra, ma la sua campagna era abortita. Caligola, quindi, desideroso di procurarsi metalli preziosi e gioielli, per rimpolpare le casse imperiali prosciugate dal suo stile di vita sontuoso e stravagante (fa costruire, per il suo cavallo da corsa preferito, una stalla in marmo ed oro, costruisce nel lago di Nemi due navi enormi, sontuosamente rivestite di marmo, porfido, oro, e decorate riccamente, da utilizzare esclusivamente per feste e ricevimenti) dagli enormi spettacoli circensi che offre al popolo (egli stesso, appassionatissimo delle corse dei carri, si esibisce spesso come auriga nel Circo Massimo, ma inventa anche divertimenti stravaganti, come la volta in cui fa costruire un ponte di barche fra Baia e Pozzuoli, al solo scopo di attraversarlo con i suoi pretoriani e la sua corte, bardato come un imperatore orientale, per farsi ammirare dal popolo all’apice del suo splendore) e dai progetti di opere pubbliche messi in atto, decide di pareggiare i conti con il padre Germanico, e superare Giulio Cesare, conquistando definitivamente la Britannia.

Ricostruzione di una nave di Nemi


La campagna viene preparata in modo meticolosissimo, raccogliendo vettovaglie da tutto l’impero, e mettendo su un esercito enorme, fra 200 e 250 mila uomini. Marciando verso la costa settentrionale della Francia, nel 39 passa dal confine germanico, reprimendo duramente una rivolta di legioni. Ma, giunto sulle coste della Manica, rinuncia all’improvviso all’impresa, limitandosi a ricevere la sottomissione di Adminio, il figlio di Cinobellino, re dei Britanni, che, scacciato dal padre, si era rifugiato presso di lui con un'esile scorta, in modo da far passare la rinuncia a realizzare l’impresa militare come una vittoria. Raccolti infatti alcuni poveracci per farli passare come schiavi di guerra, scrive a Roma che la sua impresa è stata coronata da trionfo, pretendendo che al suo ritorno gli fossero tributati gli onori di guerra.
Proprio a conclusione di questa campagna abortita, Svetonio racconta una famosa storia che dovrebbe avallare l’ipotesi della follia di Caligola. Arrivato davanti alle coste galle, infatti, anziché ordinare ai suoi soldati di approntare navi per attraversare la Manica, dice loro di raccogliere le conchiglie da terra, riempiendosene gli elmi. In realtà, è molto probabile che tale fatto, se mai si è realmente svolto, sia da attribuire ad una forma originale di punizione per soldati ritenuti troppo poco fedeli e poco combattivi. Svetonio, infatti, ci narra di episodi (ufficiali congedati o degradati, premi ridotti) che ci lasciano credere che, molto probabilmente, l’impresa di Caligola abortisce perché il suo esercito gli si ribella contro. L’ordine dato ai soldati di raccogliere conchiglie potrebbe quindi essere, in linea con l’umorismo sarcastico di tale personaggio, un modo per sbeffeggiarli ed umiliarli. Un altro motivo per abbandonare la campagna militare è che in sua assenza, a Roma, il Senato monta una cospirazione contro di lui, e peraltro si rifiuta di tributargli gli onori, come da lui richiesto. Venuto a sapere della cosa, decide infatti di tornare, ma proclamando, tetro, “verrò, verrò, ma questa verrà con me”, mentre tocca con la mano l’elsa della sua spada. Nell’accingersi a tornare a Roma, proclama anche quella che è una vera e propria dichiarazione di guerra contro il patriziato e il Senato. Dirà infatti “torno, ma soltanto per coloro che lo desiderano, per l'ordine equestre e per il popolo, giacché ormai per il Senato non sarò più né un cittadino né un principe”.

Moneta coniata durante il principato di Caligola, con suo volto su una faccia, e l'effigie della dea Vesta sull'altra

Il declino e la fine
Purtroppo per lui, però, Caligola sbaglia i suoi conti. Non è più, come nei primi giorni del suo principato, il paladino della plebe e degli equites contro la prepotenza dei senatori. Il suo fallimento come generale lo pone crudelmente in un confronto perdente con la memoria dell’illustre padre, ed evidentemente, come dimostra il misero fallimento della sua tentata campagna britannica, l’esercito non lo rispetta più. L’impossibilità di raddrizzare l’erario dello Stato con nuove conquiste militari lo costringe ad innalzare la pressione fiscale, che inizialmente aveva ridotto. Istituisce infatti tasse di ogni sorta, attirandosi l’odio del popolo. Secondo Svetonio, nell’ultima parte del regno di Caligola, “sui commestibili venduti in tutte le città venivano riscossi diritti rigorosamente determinati; sui processi e sulle cause, in qualsiasi luogo intentati, si prelevava la quarantesima parte della somma in questione e si comminava una sanzione contro chiunque, prove alla mano, avesse concluso un affare o vi avesse rinunciato. I facchini dovevano versare l'ottava parte dei guadagni giornalieri, le prostitute ciò che guadagnavano da una visita e al relativo articolo della legge si aggiunse un emendamento per il quale erano tenuti a pagare la tassa sia le prostitute, sia i lenoni e anche chi aveva contratto matrimonio”. Inizia a rifiutare la concessione della cittadinanza romana agli italici che la richiedono, violando quindi le leggi che, in tarda epoca repubblicana, concedevano la cittadinanza a tutti i popoli italici e della Gallia Cisalpina, perché la cittadinanza romana comporta notevoli benefici fiscali.
Quando rientra a Roma, il 31 agosto del 41, rinuncia a farsi tributare un ingiustificato trionfo, probabilmente come esito della negoziazione che intrattiene, durante il viaggio di ritorno, con numerose delegazioni senatoriali. Viene quindi accolto con una semplice ovazione, un tributo molto meno prestigioso del trionfo, e significativamente, a testimonianza dell’aria che tira, non vuole che nessuno dei senatori gli venga incontro. E’ oramai un sovrano in declino, odiato dall’intero arco sociale. Non basta a raddrizzare la sua sorte l’abile manovra politica con cui, durante il viaggio di ritorno dal Nord Europa, riesce a sedare una ribellione in Mauritania, facendo giustiziare il re Tolomeo e proclamando tale territorio provincia romana (eliminandone quindi lo status di autonomia), ed a assicurarsi la fedeltà dell’inquieto territorio di Galilea, esiliandone il re, Erode Antipa, a favore del suo fedele amico, Erode Agrippa. Gli rimarranno soltanto poco meno di cinque mesi da vivere, cinque mesi segnati da una scia di sangue spaventosa, con la quale cerca di eliminare i suoi nemici in Senato. Conscio del fatto che Roma non è più un luogo sicuro per lui, cerca di imitare lo zio Tiberio, e medita di trasferirsi stabilmente nella sua città natale, Anzio, o addirittura ad Alessandria d’Egitto, facendone la nuova capitale imperiale. Questo è troppo per i cittadini romani, che si vedrebbero privati dei loro privilegi.
Il complotto finale viene ordito il 24 gennaio del 41. I senatori ed i cavalieri si affidano a due tribuni della guardia pretoriana di origine patrizia, Cassio Cherea e Cornelio Sabino, che proprio per la loro origine patrizia vengono continuamente derisi da un imperatore in guerra contro tale classe sociale (Svetonio afferma che Caligola trattasse Cassio Cherea come un effeminato, affibbiandogli il soprannome di “Venere”). Viene scelto, come luogo dell’agguato, il circo in cui si tengono i giochi palatini, presieduti da Caligola stesso. Ecco il racconto degli ultimi istanti di vita di Caligola, fatto da Svetonio: “poiché esitava a lasciare il suo posto per andare a mangiare, in quanto il suo stomaco era ancora appesantito dal pasto del giorno precedente, alcuni amici, con i loro consigli, gli fecero prendere la decisione di uscire. In un ridotto, per il quale doveva passare, si stavano preparando alcuni ragazzi nobili che erano stati fatti venire dall'Asia per esibirsi sulla scena. Egli si fermò per vederli e per incoraggiarli e se il capo della compagnia non si fosse lamentato di aver freddo sarebbe tornato indietro e li avrebbe fatti esibire subito. A questo punto si hanno due versioni. Secondo alcuni, mentre egli si intratteneva con questi ragazzi, Cherea lo ferì gravemente al collo, colpendolo alle spalle con il taglio della spada e gridando: «Fa' questo!» poi il tribuno Cornelio Sabino, un altro congiurato, assalendolo di fronte, gli trafisse il petto; secondo altri Sabino, fatta allontanare la folla dei centurioni che erano al corrente del complotto, domandò a Caligola la parola d'ordine, secondo l'usanza militare, e questi rispose «Giove»; allora Cherea gridò: «Prendilo per valido!» e mentre l'imperatore si voltava verso di lui, con un colpo gli fracassò la mascella. Steso per terra, le membra raccolte su se stesso, egli continuava a gridare che viveva ancora, ma gli altri congiurati lo finirono con trenta colpi, giacché il grido di tutti era: «Insisti!» Alcuni gli immersero il ferro anche negli organi genitali”. Anche la moglie Milonia Cesonia viene uccisa e, a testimonianza della inutile crudeltà dei congiurati, sua figlia, di appena due anni, Giulia Drusilla, viene uccisa schiacciandole la testa contro il muro, benché fosse improbabile che, lasciata vivere, una donna avrebbe avuto la possibilità futura di vendicarsi.
Ho voluto riportare l’episodio dell’uccisione di Caligola per intero, nella sua crudeltà anche inutile, per evidenziare come non vi fosse alcuna superiorità morale da parte dei suoi assassini. Caligola è stato un dittatore sanguinario e repressivo, ma il patriziato, ed i cavalieri, non erano in nessun modo migliori di lui, e non si fecero scrupoli a versare sangue innocente per preservare il proprio declinante potere.

Conclusione
Caligola fu un principe molto autoritario, certamente un carattere duro, sferzante, crudele, persino nel suo cupo e sarcastico umorismo, un uomo cresciuto nel sangue e nella durezza di una famiglia celebre e sventurata e di premature esperienze di violenza e di intrigo politico. Tutto sommato non fu un grande statista e certamente nemmeno un buon comandante militare, ma quasi sicuramente non il folle delirante che gli storici patrizi dipinsero. Dimostrò anzi abilità relazionale ed astuzia nel sopravvivere alle dipendenze di uno zio come Tiberio, che gli massacrò tutta la famiglia, ed a farsi nominare principe. Fu molto probabilmente anche un abilissimo “comunicatore”: i suoi giochi stravaganti, le sue pretese di divinizzazione, le iniziali liberalità con la plebe, erano evidentemente abili manovre politiche per rafforzare il suo prestigio. Le informazioni e gli aneddoti che vorrebbero dipingerlo come un folle, in realtà, trovano quasi sempre una spiegazione razionale nel quadro di una dura lotta politica o di un carattere duro e sarcastico.
Il suo regno, per quanto breve, è di importanza storica assoluta, perché segna la rottura della tregua fra nascenti istituzioni imperiali (il principato) e morenti istituzioni repubblicane (il Senato) voluta da Ottaviano e proseguita da Tiberio. Sebbene i senatori fossero riusciti ad eliminare fisicamente Caligola, che evidentemente stava tentando di trasformarsi in un imperatore dai poteri assoluti, il suo successore Claudio, creando una nuova classe sociale di burocrati ed amministratori pubblici non provenienti dal patriziato e dalla classe equestre, e direttamente sotto il controllo del princeps, elimina definitivamente ogni residuo di potere senatoriale sull’apparato dello Stato. Vespasiano, alla fine di una lunghissima fase di instabilità politica, 32 anni dopo la morte di Caligola, riforma il Senato, eliminandone la residua autonomia, e di fatto diviene il primo imperatore romano a tutti gli effetti, superando per sempre il compromesso del principato.

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