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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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lunedì 18 giugno 2012

Syriza: le ragioni per un (moderato) ottimismo



di Riccardo Achilli


La Grecia ha votato. Si è affidata ad un Governo filo-merkeliano che, fra Nd e Pasok, avrà 163 seggi, quindi la maggioranza assoluta. Il risultato elettorale ottenuto da Syriza lascia però più spazi per un moderato ottimismo che per un senso di sconfitta, anche se naturalmente chi è ostile all’unità della sinistra radicale (e per ciò stesso ostile alle ragioni del lavoro e degli oppressi) ne trarrà motivi per criticare, o addirittura per gioirne, in nome di un purismo ideologico dello zero virgola qualcosa.
I motivi di ottimismo non sono soltanto nel risultato elettorale in sé, che è straordinario, poiché Syriza arriva al 26%, ed è oggi, in Europa, il più importante partito che si richiama al socialismo radicale ed all’antiliberismo reale (che va cioè oltre un riformismo di maniera, inadatto ad affrontare le sfide sociali che il degrado del capitalismo, e la sua ennesima metamorfosi guidata da istinti animali di tipo liberista, pone).
I motivi di ottimismo risiedono nel fatto che il progresso di Syriza (che nel giro di un mese guadagna quasi dieci punti percentuali, fra una tornata elettorale e l’altra, e ciò in assenza di effetti matematici attribuibili ad una contrazione della platea di elettori, visto che il dato sull’astensionismo, in questa seconda tornata elettorale, è addirittura lievemente più basso rispetto alla prima) evidenzia una radicalizzazione dell’opinione pubblica greca, nell’unico modo in cui, a mio avviso, nella presente congiuntura il proletariato di un Paese con una tradizione di alto livello di benessere (alto livello che esisteva prima del 2010, ovviamente) può radicalizzarsi.
E’ evidente che la vittoria di Samaras, un esponente di Nd, responsabile, come il Pasok, della tragedia greca, mette a nudo i limiti del meccanismo elettorale borghese, influenzato dalla possibilità, da parte delle forze conservatrici, di manipolare l’opinione pubblica tramite la superiore leva finanziaria che può essere investita in comunicazione politico-elettorale. Tutta questa campagna elettorale è stata pesantemente influenzata da una comunicazione mediatica ostile a Syriza (ancora ieri pomeriggio Repubblica, che invece di organizzare passerelle mediatiche dovrebbe vergognarsi, proponeva lo scontro elettorale greco come un referendum pro e contro l’euro, omettendo di dire che lo stesso Tsipras ha sempre detto di voler rimanere dentro l’euro). Commentatori politici pagati dalla Siemens o da qualche altra multinazionale che fa affari sulla pelle della Grecia hanno addirittura detto che in realtà Tsipras non voleva governare, ma restare all’opposizione. La stessa Merkel, con un atto gravissimo, che meriterebbe la rottura delle relazioni diplomatiche, ma che però nessuno ha criticato, ha osato intervenire nel processo elettorale di un Paese sovrano, invitando gli elettori greci a votare Nd o Pasok, dopo averli ripetutamente ricattati con la minaccia di non erogare più le tranche di prestiti del fondo salva-Stati, vitali per la stessa sopravvivenza del Paese, oramai in default conclamato.
In definitiva, a mio parere il voto a Samaras è stato guidato, per un buon numero di elettori greci, oltre che dalla paura irrazionale del salto nel vuoto di una uscita dall’euro, indotta dalla propaganda politica scorretta effettuata dalla controparte, anche da una considerazione di pratico cinismo, atteggiamento che tende a prevalere quando la coscienza di classe si affievolisce e le ideologie vengono considerate “superate” da una sottocultura di modernismo da trogloditi (che peraltro non supera le ideologie, posto che anche il liberismo è una di esse, tende solo a schiacciare quelle considerate “sgradite” al padrone del vapore). Un certo numero di elettori deve aver pensato che, in fondo, posto che la Ue, prima del voto, si era dichiarata disponibile a fare qualche ridicola concessione sul memorandum, un eventuale Governo a guida Tsipras non avrebbe potuto ottenere molto di più, posto che sarebbe comunque stato un Governo di transizione dipendente, per la sua sopravvivenza, dai condizionamenti dei filo-merkeliani del Pasok, e posto che comunque la Grecia non ha il peso economico, e quindi politico, per influire sulle decisioni europee. Quindi, se secondo molti elettori Tsipras non avrebbe avuto comunque la forza per ottenere più di quello che la Ue si era già detta pronta a concedere, allora tanto valeva votare per il vecchio azzecca-garbugli dei conti pubblici, ovvero Samaras (ex Ministro delle Finanze e referente per le questioni economiche di Nd), rappresentante di un partito come Nd che in fondo, con la complicità delle multinazionali tedesche e della Ue, era riuscito a regalare al Paese diversi anni di una prosperità basata sul debito (come avvenuto con la mostruosa spesa per le olimpiadi del 2004, quando proprio Nd, con Karamanlis, era al Governo). La speranza di molti elettori è che ovviamente alla vecchia faina riesca qualche altro trucco, per ricostituire in qualche modo il circuito della spesa pubblica, magari sfruttando il buon rapporto che Samaras ha con la Commissione Ue, e così salvarli dal baratro.
Questo atteggiamento del tipo “meglio la vecchia faina che la giovane tigre” è però un errore. Non è vero che Tsipras non avrebbe ottenuto molto di più di ciò che otterrà Samaras, e che la Ue è già pronta a concedere. Va infatti ricordato che il prossimo 28 Giugno si terrà un Eurogruppo fondamentale, dal quale si dovrà uscire con una idea di politica economica per la ripresa della crescita. Il fatto che in Grecia vi sarà un altro fedele esecutore delle direttive del Capitale finanziario avrà sicuramente ripercussioni sulle decisioni di tale vertice.
La presenza di Samaras in luogo di Tsipras a tale vertice eviterà, a mio parere, che vi sia una vera mutualizzazione del debito pubblico dei diversi Paesi, consolidandolo a livello europeo. Infatti, solo la presenza di uno Tsipras in grado di picchiare i pugni sul tavolo e minacciare il congelamento unilaterale del memorandum avrebbe potuto rappresentare un incentivo agli eurobond. Perché in realtà la Merkel non ha nessuna pressione reale a fare questo passo. E’ inutile illudersi che Hollande e Monti, pur se a parole favorevoli agli eurobond, faranno molto per imporne l’adozione. Questo perché la Bce, che rappresenta gli interessi del Capitale finanziario, è chiaramente ostile alla mutualizzazione del debito. Il suo governatore Draghi ha infatti affermato che “non è possibile trasformare l’eurozona in un’unione di trasferimenti finanziari dove uno o due Paesi pagano e gli altri spendono. E il tutto finanziato dagli eurobond”. E l’Ocse, anch’essa legata agli interessi del capitalismo finanziario, ha dichiarato, tramite il suo segretario generale Gurria, che “la mutualizzazione del rischio già esiste, nel Fondo salva-Stati” (il che non è vero, poiché il rischio rimane a carico del Paese debitore, i Paesi che conferiscono risorse nel Fondo salva-Stati rischiano soltanto la quota di conferimento).
Si può credere che Hollande e Monti, di fronte alle pressioni del capitale finanziario, e senza la contropressione di uno Tsipras, difenderanno gli eurobond al punto di piegare l’ostinata resistenza tedesca? Mi pare impossibile. Alla fine, prevarrà il compromesso raggiunto fra la Merkel e la Spd, ovvero il “redemption fund”, uno strumento che non consente di mettere i debiti pubblici nazionali in comune, ma ne lascia l’onere ai singoli Stati, tenuti a trasferire a tale fondo la quota di debito pubblico che supera il 60% del PIL, obbligandoli a pagare annualmente una quota capitale, per l’estinzione entro 20-25 anni, più ovviamente gli interessi. Tale strumento è perfettamente coerente con la filosofia liberista del fiscal compact, e non consente alcun alleggerimento del fardello sociale imposto ai Paesi PIIGS. E’ utile per tranquillizzare l’elettore tedesco. Ma non per risolvere i problemi. La Grecia, come l’Italia, rimarrà sottoposta alla stessa pesante disciplina di bilancio, la sua economia rimarrà in recessione o al massimo di stagnazione per anni, riducendo di conseguenza la stessa capacità di creare nuova ricchezza necessaria per pagare le quote al redemption fund.
Non si capirà come solo una soluzione europea e solidale possa consentire all’Europa di uscire dal pantano, posto che l’Eurozona nel suo insieme è virtuosa: il rapporto tra debito pubblico e Pil aggregati è infatti molto inferiore a quello di Stati Uniti e Giappone (87% contro 100% e 200%); il deficit/Pil è addirittura metà di quello USA (4% contro 8%). Data la bassa rischiosità dell’Europa nel suo insieme, i rendimenti degli eurobond sarebbero molto bassi e i paesi in crisi debitoria non avrebbero difficoltà a rifinanziare i propri titoli in scadenza a costi inferiori. I più bassi tassi di interesse consentirebbero inoltre uan ripresa degli investimenti e della crescita. Ciò è già stato sperimentato con successo con la nascita degli Stati Uniti: quasi tutti gli Stati erano sovraindebitati ed insolventi, ed il ministro del Tesoro di allora li risanò accentrando tutti i debiti con l’emissione di titoli federali.
Quindi per la Grecia, senza Tsipras e con Samaras, ci sarà soltanto un po’ di riduzione dei tassi di interesse sui prestiti del Fondo salva-Stati, un po’ di riscadenzamento temporale degli impegni del memorandum (che però rimarranno quantitativamente identici a prima), un po’ di investimenti della BEI in infrastrutture digitali e trasportistiche (una tipologia di investimento che però, nell’immediato, crea soltanto un po’ di occupazione di cantiere, precaria e legata al tempo di esecuzione dell’investimento, e nemmeno molta occupazione indiretta ed indotta, posto che il settore delle costruzioni rappresenta il 5,3% del valore aggiunto greco, a fronte del 6,2% della media dell’area-euro – dato Eurostat 2010; mentre gli effetti strutturali di tale tipologia di investimento si fanno sentire solo in tempi medio-lunghi, quando cioè l’opera è realizzata, ma la Grecia ha bisogno di uno shock di crescita positivo oggi, non fra cinque anni). Queste concessioni non tireranno fuori dal pantano la Grecia, e nemmeno l’Europa; l’elettore tedesco terrorizzato dagli eurobond non viene portato da nessuno ad un ragionamento semplice, ovvero “a chi esporterà la Germania, se l’Europa centro meridionale viene ammazzata?” Il nuovo tonfo delle Borse e degli spread di oggi dimostra come gli stessi mercati finanziari siano consapevoli del fatto che aver tolto di mezzo la minaccia-Tsipras, per difendere le carabattole liberiste ( il fiscal compact, il redemption fund, i piani di rientro nazionali, l’ESM, ecc. ecc.), non si traduca in alcuna soluzione strutturale alla crisi.
Non si va da nessuna parte senza maggiore solidarietà europea sulla gestione dei debiti pubblici nazionali, e senza una politica chiaramente orientata alla crescita della domanda per consumi, partendo dalle fasce più povere ed a maggior propensione marginale al consumo, e senza un nuovo ciclo di investimenti pubblici su settori ad elevata ed immediata capacità di creazione di occupazione stabile (non di cantiere) come energia, ambiente, sanità e protezione sociale, e senza una regolamentazione europea a statunitense severissima sulle transazioni finanziarie “over the counter”, e senza una politica monetaria ricondotta sotto il controllo dei popoli, e non gestita da tecnocrati dietro la sciocca idea dell’indipendenza delle banche centrali (in realtà dipendenti dai poteri finanziari) e senza una politica sociale mirata a ridurre le diseguaglianze economiche e di accesso ai beni comuni, e senza una reale integrazione di popoli migranti, e senza una attenzione prioritaria alla qualità della vita e dell’ambiente, e senza un ritorno ad una programmazione pubblica che nasca dal basso, con idonei strumenti di pianificazione condivisa e partecipata, e senza strumenti di reale compartecipazione dei lavoratori alle loro imprese, e senza un rilancio del cooperativismo come strumento che vada al di là della concorrenza di mercato in nome del benessere degli individui e della società, e non del profitto.
Tutto ciò è reso più difficile dalla mancata vittoria di Tsipras. Però, ed è per questo che sono ottimista, in una fase in cui le condizioni soggettive per una rivoluzione non sembrano esservi, e non soltanto perché manca un partito-guida, ma anche perché ampie fasce dei proletariati nazionali dei Paesi sottoposti a piani di rientro, hanno una coscienza di classe annacquata da decenni di benessere, e quindi non chiedono un cambiamento di sistema, ma semplicemente il ritorno (impossibile) a quel benessere precedente, il meccanismo elettorale, pur con tutti i suoi limiti, segnala una radicalizzazione in senso antiliberista all’interno della società greca. Ciò non è sufficiente, per ora, a produrre un cambiamento di paradigma, ma sicuramente contribuisce a dimostrare che, nonostante tutti gli sforzi messi in atto per imporre il pensiero unico liberista, tale pensiero unico non solo non è unico, ma è addirittura in regresso fra i popoli più duramente colpiti dal morbo liberista. La stessa speranza dell’elettorato greco di riuscire a sfangarla affidandosi alla vecchia faina di Nd sarà sottoposta a una disillusione, quando diverrà evidente che il vecchio caro Samaras si allineerà acriticamente a politiche europee che non produrranno alcun effetto positivo sulla situazione disperata in cui versa il Paese. Ed allora, inevitabilmente, l’onda antiliberista vista ieri diventerà una marea. Sempre che Tsipras non commetta l’errore di Mélenchon, e rimanga coerentemente e lealmente avverso al Governo filo-merkeliano che si metterà in campo con la coalizione Nd-Pasok.

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