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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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sabato 29 ottobre 2011

Dalla Libia alla Tunisia, di Riccardo Achilli


In questo articolo cercherò di comparare la situazione attuale della Libia con quella della Tunisia, per evidenziare le possibili prospettive di avanzamento del socialismo nei due Paesi, dopo che le rivolte hanno spazzato via i precedenti regimi.
Iniziando dalla Libia, il quadro prospettico di un possibile avanzamento della sinistra radicale, dopo la fine della Jamahiriyah, appare ad oggi piuttosto problematico, anche se ovviamente non impossibile. Nel mattatoio che è divenuta la Libia post-Gheddafi, le organizzazioni umanitarie e gli osservatori esterni segnalano l'inevitabile precipitare di una spirale di vendette e regolamenti di conti tribali, ed anche personali, che potrebbero preludere ad una lunga guerra civile senza prospettive progressive per il popolo libico, se non addirittura, nel peggiore dei casi, ad una disintegrazione del Paese. Secondo alcuni osservatori sul campo che hanno preferito restare anonimi, le esplosioni dei depositi di benzina a Sirte nei giorni scorsi, sono servite al CNT per sbarazzarsi di decine di cadaveri di lealisti assassinati, mentre i 12 corpi ritrovati nel punto in cui Gheddafi e suo figlio sono stati catturati non hanno ferite tipiche di un combattimento, ma solo un colpo di precisione alla nuca, come in un'esecuzione. Secondo HRW, 53 cadaveri sono stati ritrovati in un albergo di Sirte, molti dei quali con le mani legate dietro la schiena, ma il CNT smentisce ogni responsabilità, e si rifiuta di fornire informazioni sulla sorte dei circa 7.000 prigionieri di guerra, che sempre secondo gli osservatori esterni è molto precaria.
Alle accuse loro rivolte, i responsabili del CNT rispondono con richiami alla moralità musulmana, come fatto ieri durante una conferenza stampa da Ahmed Bani, portavoce del Ministero della Difesa del CNT (“puniremo gli abusi, ce lo impone la nostra etica musulmana”) che, insieme ad un progetto di Costituzione che pone la sha'aria al centro dell'ordinamento giuridico, evidenziano un chiaro orientamento islamista nei nuovi padroni del Paese. Lo stesso scempio mediatico fatto del cadavere di Gheddafi (e la sua uccisione senza un processo) terminato nell'ultimo affronto (gravissimo per un musulmano) di non tenere conto delle sue ultime volontà di essere sepolto a Sirte, non potrà che aizzare la rabbia e la determinazione a difendersi fino allo stremo delle forze da parte delle tribù e degli individui che sono rimasti fedeli al Qaid fino alla fine, prospettando uno scenario “iracheno”, in cui i lealisti (proprio come i baathisti dell'Irak post-Saddam) continueranno a combattere una guerriglia sanguinosa, vista come l'unica strada per sopravvivere in un paese che è a loro ostile. Come era facile prevedere, il rischio enorme è quello di una spirale di violenza guidata soltanto da sete di vendetta, da regolamenti di conti tribali e dal disperato tentativo di sopravvivere, quindi priva di una direzione politica favorevole al popolo libico, anche perché il partito comunista libico, a seguito di una lunghissima repressione che risale ai tempi del colonialismo italiano, e prosegue con Re Idriss e con Gheddafi, ha oggi, apparentemente, un radicamento piuttosto ridotto, e quindi dovrà lavorare duro per costruire una base di consenso.
Il suo lavoro potrà essere facilitato dalla possibilità di sfruttare il più che probabile impoverimento del Paese, che sarà spogliato della sua ricchezza dalle potenze imperialistiche che hanno sostenuto il CNT e che oggi si apprestano ad assumerne il controllo, sotto la scusa di un contributo alla sua “stabilizzazione” (ancora ieri, in una forma del tutto irrituale e scorretta istituzionalmente, il Segretario alla Difesa degli USA, Leon Panetta, ha di fatto approvato la richiesta del CNT di prolungare la missione NATO del Paese, senza nemmeno aspettare il pronunciamento del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, cui compete tale decisione, con la solita scusa di contrastare possibili derive qaediste).
Le cose potrebbero andare meglio in Tunisia, dove lo sviluppo delle forze produttive e sociali, già prima della rivolta che ha cacciato Ben Alì, è molto più avanzato che in Libia (Paese sostanzialmente pre-capitalistico e con un proletariato nazionale molto esiguo numericamente, posto che gran parte del proletariato è costituito da immigrati, e con una borghesia poco sviluppata, essenzialmente rappresentata da ex tecnocrati del passato regime). In Tunisia, invece, la svolta liberista di Bourguiba, accennatasi già dagli anni Sessanta, affermatasi con le politiche liberiste del primo ministro Hédi Nouira negli anni Settanta, e proseguita con Rachid Sfar e poi con Ben Alì, ha creato da un lato una borghesia nazionale di piccoli e medi imprenditori, non di rado cresciuti all'ombra dei circuiti di sub fornitura e di conto terzismo per le grandi multinazionali che investivano nel Paese, e dall'altro un proletariato industriale relativamente folto, alimentato proprio dagli investimenti industriali provenienti dall'esterno, facilitati dalla liberalizzazione del Paese, e dai circuiti di sub fornitura e conto terzismo (gli addetti dell'industria, che nel 1966 rappresentavano il 20,9% dell'occupazione totale, nel 2003 sono saliti fino al 33,3%, una percentuale superiore anche a quella di alcuni Paesi europei, M'Barek, 2005). Il peso dei legami tribali è molto meno rilevante che in Libia, e il seme della secolarizzazione è stato gettato, anche se non ha prosperato più di tanto, dal regime destouriano, caratterizzato da un forte laicismo (venato anche, però, da aspetti pragmatici ed opportunistici: ad esempio, la più grande moschea di Tunisi è stata voluta e costruita, circa dieci anni fa, da Ben Alì, proprio a pochi passi dalla sua abitazione privata, quasi a voler simboleggiare una riappacificazione fra il regime e la religione musulmana). In sostanza, la Tunisia ha un capitalismo più moderno e maturo rispetto a quello libico, anche se, come sanno i marxisti, non esiste, empiricamente, alcuna connessione rilevante tra la probabilità di una rivoluzione ed il grado di sviluppo delle forze produttive indotto dalla maturazione del capitalismo (posto che rivoluzioni socialiste sono esplose in Paesi molto arretrati, come la Russia, la Cina o Cuba).
Tra l'altro, in Tunisia, la Rivoluzione vera e propria deve ancora iniziare. Infatti, la cacciata di Ben Alì ha prodotto, per adesso, soltanto la vittoria elettorale, alle recenti elezioni per l'Assemblea Costituente, dell'islamismo moderato e liberista in materia economica e sociale di Ennahda, ovvero un movimento politico con base elettorale nella piccola borghesia commerciale ed artigiana, nei piccoli proprietari agricoli, nei segmenti del proletariato più tradizionalisti, in gran parte nel sottoproletariato urbano dei disoccupati e degli emarginati, spesso beneficiari, con lo smantellamento del vecchio stato sociale di Bourguiba operato da Ben Alì, degli interventi socio-assistenziali “sostitutivi” operati dalle moschee di quartiere (ovviamente in cambio di operazioni di reclutamento politico/religioso degli assistiti), ma anche in aree del ceto impiegatizio del passato regime, e finanche in alcuni settori del ceto intellettuale, discriminati,ai tempi di Ben Alì, per il loro islamismo. A livello internazionale, Ennahda è alleata strettamente con gli interessi del grande capitale industriale internazionale, che ha effettuato importanti investimenti nel Paese. Va tenuto infatti presente che nel 2008 la Tunisia riceve flussi di Ide in ingresso pari al 70,1% del PIL nazionale; ma nel 2009-2010, in piena rivolta, tali flussi arrivano a rappresentare circa il 78,5% del PIL nazionale, contro una media mondiale del 30,5%, ed una media nordafricana del 32,4% circa (dati Unctad). In sostanza, nemmeno la rivolta che ha insanguinato il Paese ha rallentato la crescita del peso economico degli investimenti diretti delle multinazionali, che evidentemente, quindi, contavano di poter mantenere il controllo dell'economia nazionale, anche dopo l'estromissione di Ben Alì, tramite alleanze con i futuri padroni del Paese. Tale alleanza con il grande capitale consente ad Ennahda di ricevere ingenti finanziamenti esterni. La campagna elettorale fatta da questo partito, per le elezioni dell'assemblea Costituente, è stata infatti la più spettacolare, capillare, ed ovviamente costosa, e non è spiegabile né dalla Zakat (sorta di imposta volontaria per i partiti versata da contribuenti) né dalle donazioni degli iscritti al partito (spesso si tratta infatti di gente povera). Secondo l'opposizione laica, i grossi finanziamenti per tale partito (che ha una sede centrale in un edificio ultramoderno di Tunisi, una rete molto capillare di sedi periferiche ed anche una organizzazione molto estesa di associazioni di beneficienza, cfr. http://www.adelfo.it/2011/10/elezioni-in-tunisia-in-attesa-di-una-vittoria-degli-islamisti-di-ennahda.html) provengono dal Qatar, che come è noto, fin dai tempi della prima guerra del Golfo, è uno dei più affidabili alleati che il capitalismo occidentale ha nel mondo arabo (persino più affidabile della stessa Arabia Saudita, che ha da sempre mire espansionistiche sul piccolo califfato, mire contrastate proprio dall'importanza che gli USA annettono alla loro amicizia con il Qatar).
In buona sostanza, Ennahda propone per la Tunisia lo stesso modello di islamismo moderato, associato a liberalismo in materia economica e sociale, e ad un programma di facilitazioni fiscali e doganali per gli Ide del tutto analogo a quello di Ben Alì, e rispettoso delle forme esterne delle democrazie liberali, che è alla base del governo di Erdogan in Turchia (e che ha consentito a tale Paese di entrare appieno nei circuiti dello sviluppo capitalista globalizzato, beneficiando di tassi di crescita economica molto rapidi, alimentati da importanti flussi di Ide, tali da avvicinarlo addirittura ad un possibile ingresso nella UE). I suoi riferimenti ideali, per bocca dello stesso leader Rachid Gannouchi, sono, mutatis mutandis, nella democrazia cristiana italiana e nel partito cristiano-sociale tedesco. La posizione ufficiale del partito è la seguente: “noi non vogliamo una teocrazia. Noi vogliamo uno Stato democratico caratterizzato dall'idea di libertà”. ( per il riferimento alal demcorazia cristiana italiana e tedesca e per le dichiarazioni virgolettate, cfr. l'intervista rilasciata da Samir Dilou, portavoce del partito, alla Deutschland Radio il 18.05.2011). In un articolo per la Sueddeutsche Zeitung del 04.06.2011, Rudolph Cimelli nota che Ennahda non è ostile affatto alla libertà di mercato, e rappresenta quindi una opzione più affidabile, per gli interessi del capitale, rispetto ai partiti di sinistra del Paese. Ancora, in una dichiarazione del 12 ottobre scorso, Gannouchi afferma “perché veniamo accostati (dagli avversari, ndr) a modelli lontani dal nostro pensiero, come i Talebani o il modello saudita, quando esistono altri modelli islamici di successo più vicini a noi, come i modello turco, malesiano o indonesiano; dei modelli che combinano Islam e modernità, religione ed economia?” (cfr. http://www.thehindu.com/opinion/lead/article2529040.ece) . Tutto ciò è ovviamente molto rassicurante per i grandi investitori internazionali che, dopo la caduta di Ben Alì (loro grande amico) pensano di imbrigliare la rivolta tunisina (rtivolta che, ricordiamolo, essendo stata la prima nella cronologia della Primavera araba, riveste anche una valenza simbolica particolare) in un islamismo moderato e “investor friendly” alla Erdogan.
Ma l'ottimismo del grande capitale potrebbe essere mal riposto, e vendersi la proverbiale pelle dell'orso prima di averlo ammazzato. Va infatti segnalato che, nelle elezioni per l'Assemblea Costituente, i partiti dell'estrema sinistra hanno ottenuto risultati relativamente incoraggianti. Il partito comunista dei lavoratori di Tunisia ha infatti raccolto 3 seggi; il Polo Democratico Modernista, una coalizione che ha al suo interno anche il partito socialista di sinistra, ne ha ottenuti altri 3; il Movimento dei Patrioti Democratici, che nonostante il nome è un partito con una linea ideologica marxista e panaraba, raccoglie un seggio. Non è poco, perché consente di dimostrare la vitalità e la visibilità dell'estrema sinistra all'interno del proletariato tunisino, ed è una base dalla quale partire per estendere la capacità di radicamento e di lotta. Certo molto dipenderà dall'abilità di questi partiti di sottrarre all'islamismo moderato di Gannouchi i settori proletari e sottoproletari che vi aderiscono, o per convinzioni religiose soffocate ai tempi di Ben Alì, oppure perché legati, per comprensibili ragioni di sopravvivenza, alle opere di assistenza sociale che le associazioni di beneficenza legate ad Ennahda (ed alle gerarchie religiose) svolgono in un Paese socialmente devastato da decenni di liberalismo selvaggio e dalla crisi economica e politica che dura dal 2009. Inoltre, la rivoluzione non si fa per vie elettorali o assembleari, quindi ciò che conta non è tanto, o solo, la forza elettorale dei partiti di estrema sinistra, quanto piuttosto il loro radicamento nella lotta sociale di classe. La presenza, in Tunisia, di un apparato industriale relativamente articolato, e di un folto proletariato industriale nazionale, che vive in condizioni di estremo sfruttamento e povertà, e che ha dimostrato di avere rabbia e capacità di reazione, da questo punto di vista, rappresenta una base sociale molto più promettente, per lo sviluppo di un antagonismo di classe, rispetto al rachitico proletariato libico, spiazzato dai tanti lavoratori immigrati che ricoprivano, sotto Gheddafi, le posizioni lavorative e sociali più infime e sfruttate, ed imbrigliato nel sistema di protezione sociale “all inclusive” che Gheddafi aveva costruito, con i soldi del petrolio.

1 commento:

Riccardo Achilli ha detto...

Un commento è stato eliminato, in quanto riportava soltanto insulti personali a chi ha scritto l'articolo, ed una ovvia minaccia diretta ("ti faccio ocnoscere il nipote di Mercader"). Tale modalità di interloquire non è ovviamente accettabile, in particolare per un blog dalle caratteristiche libertarie, dove è quindi sempre possibile, purché rimanendo nell'ambito di una interlocuzione basata su argomenti e non su insulti e minacce, far conoscere la propria opinione sui temi via via trattati.

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