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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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giovedì 13 settembre 2012

COLPA DI TUTTI, COLPA DI NESSUNO? di Norberto Fragiacomo




COLPA DI TUTTI, COLPA DI NESSUNO?
di
Norberto Fragiacomo
 
Capita, qualche volta (ma non troppo di frequente), di partecipare ad un corso di formazione per dipendenti che sia utile, interessante e persino piacevole. Il prezzo da pagare per tanta grazia – cioè per due buonissime lezioni giornaliere di macroeconomia – ammonta ad un paio di levatacce e quattro biglietti di un treno pomposamente definito “regionale veloce”. Anche il docente è in trasferta: par di capire che insegni all’Università di Trieste; è chiaro, efficace, a tratti coinvolgente. Oltre che sulla “madre di tutte le bolle”, quella dei tulipani in Olanda (1637!), ci intrattiene su Islanda, Ecuador ed Argentina, pur restando ancorato a posizioni “ortodosse”: il mercato saremmo tutti noi, le locuste della speculazione farebbero solo il loro mestiere ecc. Pazienza: già avere un bravo insegnante è una manna al giorno d’oggi, i suoi allievi possono dirsi fortunati.
Il tema Islanda viene approfondito a dovere: non era scontato, visto che, Gad Lerner a parte, dell’isola in fuga dal FMI non si è occupato praticamente nessuno, negli ultimi 2-3 anni – un autentico “cordone sanitario” mediatico, rotto solamente dai blogger. L’analisi che ci viene offerta trascura le vicende più strettamente politiche (la pacifica ribellione, durata settimane, dei cittadini islandesi, che ha prodotto un cambio di regime) e si sofferma sulle cause del crack, oltre che sulle politiche adottate in seguito.

La cronaca non ha colore politico: mettiamo in fila gli avvenimenti secondo l’ordine cronologico, soltanto dopo ci concederemo qualche osservazione personale. Negli anni ’90 l’isola di pescatori ai margini del continente vive una quasi rivoluzione: un’impetuosa ventata liberista scuote l’economia nazionale. Si abbattono le tasse, importanti pezzi di Stato vengono privatizzati e, soprattutto, si recidono lacci e lacciuoli di ogni genere: è deregulation, che interessa in primis il settore bancario. Altro che merluzzi! Tutto è pronto per una pesca miracolosa, e il FMI applaude il suo miglior allievo europeo.
In pochissimo tempo, tre piccoli istituti di credito [1] - fino ad allora più che sufficienti a soddisfare le esigenze di una comunità numericamente ridottissima – si trasformano in banche d’affari (private) e, da folkloristiche nanette di periferia, diventano giganti. Il mercato interno (meno di 300 mila abitanti) è poco attraente: le tre neofite approfittano del boom dell’economia mondiale per sviluppare un giro d’affari – in dollari ed euro – che vale dieci volte il PIL del Paese nordico. Si moltiplicano anche i debiti? Che importa, fin che il drakkar va, l’ottimismo regna sovrano e i profitti, grazie alla dinamicità dei mercati e ai nuovi strumenti speculativi, salgono alle stelle…
Per la prima volta da mille anni a questa parte l’Islanda è terra di immigrazione, e la gente non prova nostalgia per il recente passato: si fa credito a tutti (in corone), all’imprenditore rampante come al padre di famiglia. Il popolo è felice, i banchieri sono popolari quanto Björk e Leif Erikson e il governo, gongolante, invita ad andare avanti di questo passo. Dal tavolo del banchetto cadono briciole succulente, anche se i cibi più prelibati (leggi: i milioni) finiscono nelle pance “giuste”.
Qualche dubbio comincia a farsi strada nel 2006 (la corona sarebbe sopravvalutata del 130%, e una banca incontra difficoltà temporanee), ma l’affermato economista Frederic S. Mishkin minimizza: va tutto per il meglio, al massimo qualche investitore “non ha ancora compreso le specificità del sistema bancario islandese”. Ricco assegno per l'esperto, e  altri due anni di bengodi: a liberopoli la cicala canta sempre la lieta canzone dei mercati, finché un brutto giorno il cittadino, destatosi, scopre che le solidissime Parmalat/Lehman Brothers sono implose “tutt’a un tratto”, e i suoi titoli con rating AAA valgono meno della carta igienica.
2008: crisi bancaria fulminante. Le tre banche ipertrofiche lanciano l’SOS, ma chi può raccoglierlo? Non la pateticamente piccola Banca centrale islandese, fatta su misura per le vecchie casse di risparmio, e snobbata da anni; non le banche britanniche, inguaiate anche loro ma difese dalla Banca d’Inghilterra; meno che mai gli speculatori professionisti, i quali, fiutato il sangue, si fanno sotto.
Al governo tocca scrivere una letterina al FMI che, dimentico degli incoraggiamenti passati, concede il solito prestito a tasso elevato (di 2,1 miliardi) e fa pervenire la sua ricetta, fatta di sacrifici: per gli islandesi si annunciano tempi grami, risalire la china costerà lacrime e sangue.

Giusto così? In fondo, chiosa il nostro professore – citando Willem Buiter, economista capo di Citigrup [2] - “si è trattato di una follia collettiva”: le colpe vanno ripartite tra il governo islandese, che non ha vigilato, le banche, che si sono esposte con operazioni ad alto rischio, gli imprenditori d’assalto e persino le famiglie isolane che, ingolosite dal credito, avrebbero… (beh, diciamolo in neolingua) vissuto al di sopra delle proprie possibilità.
Proviamo ad analizzare criticamente quest’affermazione, in apparenza inattaccabile: effettivamente ai cittadini non dispiaceva avere soldi in tasca, e magari lavorare meno. E’ presente, dunque, quello che un penalista definirebbe l’elemento oggettivo – ma che dire dell’elemento soggettivo, della responsabilità? Il nostro codice richiede, perché si possa parlare di colpa, che l’evento si sia verificato a causa di negligenza o imprudenza o imperizia. L’accettazione di soldi facili non ha nulla a che fare con negligenza od imperizia: al massimo, si potrebbe accusare l’ex pescatore di merluzzi di imprudenza. Nessun pasto è gratis, ammoniscono gli economisti [3] (quasi sempre a cose fatte, ma questo è un altro paio di maniche), ergo i cittadini islandesi avrebbero dovuto… avrebbero dovuto fare che cosa? Rifiutare i prestiti agevolatissimi che le banche proponevano loro, rinunciare a contrarre mutui a condizioni favorevoli, non farsi l’assicurazione privata dopo lo smantellamento della sanità pubblica? Diffidare dei consigli dei governanti (spendete e spandete!), contestare quei banchieri che i più prestigiosi tecnici dell’economia portavano in palmo di mano? Si può chiedere ad un gestore di pub di essere più lungimirante degli analisti di Fitch, ad un pensionato settantenne di prevedere l’esplosione di una bolla che neppure il Governatore della Federal Reserve considerava tale? Altro che “diligenza del buon padre di famiglia”! Dal signor Jònsson si pretendono, a posteriori, doti di preveggenza…

In verità, la menata della “colpa” non sta proprio in piedi: accusare il popolo islandese di irresponsabilità equivale a sostenere che un bambino di quattro anni, ingozzato di caramelle dal genitore ansioso di tenerlo buono, è colpevole di essersi guastato i denti, mentre la colpa è del babbo (nel caso esaminato, il governo), magari in combutta col droghiere (le banche). La conclusione è talmente ovvia che gli isolani ci sono arrivati in un batter d’occhio; eppure, al di qua del mare, si continua a ripetere la tiritera del “tutti colpevoli”.
A che pro? Elementare, Watson: se tutti sono responsabili, nessuno lo è in misura preponderante – e quindi i sacrifici possono essere addossati alla massa, risparmiando chi ha causato il danno. Le parole, e gli slogan, possono indirizzare la Storia.
Gli islandesi, lo sappiamo, non sono caduti in trappola: sfidando i rigori del clima e mostrando una perseveranza tutta nordica, hanno costretto l’esecutivo alle dimissioni, riscritto la Costituzione e – udite, udite! – mandato dietro le sbarre i veri responsabili di quanto accaduto.

Come si conclude la storia? Le banche vengono rinazionalizzate, e i debiti (con l’estero) in gran parte ripudiati; in barba al Fondo, le tasse non aumentano; per rilanciare l’economia si procede ad una robusta svalutazione che però non mette in ginocchio chi ha contratto mutui in moneta estera, perché il welfare pubblico, debitamente potenziato, si prende cura di chi è in difficoltà. PIL azzerato? Manco per sogno: dopo un 2010 da incubo (-15%), a fine 2011 c’è stata la “resurrezione” (+9%!) e, come direbbe il docente, sta tornando il sole. Chi ci ha perduto? Solo i banchieri, i loro tirapiedi governativi e i creditori esteri, quasi tutti britannici, ma il gioco è valso la candela, perché tra affamare il proprio popolo e togliere qualche migliaio di sterline a Mr. Jones di Cardiff (e qualche milione agli speculatori!) la scelta, per un politico indipendente, non si presenta molto difficile.
La lezione da mandare a memoria è la seguente: i guasti del liberismo e delle privatizzazioni selvagge possono essere sanati dall’intervento pubblico, capace di garantire una crescita magari  meno spettacolare, ma generalizzata.
L’alternativa che ci viene additata (per la quale gli economisti mainstream fanno neppure troppo velatamente il tifo), è quella della Lettonia ex sovietica, dove la crisi è stata superata abbassando drasticamente gli stipendi ad una popolazione già avvezza alla miseria: il modello schiavistico avrà le sue virtù, ma – in tutta sincerità – preferiamo di gran lunga vivere nell’Europa sociale che nell’Egitto di Seti.

Un ultimissimo appunto sulle privatizzazioni: quelle italiane del ’92 – ha chiarito il relatore – sono servite a poco, perché i proventi non sono stati utilizzati per ripianare il debito pubblico, che è rimasto costante (120% ca.). Da allora, inoltre, l’Italia non cresce più, mentre prima – malgrado o grazie alle tanto diffamate partecipazioni statali -  il PIL saliva ogni anno. Vuoi vedere che il toccasana - svendite, privatizzazione del welfare e concorrenza in tutti i campi - nuoce al malato e guarisce (rectius: arricchisce) solo il medico stregone? Lasciamo la domanda in sospeso: l’ho scarabocchiata, ieri sera, mentre il treno stava raggiungendo la stazione.
Rincasato, ho appreso dai giornali che i lavoratori di Alcoa, a Roma, avevano pesantemente contestato Stefano Fassina, liberista “di sinistra”, dopo una dura giornata di scontri con la polizia.
Saranno i sardi - isolani come i discendenti di Erik il Rosso, e non meno coriacei di loro - a farci aprire finalmente gli occhi?


[1] Landbanki, Kapthing e Glitnir.
[2] Il tipico banchiere apolide dei nostri tempi: nato in Olanda, colleziona cittadinanze (per ora, vanta quelle statunitense e britannica).
[3] Una cosa è certa: dopo la cena di Trimalcione dei primi anni del 2000, gli speculatori internazionali hanno lasciato il locale senza pagare il conto.



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