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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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venerdì 30 novembre 2012

LA RIFORMA ELETTORALE TAILOR MADE di Riccardo Achilli





LA RIFORMA ELETTORALE TAILOR MADE
di
Riccardo Achilli


Quando, poco prima del natale del 2005 fu approvato, alla vigilia delle elezioni politiche, il Porcellum, grida ed alti lai si alzarono dal centrosinistra, che non a torto vedeva nelle tortuose dinamiche di tale legge il modo per bloccare una vittoria già sicura. Oggi, lo stesso autore del Pocellum, ovvero Calderoli, evidentemente riconosciuto in modo bipartisan come il miglior sarto di legge elettorali “ad hoc” per le esigenze del committente, disegna un “lodo” che è fatto evidentemente su misura per far ottenere al centrosinistra, alle elezioni di aprile, una magrissima maggioranza di pochissimi seggi, quindi altamente instabile e necessariamente aperta ad un crollo, nel caso in cui anche solo pochissimi parlamentari dovessero uscire dalla maggioranza.

Si prevede infatti un complicatissimo scaglionamento del premio di maggioranza, che per la coalizione scatta a partire dal 35% dei voti, e che consente di arrivare alla maggioranza risicata dei seggi (50,5%) al raggiungimento del 38% dei voti. Guarda caso grosso modo ciò che i sondaggi attribuiscono oggi al centrosinistra.  Si ottiene così il risultato perfetto, dal punto di vista dell'interesse a mantenere il percorso avviato con Monti: una maggioranza di centrosinistra altamente instabile, facilmente ricattabile da un pugno di parlamentari ben “istruiti”, che dovrà rigare dritta e possibilmente dovrà imbarcare i centristi per essere più solida. Alla faccia di chi, come Bersani, invocava una legge elettorale che garantisse di sapere subito quale fosse la coalizione che avrebbe governato il Paese nei prossimi cinque anni.

Non a caso tutti sembrano essere d'accordo con questo lodo, tranne ovviamente alcuni aggiustamenti tecnici sull'entità delle “aliquote di premio” per far avere qualche seggio in più a questo o a quel partito. Infatti, non c'è nessun interesse differenziale da far valere, fra centrosinistra e centrodestra assolutamente allineati sulla prosecuzione del montismo con altri mezzi, e peraltro la fragilità intrinseca delle maggioranze che emergono da una simile legge è la migliore garanzia affinché si ricostruiscano “grosse koalitione” nel giro di pochi mesi di legislatura, e quindi tutti rientrino in gioco, anche un PDL che è alla soglia del coma farmacologico, e che sarà salvato per l'ennesima volta dal centrosinistra, come regolarmente avvenuto negli ultimi 20 anni (dalle concessioni sul conflitto di interessi ai regolari sfaldamenti del centrosinistra che aprivano la porta al ritorno di Berlusconi e co.). Peraltro il combinato disposto di “scaglioni di premio” (che incentiva l'allargamento delle coalizioni per accedere allo scaglione più alto, che fa scattare un premio superiore), soglie di sbarramento al 5% o forse più, utilizzo del metodo D'Hondt per l'attribuzione dei seggi proporzionali (metodo che favorisce i grandi partiti) non può che generare un effetto centripeto su quei partiti che (come Rc) pensano di rimanere fuori dal centrosinistra. Una legge elettorale di questo genere sembra fatta apposta per attrarli dentro la coalizione. Infine, tale legge ha il “merito”, ovviamente dal punto di vista dei partiti che dovranno portare avanti il montismo, di bloccare Grillo: il premio è in primis di coalizione, diventa di lista solo se nessuna coalizione raggiunge il 35% (e ciò è impossibile) e comunque, anche in quel malaugurato caso, il premio per la singola lista scatta solo al raggiungimento del 25%, ed i sondaggi danno il M5S lontano da tale soglia.

C'è più di un motivo “bipartisan”, invece, per essere fortemente contrari a questo ennesimo papocchio sulla legge elettorale: in primis, perché è semplicemente ignobile che si continui a determinare le leggi elettorali sulla base delle esigenze contingenti, con lo sguardo concentrato soltanto sulla prossima scadenza elettorale, creando quindi leggi costantemente precarie, destinate ad essere cambiate ogni 5 anni. E poi perché una legge elettorale dovrebbe guardare all'esigenza della società di avere una rappresentanza parlamentare il più possibile aderente ai suoi orientamenti, non alle esigenze contingenti dei partiti e dei piccoli gruppi di interesse che li manovrano. Inoltre, una legge elettorale ben fatta dovrebbe essere semplice, comprensibile, ed evitare il più possibile meccanismi farraginosi che rendono difficile all'elettore comprendere come il suo voto possa convertirsi in una data composizione del Parlamento. Non è una questione di lana caprina: una democrazia funzionante si basa sulla massima trasparenza dei suoi meccanismi fondativi. Certo la tabellina allegata alla proposta di Calderoli, che evidenzia gli scaglioni di premio e le relative percentuali, non sembra fatta apposta per raggiungere un simile risultato.

Tutte le sciocchezze che vengono contrabbandate per far passare questo ennesimo papocchio, ad esempio che occorre garantire “stabilità” e governabilità, sono sciocchezze. Intanto perché, come detto, tale legge, proprio perché prevede premi “cuciti” su misura dei risultati dei sondaggi aggiornati a novembre 2012, genererà, ad Aprile, una maggioranza volutamente instabile. E poi perché ci sono esempi chiari (ad esempio la legge elettorale per il Parlamento dell'Uruguay) di leggi elettorali perfettamente proporzionali, senza soglie di sbarramento e senza premi di maggioranza, che garantiscono maggioranze stabili per tutti i 5 anni di legislatura (per esempio grazie al doppio voto simultaneo).

Se si continua a prendere in giro l'elettorato, la terza Repubblica nascerà sotto pessimi auspici. Non democratici. 


mercoledì 28 novembre 2012

LETTERA APERTA ALLA LEGA DEI SOCIALISTI


LETTERA APERTA ALLA LEGA DEI SOCIALISTI





Care compagne e cari compagni,

il precipitare degli eventi economici e politici nel nostro Paese rende le prossime elezioni politiche un vero e proprio spartiacque storico, per il Paese ed ovviamente per la sinistra. Si schiera un centrosinistra, con probabilità di governare ma, a prescindere dalla legge elettorale che sarà utilizzata, certamente con la necessità di un appoggio perlomeno esterno dei centristi, peraltro esplicitamente invitati a partecipare dalla Carta di Intenti del principale azionista di tale coalizione, ovvero il Pd. Tale schieramento accetta esplicitamente, come da Carta di Intenti Comune firmata da tutti i partecipanti alle primarie, Vendola compreso, l'attuale impostazione neo-liberista e monetarista dettata dalla Trojka (Commissione europea, FMI, BCE) in nome e per conto del capitale finanziario globale e dei suoi interessi. Impostazione che di fatto azzera qualsiasi margine di discrezionalità di politica economica, poiché impone il pareggio di bilancio, ed il ritmo di riduzione di un ventesimo di debito pubblico ogni anno per i prossimi vent'anni. Cioè, approssimativamente ed in termini grezzi, manovre finanziarie restrittive dell'ordine di 40-50 miliardi ogni anno per il prossimo ventennio.

Tale impostazione, fatta propria dal centrosinistra, si coniuga perfettamente con una pesante ristrutturazione sociale, volta a smantellare tutti i sistemi di protezione sociale e di tutela della nobiltà del lavoro, conquistati con il sangue di oltre un secolo di lotte sociali dei nostri padri, dei nostri nonni. Ci consegnerà, alla fine, non una fantomatica ripresa “dentro di noi”, ma uno scenario sudamericano di povertà diffusa, ceti medi immiseriti, enormi ingiustizie distributive e di eguaglianza sostanziale, centri urbani fatiscenti circondati da bidonvilles, autoritarismi oligarchici di aristocrazie tecnocratiche chiuse, che salderanno interessi economici, finanziari, ecclesiastici e malavitosi ai danni del popolo, crescente repressione politica.

Tale impostazione è imposta a tutti i soci del centrosinistra, quale che sia la loro visione ideologica originaria, da un partito democratico che nasce come piattaforma interclassista con l'ambizione di esaurire la dinamica sociale in un compromesso che lo collochi al centro di un ipotetico, ed inesistente, equilibrio di forze di una società sempre più diseguale, polarizzata e tesa, come risultato delle politiche montiane dallo stesso Partito Democratico sostenute, dall'inizio alla fine della apocalittica esperienza del Governo tecnico.

Contrariamente a quanto teorizzano alcuni compagni, una polarizzazione di sinistra interna al centrosinistra, costituita cioè da SEL, dal PDCI, dal PSI, da Salvi-Patta e dai Verdi, non ha alcuna possibilità di influenzare e muovere l'asse politico del centrosinistra. Sia per motivi numerici, perché il bacino elettorale dei soggetti del Triciclo a sinistra del PD non è minimamente comparabile con quello del PD, sia perché l'aver stipulato la Carta Comune di Intenti collocherà tali soggetti nello stesso dilemma che ha distrutto Rifondazione comunista e la Sinistra Arcobaleno, ovvero l'incudine di essere accusati di non rispettare i patti ed essere inaffidabili, finendo per riconsegnare la prossima legislatura ad un governo tecnico di larga coalizione, e il martello di seguire gli indirizzi della Trojka marchiati a fuoco nel programma del centrosinistra. Esattamente come il proverbiale asino di Buridano, tale dilemma distruggerà i partiti del triciclo a sinistra del PD, intrappolati fra l'impossibilità di uscire dalla coalizione, e consegnare di conseguenza il governo ad una nuova tornata di Tecnici, e l'impossibilità di sostenere un programma di continuità con il montismo, tranne alcuni piccoli cuscinetti solidaristici, purché non onerosi per la finanza pubblica, quindi sostanzialmente inefficaci. Il futuro dei partiti più a sinistra dello schieramento di centrosinistra è del tutto analogo a quanto avvenuto a RC nel 1997 o alla Sinistra Arcobaleno, a meno che non accettino di diventare meri satelliti del PD.

E chi crede che tali partiti possano rappresentare un incubatore di unità a sinistra ignora, da un lato, l'influenza che le ambizioni carrieristiche ed il personalismo dei singoli leader ed esponenti (i cosiddetti Forchettoni Rossi di Massari) possono avere sulla capacità di manovra di tali partiti, e dall'altro la perdita di bacino elettorale che sarà conseguente alla loro partecipazione ad un governo non dissimile sostanzialmente da quello di Monti. E che già si appalesa nella fine del processo espansivo della SEL, il cui consenso elettorale mostra segni di stabilizzazione, se non di regresso.

Infatti i risultati elettorali delle primarie del PD che si sono svolte questa domenica (25 novembre) hanno segnato una pesante sconfitta di Vendola. Infatti SeL non è riuscita ad intercettare i voti di protesta esterni (quelli del Movimento 5 Stelle, della sinistra del Pd e tantomeno del Pdci, Verdi o Rifondazione o chi ormai ha scelto la strada dell’astensionismo) e soltanto un terzo del suo elettorato si è presentato al voto. Questo dimostra che il progetto politico di SeL di riuscire ad influenzare il centrosinistra dall’interno è fallito prima ancora di iniziare.

D'altro canto, lo scontento sociale viene raccolto quasi esclusivamente da un movimento, come quello di Grillo, incapace di fare il salto da una sorta di supermarket della frustrazione e della rabbia, in direzione di una forza politica in grado di realizzare una sintesi politico-programmatica capace di influenzare l'asse politico in una direzione compatibile con gli interessi di classe. La crescita di Grillo non è frutto di un destino cinico e baro, o di oscure manovre di palazzo, ma è principalmente favorita dall'assenza di una sinistra in grado di rimanere in contatto con il suo popolo, piuttosto che con il Palazzo e le conseguenti manovre elettorali e di coalizione.

La sinistra, se vuole sopravvivere anche in chiave riformista, deve stare con il popolo, con i lavoratori, i precari ed i disoccupati, non coltivare alchimie di coalizione e di tipo parlamentarista. Dobbiamo dare risposte alla richiesta di crescita, lavoro, sviluppo! E non le daremo stando dentro il centrosinistra genuflesso al fiscal compact!

A maggior ragione quando una nuova generazione di giovani a cui non viene più garantito un futuro scende in piazza accolta dallo Stato con pesantissime cariche di polizia e lacrimogeni ad altezza d’uomo, infatti a Roma nelle recenti manifestazioni studentesche è stato dispiegato un apparato repressivo impressionante. E dobbiamo altresì considerare che tutta una serie di lavoratori specialmente immigrati e precari non dispongono di nessun diritto sindacale e vengono completamente sfruttati da questo Stato.

Per quanto sopra, e considerata la gravità del momento attuale, che non consente più né ambiguità politiche né confusioni organizzative a chi vuole opporsi alla tragica deriva del nostro Paese, come Bandiera Rossa, componente a pieno titolo della Lega dei Socialisti, che ha partecipato attivamente all'elaborazione programmatica ed alla strutturazione organizzativa del movimento, chiediamo:

-   che si chiarisca in modo definitivo che la Lega dei Socialisti, in questa fase di medio periodo contraddistinta dalle elezioni politiche 2013, non parteciperà in alcun modo alla coalizione di centro-sinistra costruita attorno al baricentro del PD;

-    che il processo di riaggregazione della sinistra socialista, di cui giustamente la Lega dei Socialisti si fa portabandiera, sia il primo passo per un più ampio processo di aggregazione unitaria della sinistra contraria all'impostazione neoliberista e monetarista delle politiche economiche e sociali condotte in Italia ed in tutta Europa;

-    che si persegua in modo trasparente l'obiettivo di continuare a essere parte integrante di quella sinistra che è scesa in piazza il 27 ottobre nel “No Monti day”, senza indugi, senza pregiudizi negativi sui principali esponenti di tale raggruppamento, lavorando attivamente, da dentro tale schieramento, per evitare derive verso il centrosinistra;

-  l'esperienza storica della sinistra degli ultimi 15 anni dimostra che il tatticismo elettoralistico e di geometrie di coalizione è la malattia infantile, ed anche mortale, del socialismo. La recentissima rude sconfitta di Vendola è soltanto l'ultimo episodio di una sinistra che, privilegiando il dibattito sulle alleanze, le coalizioni e le percentuali, e trascurando il confronto con la società sulle questioni reali, che interessano il cittadino, si è autodistrutta. Chiediamo quindi di posticipare il dibattito sul posizionamento della LDS rispetto alle alleanze ed alle coalizioni a quando il quadro politico sarà più stabilizzato, per concentrare tutte le nostre energie sulla costruzione di un programma politico tramite il più ampio e sistematico confronto con la società civile;

-    che si stabiliscano statutariamente le regole di funzionamento degli organismi politici ed organizzativi interni alla Lega, garantendo la democrazia interna ed una direzione quanto più possibile collegiale;

-    che si conoscano i dati reali del tesseramento, a livello nazionale e per regione;

-    che eventi importanti per la Lega dei Socialisti, quali quello del Primo dicembre, dove incomprensibilmente è mancato un punto sulla politica estera, così come anche proposte programmatiche provenienti da militanti o dirigenti del movimento, vengano preliminarmente discussi maggiormente, su base democratica e trasparente.


Tutti questi motivi ci costringono a costituirci come Bandiera Rossa - Frazione pubblica della Lega dei Socialisti


mercoledì 28 Novembre

                                                         Riccardo Achilli
                                                         Giuseppe Angiuli
                                                         Antonio Di Pasquale
                                                         Norberto Fragiacomo
                                                         Stefano Santarelli






TRIESTE, COLONIA DI UNA COLONIA di Norberto Fragiacomo




TRIESTE, COLONIA DI UNA COLONIA
di
Norberto Fragiacomo


Dopo il secolo d’oro, l’Ottocento, è arrivato per Trieste un secolo duro, anzi durissimo, costellato – in seguito all’annessione italiana del ’18 – di fallimenti, conflitti e drammi sociali.
Nel primo dopoguerra, la rottura del cordone ombelicale con la Mitteleuropa provoca, oltre ad un intristimento generale (ben descritto da Adolfo Leghissa nelle pagine di “Un triestino alla ventura”), la crisi del porto, delle compagnie di navigazione – dirottate su Genova – e della borghesia imprenditoriale, cui il fascismo tenta di porre rimedio industrializzando la città coi soldi pubblici; le politiche razziste portate avanti dal regime scavano però un fossato tra la componente italiana e quella slovena, innaffiando i semi di una discordia che, nel quadro della successiva, rapida decadenza economica e di un costante disinteresse da parte dei governi repubblicani, impedirà ai triestini di fare fronte comune per la salvaguardia dei propri interessi.

Degradata a figura retorica (“la cara al cuore” ecc.), Trieste languisce ai margini di un Paese che, nel ‘15, l’ha usata come pretesto per tradire un’alleanza, e mostra adesso totale indifferenza per il destino del suo scalo e delle sue fabbriche, che serrano i battenti l’una dopo l’altra. Capita, nonostante tutto, che i triestini alzino la testa: la chiusura del Cantiere S. Marco, decisa a Roma nel 1966, provoca un’infiammata rivolta operaia, culminata in durissimi scontri con la polizia. Sarà un fuoco di paglia, un moto d’orgoglio cui presto subentrerà la rassegnazione: non ci saranno battaglie per l’Aquila, la Vetrobel, tante altre realtà condannate.
Trieste che muore, / Trieste appoggiata sul mare”, verrebbe da chiosare, rubando a Venezia i versi scritti per lei da Guccini.

Solo un evento straordinario, la firma del Trattato di Osimo con la temutissima Yugoslavia (novembre ’75) riesce a compattare i giuliani, senza distinzione di nazionalità e credo politico: la paventata istituzione di una zona franca interconfinaria (ZFIC) sul Carso atterrisce egualmente italiani e sloveni. I primi temono soprattutto la slavizzazione della città; i secondi – che pure non vedono di buon occhio l’invasione di lavoratori provenienti dalle repubbliche meridionali – sottolineano i rischi per l’ambiente e il territorio avito.
Stavolta i triestini si fanno sentire, in piazza ma anche nelle urne: la Lista per Trieste, nata nei salotti di ciò che resta della borghesia illuminata, spazza via i partiti tradizionali, DC in testa. La primavera non dura a lungo (la LpT, cui avevano aderito anche esponenti socialisti e comunisti, finirà i suoi giorni ridotta a pro senectute di Forza Italia, autonomia e zona franca integrale rimarranno un miraggio), ma perlomeno l’altopiano sarà salvo.

Da allora tanto tempo è passato, e parecchie cose sono cambiate (alcune in meglio, altre in peggio), ma non l’atteggiamento delle autorità centrali nei confronti della città.
La situazione nazionale è ben nota: al malgoverno Berlusconi è subentrata, con il contributo fattivo del Presidente della Repubblica, una pattuglia di sedicenti “tecnici” - in realtà portabandiera del neoliberismo speculativo -, il cui unico compito consiste nell’imbandire la tavola dei finanzieri con gli avanzi succulenti del sistema Italia (siderurgia, cantieristica, enti previdenziali, sanità ecc.). Fingendo di combattere la crisi la si cronicizza, tagliando tutto: com’è inevitabile, le scelte dell’esecutivo causano danni maggiori nelle zone depresse, decentrate, e laddove è presente la grande impresa (assistita). 

Sin dai tempi dell’impero asburgico l’economia triestina vive di sussidi; inoltre, la posizione eccentrica della città rispetto al territorio italiano si è tradotto, negli anni, in un progressivo smantellamento di infrastrutture e collegamenti, testimoniato dal fatto che la rete ferroviaria nazionale termina a Mestre (la ventilata soppressione del treno notturno Trieste-Roma è soltanto la velenosa ciliegina sulla torta).
Nel breve volgere di quarant’anni la nostra città ha perso quasi il 30% della popolazione, passando da 280 a 200 mila abitanti, e basta una puntata in piazza della Borsa – dove due lavoratori della Sertubi proseguono un disperato sciopero della fame – per rendersi conto che il futuro è nerissimo… anzi, manca del tutto. Alla Sertubi in 150 rischiano il posto; in caso di fallimento della Duke, altri 57 lavoratori rimarrebbero a casa; se sul fronte dell’Alcatel c’è una schiarita, non va dimenticata la moria di piccole imprese – denunciata dalla segreteria provinciale della Fiom – che fa da silenzioso preludio all’esplosione di quello che politicanti irresponsabili definiscono il “bubbone Ferriera”, importante datore di lavoro (mezzo migliaio di occupati, più l’indotto) che nessuno sa con chi e con che cosa sostituire. In questa cornice sembra la provocazione di un dadaista l’idea lanciata da un sindacalista della Failms di far assumere gli esuberi della Sertubi dall’agonizzante stabilimento servolano.

I numeri complessivi danno i brividi: secondo Adriano Sincovich (CGIL) dal 2009 ad oggi si sono persi 6 mila (!) posti di lavoro, e considerato che il settore pubblico non assume più neanche un usciere (anzi, le ultime notizie parlano di riduzioni di personale da parte di Trieste Trasporti, a causa del taglio dei trasferimenti al Comune, con gravi conseguenze anche per l’utenza) e che i prepensionamenti appartengono all’età dell’oro del welfare, l’alternativa per i triestini di ogni età è fra l’emigrazione e la miseria.
Ci sarebbero i punti franchi, decisivi per il rilancio dei traffici portuali, ma “porto” sembra ormai diventata una parolaccia, una bestemmia, come se all’interno dei recinti doganali si svolgessero, anziché proficue attività lavorative, orge di gruppo e sabba infernali. Meglio allora costruire un Superporto S. Rocco, nuova città fantasma accanto a quella che, moribonda, si sta accasciando sui colli. Quanto al turismo, abbiamo già dato conto della situazione di degrado in cui versano alcuni musei cittadini; la conferma è giunta, in mesi recenti, dalla malinconica vicenda del parco riarso di Miramare.
Per risollevarci avremmo disperato bisogno di fondi pubblici; il problema è che, grazie a Monti e al suo fiscal compact (40-50 miliardi di risparmi annui, da qui all’eternità), presto la periferia si ritroverà senza un euro.

Sarebbe ingiusto però asserire che mamma Italia si sia scordata di noi. Al contrario: per mostrarci il suo affetto, ha deciso di farci un regalo. Il cadeau si chiama rigassificatore, un impianto che serve a riportare un fluido, che in natura si presenta sotto forma di gas, dallo stato liquido a quello gassoso. Esistono varie specie di rigassificatori: i più moderni sono vere e proprie navi, poi ci sono quelli di alto mare (ma fissi), e infine quelli terrestri, i più antiquati ma anche i più economici da costruire e gestire. Chissà per quale ragione (v. supra) il nostro sarà realizzato sulla terraferma, nel sito delle vecchie saline di Zaule.
Qualcuno dice che gli effetti sull’ecosistema del golfo sarebbero devastanti (addio alla fauna ittica, non solamente alla sagra del sardòn!), qualcun altro che il traffico delle navi gasiere, che trasportano il gas in forma liquida, ammazzerebbe quello portuale; i più pessimisti, infine, ricordano l’attentato del ’72 ai depositi Siot di S. Dorligo, e affermano che accettare il rigassificatore equivale a dimenticare una bomba atomica nel garage di casa. Eccesso di allarmismo? È probabile, ma nessun impianto è sicuro al 100%, e posizionarne uno simile nel bel mezzo della quarta provincia italiana per densità di popolazione sembra francamente un azzardo.
La pensano così anche le amministrazioni locali (provincia e comuni), ma il loro no è stato bellamente ignorato dalla regione e non turberà i sonni del Governo Monti, che tiene molto di più ai profitti della multinazionale Gas Natural che alla sicurezza e al benessere di una popolazione “coloniale”. Sospetti figli del pregiudizio? Veritas se ipsa defendet, tuonerebbe l’arpinate: la decisione di pubblicare gli avvisi di esproprio su due quotidiani che i triestini notoriamente non leggono (la Stampa e il Messaggero Veneto) è chiarissimo indizio di una malafede equamente spartita tra impresa multinazionale e governo italiano.
Per Monti, Passera e Tondo, dunque, il rigassificatore s’ha da fare, anche a costo – per l’ultimo dei tre – di perdere voti a Trieste. Evidentemente in ballo c’è qualcosa di grosso, e di appetibile – ma non per noi giuliani.
Quel maledetto impianto potremmo accoglierlo solo se ci venisse credibilmente garantito, nell’ordine: 1) che un attentato terroristico (perché diciamolo chiaramente: l’obiettivo è facilmente riconoscibile e “pagante”!) non metterebbe a repentaglio la vita della popolazione residente; 2) che nessun impatto avrebbe il rigassificatore sull’attività portuale, né 3) sull’habitat marino; 4) che lo stabilimento risolverebbe i problemi occupazionali della provincia; 5) che le royalties per il comune ed i benefici economici per la cittadinanza sarebbero ingenti.
Disperiamo che simili prove ci possano venir fornite: Gas Natural ha sempre eluso le domande poste, e l’atteggiamento di regione e governo è – ad essere benevoli – poco limpido. L’argomento, spesso utilizzato, che il rigassificatore “serve al Paese” ci lascia freddi: nei confronti dell’Italia ipocrita, inetta e matrigna Trieste non ha alcun debito di riconoscenza. “Maledeta quela barca che li ga portai”, diceva mio nonno – ed io, alla luce degli avvenimenti storici, sottoscrivo il suo lapidario giudizio.

Si tratta quindi di organizzare una risoluta risposta di massa, come avvenne a metà degli anni settanta. Eravamo molti di più, allora – ma, nonostante la momentanea convergenza d’interessi tra maggioranza e minoranza, eravamo anche più divisi da antipatie e rancori di quanto non si sia oggi.
Calpestando la volontà e le aspirazioni delle comunità locali, il governo delle banche, apparentemente invincibile, sta scherzando col fuoco: non basterebbe la violenza dei battaglioni mobili, oggi, per soffocare centinaia di focolai di protesta.
Più che partecipando alla liturgia delle primarie o affidandosi a pittoreschi ciarlatani, il Popolo sovrano, esiliato nel suo stesso Paese, può “fermare il declino” scendendo in piazza per almeno tre buone cause (sicurezza, ambiente e difesa del lavoro), dopo aver smesso di credere alle fandonie della propaganda di regime.




C’era una volta Trieste


Grote ghe iera anca quela volta,
omini e mule, ma mancava ‘l vin;
leger no se saveva e nanche scriver:
do pupoli sul muro, tut’al più.

Per un de noi no saria propio vita
corerghe incontro sbrindeladi a l’orso,
senza un tocio in estate un calicèto,
la gita coi amizi - e un rebechin.

S’cenza la piera ‘l vecio, ‘l putèl caza
dentro giornade senza nome e scopo;
ma a rider se se impara rente ‘l fogo
e forsi anche a contar le prime fiabe.

Chissà se qualchidun, stanco e iazado
xe sta rapì del rosso del somàco,
co ‘l vento inominà zigava forte
e ssai bonora ‘l sol ‘ndava dormir.

Svola via estati primavere inverni
fin che de quei busacoli vien fora,
umidi e scuri, l’omo agricoltor
che finalmente ‘l pol vardar le stele.

I li ciama castelieri i antenati
dei veci borghi che pitura ‘l Carso;
che lingua se doprassi no so dirve,
manzi e porchi, però, xe sempre quei

e forsi ‘l schinco i lo rivava ‘far.
Magari a vendemiar ghe ga imparado
un grego astuto o un profugo troiàn
bramoso, dopo i strussi, de fraiàr.

Ma intorno a un fiumisèl color del piss
lontàn nassi un paese, zo in cabiria:
gente de fero, che no sta mai ferma
naviga, ciapa e costruissi strade.

Senatus popolusque, zo lignade:
chi no se scansa dà l’adio a la Storia!
El veneto se piega fin per tera,
po scampa bastonà sui monti ‘l galo.

Marenda in furlania, de novo in marcia!
El veteran se specia nel Timavo,
ma per sbararghe el passo i corni ciama
la fiera e mas’cia gioventù istriana.

No xe barufa, xe bataglia vera:
stavolta ‘l consul se la vedi bruta.
Come ‘l nipote, el triestin patoco,
festegia l’istro co’ una bela simia;

ma no xe un zogo col roman la guera,
e ssai salà xe el conto de la piomba
quando, insieme col sol, torna ‘l triario.
L’estrema sfida a l’Urbe xe ‘l suicidio.

No solo s’ciavitù però la porta:
Roma domestica la tera e l’Adria.
El Divo Giulio ga fondà Tergeste,
ma a farla granda xe ‘l suo sucesòr.

Augusto imperadòr sora de un cole
alza basilica, foro e propilei;
che vista!, se inamora ‘l tergestin
strenzendo pian la destra a la sua bela,

e ‘l sogna un longo baso in val Rosandra,
indove ‘l ingegner rapissi il fiume
perché l’arsura in ‘sta zità xe tanta.
Le vide in suso le incornisa ‘l golfo

e a Livia le regala un elisìr
che forsi xe teràn, forsi xe glera
quel che frizante se ofri a san Martìn;
ma brinja e trapa no le iera ancora.

Gnente balòn, domenica, né osmiza,
ma un sior teatro ga tirà su Petronio
con tanto de velario in riva al mar.
Plauto, Terenzio, xe anche el gladiatòr!

Le se lo magna vergine e matrona…
solo coi oci, nissùn che pensi mal.
Ma qualchedun istesso ‘l naso storzi,
ché del sangue - el disi - go la sgionfa

e par che ‘l preghi un mato mai sentì,
forsi un giudeo, ma bon de far strighèzi:
sarà una moda, presto passerà.
Chi legi int’el futuro spesso 'l sbaia.



martedì 27 novembre 2012

TANTO TUONÒ CHE PIOVVE (ma solo su Vendola) di Carlo Felici




TANTO TUONÒ CHE PIOVVE (ma solo su Vendola)
di Carlo Felici


Non ho remore ad ammetterlo, sono stato un sostenitore di Vendola quando si formò Sinistra e Libertà, quando, allora, si ebbe la sensazione che si potesse costruire una sinistra radicale ma non fortemente ideologizzata né egemonizzata da intenti velleitari, con una connotazione spiccatamente socialista, che potesse condurre alla creazione, finalmente, di quel partito socialista di dimensioni europee che da sempre manca all'Italia per essere un evoluto paese europeo.
Credevo, allora, che Vendola potesse validamente interagire con i socialisti, e lo ha fatto in maniera sempre più esplicita, almeno fino alla conclusione della campagna elettorale in Puglia in cui il sostegno datogli dai socialisti è stato forte e chiaro, ma poi, tutto ciò si è fatto sempre più blando, e da leggere tra righe sempre più sottili.Ho partecipato alle fabbriche di Nichi quando ancora erano una sorta di laboratorio costruttivo di scopo, per il suo sostegno alle primarie, fin da vari anni fa.
Qualcuno le ha più viste assieme ai loro colorati slogan e alla loro poesia in questi giorni di affannosi talk show in cui l' autopromozione è parsa giocarsi piuttosto sul terreno dello scuotismo parrocchiale? Che dire? Alla fine, è stata solo gettata una maschera, considerando che l'originale poteva essere meglio della copia.
E così abbiamo sentito che i papi, in fondo, sono meglio di tutti, mancava solo qualcuno che evocasse il fantasma di Gioberti e del suo primato morale e civile degli italiani.

Le primarie come una festa neoguelfa, in un paese in cui il ghibellinismo sembra relegato nella vergogna della politica, annullato dal chierichetto che porta il cero più alto, o dalla voce bianca del comico che in falsetto recita una prece per la democrazia.
Nulla di più deludente, se non la fila per l'obolo dopo che i destinatari hanno consentito all'unto dai mercati di affondare e rigirare le mani, le pale e le palette nelle nostre tasche e nelle nostre case.
E' finita solo la prima parte, la seconda andrà in onda tra poco, ma sarà almeno più schietta, la prima è servita a raccogliere la prima palata di soldoni, la seconda servirà per metterli nel sacco dell'unico e indiscutibile partito che ha sepolto la sinistra italiana e che non vuole nemmeno una prece per il suo funerale.Peccato davvero per quei chierichetti che adesso avranno l'onore dell'abito talare, rientrando mesti nella parrocchia che lasciarono tempo fa con l'altisonante piglio guerriero di voler fare finalmente qualcosa di serio alla sinistra del PD.
Con la secca sconfitta del loro leader che raggiunge una percentuale di gran lunga inferiore a quello che ci si proponeva potesse essere il peso del suo partito nella coalizione con il PD, SEL è praticamente fagocitata, annessa, azzerata nella sua autonomia. Una risata, anche se a denti stretti, sembra davvero che la seppellirà.
E'probabile che molti dei suoi militanti nemmeno andranno a votare al ballottaggio, o che quelli che lo faranno, sebbene tentati dal fare il “loro prezzo” in termini di apertura a sinistra, si sentiranno dire..o così o Renzì...quindi, allineati e coperti, compagni, non è tempo di chiacchiere ma di Bersani..siam mica qui a svendolare bandiera bianca...
E' vero, senza la poesia, senza la narrazione, senza il nuovo vocabolario della politica, è tutto più noioso, tutti più grigio e triste..ma, diamine, ha cominciato ad esserlo quando la fata turchina ci è apparsa nelle vesti della Bindi, e a quel punto, anche Pinocchio ha seriamente pensato di restare burattino con tanto di naso, lei che piuttosto che sentire l'odore lontano del socialismo sarebbe persino disposta a farsi corazzare le narici.

E così, nella via che pensava trionfale, il buon Nichi che voleva andare al governo anche per sposarsi, finalmente, adesso, dopo aver divorziato da pezzi consistenti della FIOM, da Di Pietro, dai suoi ex compagni di RC, e persino dal suo mentore Bertinotti, avendo perso per strada anche De Magistris e con Pisapia recuperato solo in zona Cesarini per gratitudine ricevuta, pare che debba accontentarsi solo del viaggio, perché sia con Renzi che con Bersani e soprattutto con la sua piccola percentuale, l'unica ad andare a farsi concretamente benedire sarà solo una buona parte del suo programma. Il buon Nichi ha tanto “tuonato”, che alla fine è piovuto, ma fantozzianamente solo su di lui.
Sparare sulla croce rossa non è mai stato il nostro forte, per cui ci viene spontaneo pensare subito al dopo, anche prima che la seconda parte della fiction sulle primarie vada in onda.
Dopo c'è e ci sarà praticamente solo il PD? Ecco, questa è la vera domanda, perché mai come in quest'ultimo anno il PD ha dimostrato concretamente di assomigliare al suo finto antagonista: il centrodestra, e in certi casi anche di esserne persino la brutta copia.

Il PD, si rassegnino una volta per tutte i cari compagni socialisti in vena di predellino, non sarà mai un partito socialdemocratico, il solo fatto che vi si competa a suon di conclavi e di papati, e che sia seriamente insidiato dall'OPA di Renzi, lo dimostra abbondantemente. Perché non provare dunque seriamente a fare qualcosa alla sua sinistra? Fantascienza, in un paese in cui da sempre il feudatario più grosso comanda a bacchetta tutti i suoi valvassori e valvassini? Può darsi, ma il solo provarci può almeno restituirci la sensazione di essere ancora vivi.Per credere ancora che “L'Italia farà una decisa politica di pace e di disarmo; ridurrà grandemente le spese militari; propugnerà l'organizzazione unitaria dell'Europa e una politica di libero scambio. Riconoscerà l'autonomia culturale e amministrativa delle minoranze..” Lo scriveva Carlo Rosselli immaginando una Europa migliore di quella in cui gli toccò di vivere e, mutatis mutandis, forse persino migliore di quella in cui tocca a noi di vivere..non sarà la Carta di Intenti, però ci appare di gran lunga una carta più vincente.



lunedì 26 novembre 2012

MAFIA, POLITICA, POTERE, ECONOMIA di Francesco Salistrari







MAFIA, POLITICA, POTERE, ECONOMIA. Ambiti non separabili.
di Francesco Salistrari



Mafia, termine di antichissime origini e dalle disparate tradizioni e interpretazioni, che tende a connotare nell’accezione più comune, un’organizzazione criminale, antagonista all’ordine legale imposto dallo Stato sul proprio territorio.
Le origini etimologiche del termine “mafia” sono talmente varie e disparate e talmente tanti sono i significati attribuiti nel corso della storia a tale termine, che diventa oggi difficile condensarli in un significato univoco.
In realtà, oggi, il termine “mafia” tende ad indicare quell’organizzazione che adotta comportamenti basati su un modello di economia alternativo e convergente a quello legale e governativo per definizione. 

L'organizzazione mafiosa trae profitti da numerosi tipi di attività criminali: traffico d'armi, contraffazione, contrabbando di sigarette, traffico di stupefacenti, traffico di profughi clandestini, gioco d'azzardo, prostituzione, sequestri di persona, racket delle estorsioni, furti e rapine, appalti pubblici e privati, frodi agricole ai danni della UE, usura, traffico rifiuti (tossici e ordinari), riciclaggio denaro sporco, aziende legali e società quotate in borsa, investimenti finanziari, turismo, commercio con l'estero.
Come si può ben comprendere la vastità dell’attività e degli interessi gestiti e difesi, traccia la figura di un sistema vero e proprio, più che di un’organizzazione. Non a caso, riferendosi alla mafia, molte volte si è sentito usare proprio il termine “sistema mafioso”, appunto per definire e condensare in un’espressione, una struttura molto articolata che comprende all’interno di se stessa una determinata cultura politica, economica e sociale. La difesa e la gestione dei suoi interessi peculiari, è proprio ciò che fa della mafia un modello sociale perfettamente integrato nella società in cui prospera e si evolve ed è capace, grazie ad una serie di strumenti, di influenzare (e anche di indirizzare) l’evoluzione stessa della società nel suo insieme.
Il principale di questi strumenti è senza dubbio, la capacità di interagire e soprattutto di diventare parte attiva ed influente del sistema politico di riferimento. La compenetrazione tra apparato statale ed apparato mafioso, non è tanto una “venuta a patti” tra due sistemi divergenti e antagonisti che raggiungono un equilibrio, ma è più che altro il raggiungimento di quell’equilibrio grazie alla fusione dei propri apparati proprio in direzione di alcuni fini comuni che ne caratterizzano gli interessi. Tale fusione, evidente ma non ammessa, resta il tratto caratteristico della capacità di conservazione del sistema mafioso all’interno delle varie società nel corso del tempo. Senza questa compenetrazione profonda, il potere mafioso, seppur potente, radicato e pericoloso, sarebbe senz’altro giunto (soprattutto nei momenti di profonda crisi sociale e di consenso del potere politico) ad uno scontro frontale e mortale con lo strapotere dell’apparato Statale. L’organizzazione e la presenza capillare dello Stato sul territorio, avrebbe senz’altro permesso l’eliminazione o quanto meno un fortissimo contenimento del potere mafioso (si pensi a quello che è successo con la “lotta al terrorismo” politico degli anni '70).

La capacità adattiva e la forza persuasiva del potere mafioso, ne hanno fatto e ne fanno da lungo tempo, non già un’escrescenza dello Stato e del sistema politico, ma un vincolo al quale questi ultimi devono necessariamente rifarsi. Lo stato, ed il sistema politico in particolare, per perpetuare il proprio potere in modo funzionale alla tenuta del sistema sociale, deve per forza di cose favorire, appoggiare e ad accettare il cancro della criminalità organizzata.
A questo punto è utile inserire un termine nuovo per individuare le caratteristiche ed i modus operandi del sistema mafioso. Quello di fenomeno mafioso.
Il fenomeno mafioso, a differenza del sistema mafioso, è l’humus sul quale quest’ultimo cresce e si rafforza. Questo humus, altro non può essere che la società dal quale si genera. L’emergenza del fenomeno mafioso, storicamente ha visto l’avvio proprio nei periodi di cambiamento del tessuto sociale. I periodi storicamente definiti di “crisi” hanno rappresentato in determinate aree geografiche, l’adattamento sociale ai cambiamenti più vasti del sistema economico nel corso della sua evoluzione. Tali cambiamenti, capaci di rappresentare delle sorte di fratture nella continuità del sistema economico, hanno permesso e favorito da sempre l’insorgenza e l’affermazione (e il successivo rafforzamento) del fenomeno mafioso in quanto fenomeno sociale e politico.
Il radicamento di tale fenomeno, in una determinata società, non rappresenta altro che il grado di controllo che il sistema mafioso acquista nel corso del tempo all’interno della propria società di riferimento e in relazione con il proprio sistema politico.
Il fatto che queste considerazioni di carattere generale, sono perfettamente applicabili alle diverse società e ai diversi periodi storici, rappresenta la prova che il fenomeno mafioso ed il sistema mafioso non sono, come si tende a credere, qualcosa di estraneo alla struttura sociale, ma ne sono parte integrante e in taluni contesti necessaria. In altri termini, la società e la sua evoluzione, senza un potere mafioso, strutturato in sistema e capace di influenzare e il più delle volte indirizzare la vita sociale di un paese, non potrebbe essere e non sarebbe quella che è attualmente oggi.
La compenetrazione profonda tra sistema mafioso e sistema politico comunque risponde all'esigenza primaria del primo, di controllare, gestire, inserirsi, diventare attore principale, del sistema economico e finanziario. E' evidente che senza una convergenza di interessi e una condivisione di obiettivi (anche sociali) tra potere “legale” e potere “mafioso”, il sistema economico resterebbe meno permeabile alle influenze del sistema mafioso e verrebbe condizionato in maniera evidentemente minore dai suoi peculiari interessi.
I connotati del rapporto finanziario tra mafia e Stato possono identificarsi nella facoltà della prima di inserirsi all’interno del processo di accaparramento delle risorse pubbliche, ciò avviene attraverso delle specifiche modalità incentrate sulla capillarità e persistenza di collegamenti continuativi e rinnovabili nel tempo con i settori dell’amministrazione pubblica, in deroga palese all’ordinamento legale. Questi collegamenti consentono alla mafia, in quanto gruppo sociale di pressione, di influire attivamente sul processo di allocazione delle risorse pianificato dallo Stato. Essa si pone, così, nelle condizioni di esercitare un controllo che ben presto è divenuto la cappa – paradossalmente protettiva – di fette importanti della società.

Il rapporto di scambio, dal canto suo, si realizza grazie alla capacità delle mafie di porsi come soggetto politico. Un soggetto capace di diventare protagonista all’interno dello scenario politico nazionale, grazie alla facoltà di esercitare un potere in proprio, nel senso che esso è configurabile come una vera e propria signoria territoriale. Questo controllo territoriale si afferma, in effetti, come parziale deroga da parte dello Stato al monopolio della forza. Una deroga che si è spinta fino alla delega di compiti repressivi propri dell’autorità statuale. Il rapporto, dunque, si sviluppa e si articola nell’interazione tra due sistemi di potere che raggiungono un equilibrio attraverso l’individuazione di determinati fini comuni che ne caratterizzano gli interessi.
E’ in questi termini che deve intendersi il processo di formazione e consolidamento, in Italia, di un blocco dominante al cui interno opera un soggetto criminale. Questa formazione è stata, in primo luogo, funzionale alla tenuta dell’assetto politico venuto fuori dalla contrapposizione Est-Ovest della “guerra fredda”, ma non di meno alla conservazione della posizione di predominio e di privilegio di determinati gruppi sociali, soprattutto meridionali.
Alla luce di tante condivisioni e di così articolate convergenze, si può affermare che la mafia non è semplicemente un’organizzazione, è una prassi (politica, istituzionale, economica), è una cultura, è un atteggiamento condiviso.
La mafia, così, appare oggi totalmente inserita nel sistema economico dominante, capace di interpretare e sfruttare al meglio gli strumenti che questi è in grado di fornire. In questo senso, l'evoluzione del fenomeno mafioso può essere vista come un intreccio di continuità e trasformazione: aspetti persistenti, come la signoria territoriale, convivono con aspetti innovativi, come le proiezioni finanziarie internazionali, in un rapporto di apparente contraddittorietà ma, in realtà, di reciproca inclusione. 
L'inserimento sempre più massiccio della “mafia” nel sistema finanziario, attraverso investimenti legali, successivi al meccanismo gigantesco ed illegale del riciclaggio, fanno oggi dell'organizzazione criminale, un attore estremamente presente e influente nel panorama finanziario internazionale. Compartecipazioni in borsa, investimenti immobiliari, controllo di aziende e imprese anche quotate in borsa, gestione e controllo delle attività legate al turismo, sono solo alcuni degli aspetti più evidenti di questo strapotere. I “capitali mafiosi” sono parte integrante e fondamentale delle grandi multinazionali, animano i templi di un'economia finanziaria che governa il nostro mondo sfruttando rendimenti fittizi frutto di capitali virtuali. 
Ma è proprio in questo che si evidenzia, nella maniera più manifesta e non ammessa, la compenetrazione profonda che esiste tra il potere politico e quello mafioso, tra il sistema “legale” e il sistema “criminale”. Sarebbe infatti impensabile una tale preponderanza, presenza e pervasività nelle attività economiche e finanziarie, senza i dovuti e necessari collegamenti con il mondo c.d. legale, statale, politico, senza le connivenze e alleanze con i personaggi e le lobby chiave del mondo politico e finanziario. Connivenze ed alleanze che, nella loro evoluzione storica, si sono sempre più caratterizzate come “unioni organiche”, fino a diventare perfettamente funzionali e imprescindibili per la tenuta stessa del sistema politico ed economico nel suo insieme.

Questo porta ad una considerazione molto importante nella comprensione delle mafie e del sistema da esse rappresentate: il sistema economico dominante, basato sul mercato, diventa parte essenziale del potere mafioso e dell'influenza da esso esercitato, diventa cioè lo strumento necessario attraverso il quale questo potere si esprime. In altre parole, è il sistema economico stesso a fornire quesgli strumenti necessari e irrinunciabili tali da garantire e mantenere un Potere Mafioso. E' in questo che va scorta e rintracciata l'insorgenza della necessità, da parte della mafia, di un legame organico con la politica.
Legame che, oggi, dopo decenni di “ottimo” collaudo, appare fortemente strutturato e difficilmente estirpabile.
Il rapporto di scambio che così si articola, mostra come la natura delle relazioni, delle condivisioni e delle convergenze abbia creato un doppio binario di relazioni reciprocamente interlacciabili e strutturabili. Se da un lato nella dinamica dei rapporti tra mafia e politica, la prima sfrutta tali relazioni per conseguire un'influenza sempre crescente ed una occupazione di posizioni di potere sempre maggiori, garantendo l'accesso (quasi l'elezione) tra le fila della borghesia imprenditrice; dall'altro lato, la politica vede in tanta capacità di influenza la cassaforte in cui custodire i segreti di un successo che, nel caso della Democrazia Cristiana, è stato emblematico.

Ma non è tutto. Il potere mafioso si esplica e si esprime anche attraverso meccanismi e modalità operative più sottili e subdole, fino a configurarsi come parte integrante della cultura stessa di una nazione, fino a contaminarne atteggiamenti e modi di pensare, di comportarsi, di vivere. E' evidente come, date queste immense premesse, sarebbe impensabile, qui, analizzare compiutamente tutti gli aspetti e le problematiche poste dal sistema mafioso nell'economia e nell'ambito sociale di un paese come l'Italia. Alcuni aspetti non sono nemmeno stati accennati, come ad esempio il controllo del mercato del lavoro di determinate aree del paese o l'uso della minaccia armata, o ancora l'infiltrazione mafiosa nel sistema giudiziario o l'influenza e il condizionamento sull'Informazione. Aspetti, tutti, che necessiterebbero una trattazione molto approfondita. Aspetti, del resto, cruciali per la definizione e la comprensione di un potere mafioso.
In realtà, questo scritto si propone semplicemente come spunto di riflessione.



4 febbraio 2009


dal sito http://francescosalistrari.blogspot.it/




sabato 24 novembre 2012

LA TRAPPOLA PER LA CGIL di R. Achilli






di Riccardo Achilli




La firma dell'accordo sulla parziale detassazione del cosiddetto salario di produttività, o di secondo livello, cui la CGIL non ha aderito, rappresenta l’ennesima Caporetto della storica organizzazione sindacale. Intendiamoci: quell’accordo, dal punto di vista macroeconomico, non serve a niente. Si tratta di un incentivo fiscale (peraltro parziale, perché è comunque prevista una tassazione forfettaria sostitutiva di quella ordinaria) sui salari di secondo livello, sostanzialmente sugli incrementi salariali, negoziati in sede di contratto aziendale o accordi territoriali, connessi a straordinario, lavoro supplementare nel part‐time, lavoro notturno, lavoro festivo, indennità di turno o comunque le maggiorazioni retributive corrisposte per lavoro normalmente prestato in base a un orario articolato su turni, sempre a condizione che le stesse siano correlate ad incrementi di produttività, competitività e redditività.
È del tutto evidente che un incentivo fiscale di questo genere, con una disoccupazione elevata e crescente, è addirittura controproducente perché, per dirla con Marx, un incentivo all’estrazione di maggior plusvalore relativo rende superflua l’estrazione di maggior plusvalore assoluto, quindi contrasta con l’obiettivo di aumentare l’occupazione. E non è che la fuffa sulla cosiddetta “staffetta giovani-anziani”, prevista dall’accordo stesso, possa cambiare molto tale situazione. Anche come intervento di sostegno ai redditi ed ai consumi, tale provvedimento appare molto inadeguato. Stime fatte dalla CGIL conducono a ritenere che la contrattazione di secondo livello copra fra il 40% ed il 50% circa degli occupati di industria e servizi. Secondo il rapporto Ocsel della Cisl, poi, solo il 55% degli accordi di secondo livello riguarda il salario. Quindi sostanzialmente i lavoratori interessati dalla detassazione parziale del salario di produttività sono una minoranza, forse il 20-30% dell’intera platea occupazionale extragricola. Ed anche rispetto a chi è incluso, il beneficio in termini di maggior salario netto scatta, evidentemente, al raggiungimento degli obiettivi di produttività. Quindi l’effetto reale di tale accordo sulla domanda aggregata, e dunque sul potenziale di crescita dell’economia, è quasi nullo. Ricordiamo infatti che ci troviamo in un contesto in cui, in termini reali, la produttività del lavoro, seppur poco dinamica, è cresciuta molto più rapidamente del salario, negli ultimi dieci anni, quindi il problema vero è quello di una domanda catatonica, perché se non si può vendere sul mercato la maggior produzione ottenuta con l’incremento di produttività, è tutto inutile. La realtà è che l’unica vera finalità della detassazione del salario di produttività è quella di fornire un ulteriore incentivo alla demolizione del contratto collettivo nazionale ed allo spostamento della “ciccia”, cioè del salario, dalla contrattazione collettiva a quella aziendale/territoriale, contribuendo alla balcanizzazione in atto del mercato del lavoro. Balcanizzazione che, cela va sans dire, penalizza i lavoratori più deboli, le imprese meno sindacalizzate, ecc.
Il problema però è che per la CGIL l’accordo sulla detassazione della produttività era una vera e propria trappola, dalla quale non poteva che uscire sconfitta, quale che fosse la sua decisione, se firmare o meno. La Camusso ha scelto la strada meno dolorosa, evitando di firmare, ma è evidente che la sconfitta sia comunque grave, e lo stesso isolamento dell’organizzazione dimostra in modo plastico la sua sconfitta. E non può essere imputata agli avversari, che hanno fatto il loro gioco, ma soltanto ed esclusivamente all’inesistenza di una strategia da parte del più grande sindacato. La Camusso non può più, dopo aver firmato l'accordo interconfederale del 28 giugno 2011, dire che la CGIL è contraria ad un accordo che consente di travasare quote degli aumenti salariali decisi a livello nazionale sul livello aziendale e che rafforza tale livello di contrattazione a scapito di quella collettiva. Aver aperto la porta all’indebolimento del CCNL in cambio di un accordo sulla rappresentanza sindacale (che fra l’altro deve ancora essere ufficializzato e definito normativamente) fa sì che oggi la Camusso non possa dire “non abbiamo firmato perché la defiscalizzazione della produttività, e la possibilità di far transitare quote di aumenti collettivi sui contratti aziendali, rafforza un modello di balcanizzazione contrattuale e di competizione fra i lavoratori, a tutto vantaggio delle imprese”. Allora si rifugia in formule vaghe, del tipo “questo accordo penalizza i più deboli”, che i Ministri del governo Monti possono facilmente smontare, con conferenze-stampa in cui illustrano i benefici salariali per i (pochi) lavoratori che ne avranno diritto, oppure in rivendicazioni francamente ridicole, come la defiscalizzazione delle tredicesime, che si sapeva già non far parte dell'accordo.
Non è rifiutando la firma di un accordo nazionale, per poi accettarlo “de facto” in migliaia di contrattazioni aziendali a livello di Rsu/Rsa, che la CGIL uscirà dalla processione di continue sconfitte che sta subendo. Uscirà quando comprenderà che non si può essere massimalisti a giorni alterni, e si darà una strategia coerente, da seguire in modo univoco.   
    

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