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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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giovedì 25 agosto 2011

DELLA LIBIA E DI ALTRE RIVOLUZIONI di L. Mortara



di Lorenzo Mortara

La rivoluzione mondiale s’è desta. Partita dalla Tunisia è rimbalzata in Egitto propagandosi rapidamente in mezzo mondo arabo. È però in Libia, con l’intervento diretto della Nato, che la sua marcia si è complicata, rendendo difficile la sua decifrazione. Non stupisce quindi che proprio sulla Libia i comunisti abbiano cominciato a beccarsi sulla posizione da prendere. Non è assolutamente un compito facile e, chi scrive, non ha certo la pretesa di stabilire con certezza assoluta quale sia il campo da prendere, ma crede sia suo dovere dare qualche dritta per contribuire a fare meno errori possibile.

Quello che è certo è che la rivolta scoppiata a Bengasi ha illuso molti di noi, me compreso, che fosse una cosa da niente liquidare Gheddafi. Quando poi la rivolta si è arenata, alla sottovalutazione del Rais, ha fatto immediatamente seguito la sua sopravvalutazione. Sembrava quasi che la primavera araba, con la riconquista di Bengasi, fosse praticamente finita. Invece la rivoluzione ha ripreso la marcia e oggi anche se non sappiamo che fiori metterà, sappiamo almeno che non è finita. Perciò, per ora, invece della fine della primavera araba, cominciamo a registrare l’autunno del patriarca libico!




INCIPIT DEL MARXISMO D’OGGI


Una volta che si è sbobinato il nastro, bisogna però riavvolgerlo per il verso giusto. Da dove deve partire il nostro marxismo per una corretta interpretazione degli eventi libici? Il compagno Riccardo Achilli, nel suo ultimo articolo – Dopo Gheddafi la barbarie? – ci dice che l’esito della rivolta libica deve essere valutato in base alla «logica della legge dello sviluppo diseguale e combinato». Tuttavia, la legge dello sviluppo ineguale e combinato, ci spiega perché una rivoluzione può scoppiare in un Paese arretrato prima che in uno avanzato e come le due cose possano combinarsi, ma non può affatto stabilire dove si dirigerà tutto il processo. Altrimenti sarebbe fin troppo facile. La legge delle sviluppo ineguale e combinato ci parla soprattutto della struttura economica, ma ci dice ben poco della sua interazione con la sovrastruttura politica. Del resto non la può prevedere, essendo questa molto più fluida. La legge dello sviluppo ineguale e combinato nasce per una contrapposizione scientifica al “marxismo” volgare e meccanicistico che stabilisce una tabella idealistica di marcia per tutti i popoli, in modo da avere la scusa buona per non appoggiarne le rivolte, quando ovviamente nessuna nazione ci si atterrà. La legge dello sviluppo ineguale e combinato ha carattere generale, ma non ci dice quali sono le specifiche caratteristiche delle rivolte d’oggi. È da qui invece che dobbiamo far partire la nostra analisi, altrimenti proprio perché si è presa una misura generale, l’analisi resterà generica.

Quali sono gli aspetti fondamentali delle attuali rivolte? In primo luogo – e fin qui credo ci troveremo tutti d’accordo – la crisi devastante del capitalismo, il più grande crack dai tempi del crollo di Wall Strett del 1929. Epperò questo vale in linea di massima per i borghesi. Per noi invece, per il proletariato, qual è oggi l’aspetto più importante da tenere a mente? Il fatto che alla crisi del capitalismo noi non possiamo che rispondere con una crisi ancora più devastante e lunga di direzione storica. Il capitalismo è entrato in coma nel 2008, noi lo eravamo già nel 1924 con la morte di Lenin, quando la nostra testa è stata decapitata e da allora non si è più rincollata. Non solo, ma nel 1989-91 oltre alla testa, c’è stato pure lo scempio del corpo. Non dobbiamo solo risollevarci dalla polvere, ma rialzarci da un’ecatombe. Questa ecatombe, anche se può sembrare inutile dirlo, si chiama stalinismo. Ma non lo è, vista la facilità con cui molti compagni tendono a dimenticarsene.

La crisi storica dell’umanità, ha scritto Trotsky nel suo testo più importante, il Programma di transizione, si «riduce alla crisi della direzione rivoluzionaria». E Trotsky scrive questo nel 1938. Da allora la crisi non si è mica ridotta, anzi si è acuita all’ennesima potenza. Sembra che la maggior parte dei compagni non rifletta minimamente sull’importanza di questo concetto, su cui ruotano di fatto tutti i nostri problemi. Eppure, se tanto mi dà tanto, la crisi della direzione rivoluzionaria del proletariato, porta naturalmente con sé la stabilizzazione della sua direzione controrivoluzionaria. O meglio, quanto più nel proletariato è in crisi la direzione rivoluzionaria, tanto più è stabile, in piena forma e rigoglio, la sua direzione borghese. Che le direzioni delle attuali rivolte vengano prese dai borghesi, dunque, non dovrebbe stupire, anzi a stupire dovrebbe essere il contrario. Ci vorrà probabilmente ancora tutto un periodo storico prima che le masse possano avere alla testa la direzione giusta. Con tutte le disfatte che il proletariato ha dovuto subire solo negli ultimi cinquant’anni, la presa borghese sulla sua testa è così forte che tre o quattro rivolte spontanee non bastano per scuotersela di dosso. Quei compagni che dal primo momento della rivolta non han fatto altro che sputare sentenze sui “tagliagole di Bengasi”, dovrebbero capire che in questo momento, pretendere dalle masse in rivolta che si richiamino a rivoluzioni socialiste piuttosto che a rivoluzioni più o meno democratiche borghesi, significa pretendere che le masse colmino spontaneamente un secolo di ritardo. Tra l’altro, in sé e per sé, non c’è niente di più infelice dell’espressione tagliagole. Infatti, anche ammesso più per ipotesi assurda che sia effettivamente così, in tempi di guerra civile, di sommosse e rivoluzioni, non essere un tagliagola, significa soltanto essere perfetto per farsi sgozzare dalla controrivoluzione. Essere un tagliagola, in questi momenti, non è un difetto ma una qualità, solo dei rivoluzionari senza qualità possono pensare il contrario.

È soltanto colpa dell’avanguardia se ci sono i borghesi alla testa di Bengasi, perché tocca a lei colmare il divario, riempire la distanza che ancora la separa dal resto della classe. Non il contrario. Chi ha preso subito le distanze da Bengasi non ha fatto altro che aumentarle, creando cioè le premesse perché si ripetano all’infinito altre rivolte spontanee immancabilmente preda dei borghesi. Non è un’avanguardia ma una retroguardia. Un’avanguardia, infatti, sa bene come le masse in generale imparino dall’esperienza e non dai libri. E spiace dirlo, ma per l’esperienza storica delle masse, comunismo vuol dire stalinismo, gulag, morte e repressione. Un giovane medio che oggi, a soli vent’anni dal crollo dell’URSS, si rivolti attraverso un programma democratico borghese non è stupido ma intelligente, perché solo un deficiente potrebbe preferirgli d’istinto lo stalinismo. Noi “marxisti studiati”, ovviamente, sappiamo che lo stalinismo è almeno superiore nella sua struttura economica, ma che può saperne di queste cose la gran massa degli sfruttati dalla dittatura del Rais? Come può un popolo imparare il trotskismo col peso censorio della dittatura, aggravato oltretutto da un 18% di analfabeti? Ma anche con un quinto di ignoranza brutale, i giovani della Libia sono meno deficienti di chi non si fa carico delle loro mancanze.

Alan Woods, uno dei pochi compagni che ha invece riflettuto sulle parole di Trotsky, le ha approfondite spiegando che il «fattore più importante nell’attuale situazione è l’assenza di una forte e autorevole direzione marxista su scala mondiale. La tendenza genuinamente marxista è stata ricacciata indietro per decenni (ultimo corsivo mio) e oggi rappresenta una piccola minoranza. Non può ancora guidare le masse alla vittoria. Ma i problemi delle masse sono impellenti. Le masse non possono aspettare che noi siamo pronti per guidarle»1. Questo pensiero di Woods, è il concetto marxista teoricamente più importante di tutta l’attuale fase storica che stiamo vivendo e probabilmente anche della prossima. Forse l’intera nostra generazione dovrà essere sacrificata sull’altare delle direzioni borghesi. Tanto è il tempo, probabilmente necessario, per poterne vedere spuntare qualcuna proletaria. Bisognerebbe marchiare a fuoco queste parole sulla fronte dei compagni più duri di comprendonio. O si parte da qui per analizzare gli eventi, o ci si ferma subito non al marxismo ma a un suo surrogato.

Se invece si fa lo sforzo di partire da qui, è facile constatare come non siano le masse ad essere deficienti, ma è la deficienza della loro direzione che è ormai patologica. I “mongoloidi” siamo noi, almeno questa è l’apparenza, ed è giusto che sia così, perché le masse un’altra esperienza storica non ce l’hanno e bisognerà fargliela rifare più o meno da capo. Decenni di ritardo direzionale, si colmeranno pian piano attraversando decenni di direzione borghese, ma solo se questa direzione verrà incalzata, fianco fianco alle masse, dalla spina nel fianco della critica rivoluzionaria.

Il partito è in ritardo ma le masse non possono aspettare i comunisti ritardati. È ora che i compagni si sveglino e comincino quantomeno a comprenderlo. Senza immischiarsi nelle faccende dei tagliagole di Bengasi e di altre rivoluzioni, oltre a rimanere decapitati, continueremo a far scempio anche del nostro corpo.



STALINISTI E ALTRI PARTIGIANI DI GHEDDAFI

OVVERO NESSUN MARXISTA SCRIVE AL COLONNELLO!



Invece di cominciare dove si è interrotto il marxismo, cioè circa un secolo fa, per provare a risalire la corrente, la maggior parte dei compagni resta fulminata vedendo spuntare da lontano la bandiera monarchica, dimenticando così la relatività delle cose. Pretendono che le masse si ribellino col Capitale in una mano e la bandiera rossa nell’altra. Sarebbe bello se fosse così, non ci sarebbe bisogno di alcuna rivoluzione, perché l’avremmo già fatta attraverso quella metafisica delle coscienze. È strano come certi “marxisti”, non solo pretendano la rivoluzione delle coscienze, ma pretendano pure che avvenga nell’epoca del più spaventoso arretramento storico della coscienza di classe. Purtroppo per noi, indietro di un secolo come siamo, la bandiera di Re Idris mischiata con gli striscioni per l’eroe Omar Al Mukhtar, anche se non è propriamente quello che vorremmo vedere, può essere benissimo un progresso rispetto a un dispotismo medioevale come quello di Gheddafi. Soprattutto se si pensa, tanto per fare un esempio, all’abuso “colonialistico” che il regime ha fatto di un eroe come Omar Al Mukhtar, spacciato come simbolo libico, quando in realtà fu un combattente che scrisse la sua epica per la sola Storia della Cirenaica.

Ad ogni modo, le bandiere rosse verranno dopo, sempre che verranno, perché con compagni così schizzinosi è già tanto se riusciremo a metterle nell’ultima delle piazze libiche.

I rivoluzionari, a differenza dei normali comunisti, si riconoscono dal fatto che osservano dal basso i processi storici. La maggior parte dei comunisti, al contrario, non son capaci di far altro che vederli dall’alto, è più forte di loro, proprio per questo sorvolano sempre sui processi rivoluzionari in corso. Non sono interessati al movimento vivo delle persone, ma dai retroscena della loro fantastoria di cui fanno incetta di pettegolezzi come fossero chissà quale reliquia. Da questo punto di vista non si distinguono molto dagli stalinisti. Non vedendo le masse, gli stalinisti non riescono a relazionarsi alla classe operaia, ma sempre e solo a questo o quel gruppo di potere. Di conseguenza, in Libia lo scontro non è più tra masse da una parte e dall’altra, ma tra Nato e Gheddafi. E siccome Nato vuol dire imperialismo, il campo stalinista antimperialista grida Viva Gheddafi, cioè Viva l’imperialismo del giorno prima! L’estremismo di sinistra, altrettanto incapace di veder le masse, ma non potendo però urlare le stesse cose degli stalinisti, grida Abbasso i tagliagole di Bengasi, Abbasso l’imperialismo del giorno dopo! Entrambi restano alla stessa distanza dalla rivoluzione, gli uni a destra, gli altri a sinistra, ognuno a girare come una trottola su sé stesso. Li accomuna l’idea della Storia fatta a complotti e la comune ricerca di inutili scartoffie e ciance che comprovino la complessa dietrologia che hanno in testa al posto della semplice osservazione diretta degli eventi.

Per il marxismo rivolte, sommosse e processi rivoluzionari, sono creati con una certa frequenza dalle contraddizioni stesse del sistema capitalista. Non solo, l’esperienza ci ha anche insegnato che in genere una rivolta tira l’altra. Quel che è successo in Libia quindi non dovrebbe stupire nessun compagno, anzi dovrebbe essere salutato come l’ennesima conferma della nostra meravigliosa dottrina. Ma se per la nostra dottrina basta l’aumento della miseria e dello sfruttamento a generare quel che abbiamo sotto gli occhi, per stalinisti ed estremisti questo non sarebbe possibile senza il finanziamento dell’imperialismo! Ribaltata la nostra dottrina, per i marxisti a testa in giù, sono i soldi a generare le sommosse, non la loro mancanza! La cosa è doppiamente ridicola, nel caso libico, perché ci troveremmo di fronte all’imperialismo che finanzia qualcuno per aizzarlo direttamente contro sé stesso! La verità è che i soldi l’imperialismo non li usa per finanziar rivolte e rivoluzioni, semmai per corromperle. Non è la stessa cosa. Questo, infatti, è il motivo per cui l’imperialismo s’è precipitato in Libia: per mettersi alla testa della Rivoluzione prima che degenerasse – dal suo punto di vista e non dal nostro – in qualcosa di progressista o addirittura di socialista. L’imperialismo, proprio come tutti padroni, ha scaricato immediatamente il suo alleato Gheddafi, quando ha avuto paura, sottovalutandolo, che non fosse più in grado di tenere sotto controllo le masse. Quando poi ha visto che non era così spacciato come credeva, ormai era troppo tardi per tornare indietro e perdere la faccia. La partita, anche se gli imperialisti si sarebbero accontentati di un pari e patta a tavolino, doveva a quel punto essere giocata accettando l’imprevedibilità del risultato. Invece di trarre lezioni dai nostri avversari, partigiani di Gheddafi e sputasentenze contro Bengasi, preferiscono continuare a fare i cattivi maestri del marxismo. Che cosa dovrebbe insegnare ai giovani marxisti il repentino intervento Nato in Libia? Che appunto non c’è rivolta che possa sfuggire ai borghesi, dove ci sono masse ribelli, i borghesi vi si fiondano come falchi per prenderne la direzione. Se la direzione di Bengasi è caduta subito sotto il controllo imperiale, significa che a contrastarla c’erano tutti tranne noi comunisti. Quanto più sono lontani i comunisti, tanto più è facile per i borghesi prendere la testa delle masse. Tutto qui. È normale, come detto, che i comunisti si trovino a cento anni di distanza dalla Bengasi in rivolta di oggi. Se è normale quindi che non si riesca a recuperare, in un paio di mesi, un secolo di ritardo storico del partito, è però assurdo che non si riesca accorciare manco di un passo, lo spazio di distanza che ci separa da Bengasi. Invece è proprio così, mentre i borghesi si immischiano subito in una cosa così sporca come la rivoluzione, settari e altri degni compari, se ne lavano le mani a distanza per poi ovviamente sputare sui mercenari di Bengasi, senza rendersi conto che una direzione borghese era pressoché inevitabile, visto che un’altra non poteva esserci, in quanto oltre al ritardo storico del partito, si è aggiunto il ritardo permanente di metà della sua avanguardia che una prospettiva storica non sa manco cos’è.

Fin dalle prime battute della rivolta, la documentazione per informarsi e comprendere la dinamica in Libia non è mancata. Solo in Italia abbiamo avuto un intero numero di Limes2 dedicato all’argomento. Naturalmente trattasi di informazione borghese da prendere con le molle. Per questo abbiamo avuto a supporto parecchio materiale di provenienza marxista. Quello che emerge è presto detto. Come ha sottolineato Del Boca, il rancore contro il tiranno covava da lungo tempo, particolarmente nelle zone più depresse della Cirenaica che poi hanno dato il là alla rivolta. Non si aspettava altro che una scintilla. Non appena scoccata, un 30% circa dei militari si è staccato e ha preso le distanze dal regime, schierandosi dalla parte degli insorti3. Come ogni rivoluzione che si rispetti, anche quella libica ha rispettato il copione, con buona parte della guardia del regime che è passata dalla sua difesa all’attacco. Anche nell’Ottobre, l’armata rossa fu formata con buona parte dei vecchi quadri zaristi. Che c’è di strano? Quello che è strano è pretendere che da quadri simili escano eroi del socialismo. Ma non essere eroi del socialismo, non vuol dire essere automaticamente dei nemici. In ogni processo rivoluzionario si rischia la pelle, e questo dovrebbe bastare per non ridurre tutto a un complotto di mercenari. Venduti quanto si vuole a Bengasi, ma non certo privi di palle. I compagni da salotto che gli sputano addosso belli comodi e in pantofole da quaggiù, dovrebbero mostrare più rispetto per chi ha avuto comunque il coraggio di mettersi in gioco. Vendersi per comprarsi una bara non è tipico dei mercenari, ma dei mercenari cretini. Se hanno rischiato anche la vita, è segno che forse i mercenari di Bengasi non sono così privi di valore come li dipingono i loro critici. Sia come sia, staccatisi dal Rais dopo averlo servito per anni, i “tagliagole” di Bengasi non potevano andare molto più in là di un semplice cambio del regime. E come il vecchio regime era corrotto dall’imperialismo con cui trafficava, anche i nuovi aspiranti al comando qualche legame dovevano avercelo. Ma non basta pagare un pugno di militari per sollevare una città con più di un milione di abitanti come Bengasi. Chi crede che sia solo una questione di soldi, dovrebbe spiegarci perché l’imperialismo non ricorre in ogni momento a un simile espediente? E la risposta è semplice: perché per mettere i suoi uomini alla testa di una rivolta, c’è bisogno prima che delle masse insorgano. E le masse l’imperialismo non le può sollevare a comando. Bengasi, sollevatasi spontaneamente, si è subito trovata di fronte un problema di organizzazione, per la semplice ragione che la dittatura, tra le altre cose, ha spazzato via ogni forma organizzativa delle masse. Non c’è quindi da stupirsi che il coordinamento dei primi comitati rivoluzionari sia stato preso immediatamente in mano da quell’unico pezzo di organizzazione che si è staccato dal regime. Il contrasto subito sorto tra la direzione di Bengasi e la sua base, dovrebbe già bastare per prendere come genuina la rivolta. Mentre la base spingeva per un rovesciamento anche sociale del regime libico, la direzione ha incanalato la lotta verso un rovesciamento solo politico4. Non potendo puntare più di tanto sulle masse per questo, forte della sua presunzione, la direzione di Bengasi, dando per finito il Rais, ha concentrato sempre più il suo scontro in un duello puramente militare. Arrivata alle porte di Tripoli si è però arenata. Gheddafi non era così solo come poteva sembrare.



TRIPOLI O BENGASI: DA CHE PARTE STARE?


Analizzare gli eventi libici senza dirci quale posizione devono prendere i comunisti, equivale a mettere la testa sotto la sabbia come gli struzzi. Invece è proprio qui il lato spinoso della questione. Una volta scoppiata la rivolta che dovevano fare i comunisti? Alle prime manifestazioni di piazza in favore di Gheddafi, gli stalinisti, orfani di baffone, non potevano che schierarsi con la nostalgia di un suo replicante. «Il popolo lo ama ed è ancora con lui», scrivono nei loro blog di stupidaggini. Già solo il fatto che gli stalinisti, i “compagni” più controrivoluzionari di tutti i tempi, si siano schierati dalla parte di Gheddafi, dovrebbe essere più che sufficiente per noi per stare dalla parte di Bengasi, contro Tripoli. Perché in effetti, chi si è schierato con Gheddafi, non è il popolo, ma solo una sua parte, anche abbastanza minoritaria. Le rivoluzioni sono appunto quei momenti storici in cui il popolo si divide grosso modo in due tronconi. È tanto semplice che solo la dabbenaggine degli stalinisti può dimenticarlo. Ma noi marxisti no! Noi non abbiamo bisogno di stare con uno o l’altro dei contendenti, perché sappiamo che ne esiste un terzo, la massa appunto. Ma anche la massa sotto i colpi degli eventi può dividersi. Esistono masse progressiste e reazionarie, masse rivoluzionarie e controrivoluzionarie. Tra Tripoli e Bengasi chi rappresenta le masse progressiste? Un popolo che ama il suo dittatore è solo un popolo che odia sé stesso. Pur con tutta la comprensione possibile e la pietà, noi marxisti non faremo mai l’elogio di quei vandeani che durante la Rivoluzione francese, presero posizione per l’Ancien Régime e si schierarono con la loro palla al piede. Esattamente come il grande Oscar Wilde faceva notare che non c’era niente di più triste, per la testa pensante, di quei neri che durante la guerra di secessione americana, si schierarono con gli schiavisti invece di sgozzarne quanti più possibile! Ma se è triste vedere masse in delirio per Gheddafi, addirittura squallido vedere gente intelligente che gli tiene pure bordone, invece di contribuire in qualche modo all’abbattimento del satrapo.

Anche se Gheddafi per un po’ è sembrato riuscire a ribaltare gli esiti della guerra, tutto questo appoggio evidentemente non ce l’ha avuto. Altrimenti Nato o non Nato non sarebbe caduto. Gheddafi come la Nato ha assaltato dai cieli i ribelli. Ma proprio qui risiede una differenza fondamentale. Mentre la Nato l’ha fatto perché non ha voluto in nessun modo armare la protesta di terra, temendo che la sopravanzasse, Gheddafi non poteva armare il popolo perché più della metà gli avrebbe sparato addosso. La Nato aveva la sue ragioni per non armare le masse, ma il “leader del popolo”, per fare la stessa cosa, aveva solo il torto di non essere più il leader di nessuno. Tuttavia, l’aver messo lo scontro sul piano solo militare da parte del Consiglio Nazionale Transitorio, rinunciando in partenza al proprio pieno potenziale di massa, ha all’inizio favorito il Rais che poteva tra l’altro contare su alcuni quadri militari già sperimentati e non alle prime armi. Ed è proprio al momento dell’intervento Nato, all’apice della controffensiva lealista, quando sembrava che Gheddafi fosse a un passo dal riprendere il controllo della situazione, che i cantori del dittatore si son messi a recitare a squarcia gola le più stucchevoli poesie in memoria dei tanti benefici regalati al popolo dal vecchio regime. Non sappiamo ancora bene come i ribelli siano riusciti a ribaltare le sorti, l’intervento Nato è sicuramente stato decisivo, ma fondamentale si deve essere rivelata anche la modifica della tattica del Consiglio Nazionale Transitorio che, messo alle strette, ha allargato il fronte coinvolgendo con successo nella lotta altre masse prima snobbate.

Quel che qui mi preme contestare, da materialista, è l’uso completamente antimarxista delle statistiche pro o contro una rivoluzione. Per screditare i rivoltosi si è citato i bassi costi di tanti beni di prima necessità, il potente welfare garantito dal regime e altre sciocchezze. Ci si è solo dimenticati di dire che, in regime capitalistico, la media del PIL pro capite è un’astrazione buona solo per ricordare, a chi evidentemente ha ancora un buona memoria, che la ridistribuzione del reddito è in mano ai capitalisti. Appoggiarsi al PIL contro la rivoluzione, significa soltanto stabilire che al posto nostro, anche per le rivoluzioni siano i padroni a dove dare il via. Che siano gli stalinisti a usare questo metro non mi stupisce, visto che sono strutturalmente incapaci di vedere le masse padrone di sé stesse, per cui, medioevali come la Chiesa, pensano sempre che debba esserci una qualche autorità – e quindi, in ultima analisi, loro o nessuno! – che debba dare l’autorizzazione per una rivolta; mi stupisce invece che si perdano nelle statistiche anche i marxisti, quando per noi una rivolta, per essere legittima, è sufficiente che chi abbia deciso di farla, la voglia! Altro metro di giudizio è del tutto ridicolo. Per noi, le masse, avrebbero avuto tutte le giustificazioni per rivoltarsi, anche qualora Gheddafi avesse concesso in anticipo le sette vergini che spettano nell’aldilà ad ogni buon musulmano. Perché, per noi, l’unico Dio che può giudicare la condizione delle masse, è in ultima analisi la massa stessa, autoresponsabile. Dietro il panegirico sul welfare libico come deterrente per le rivolte, c’è la morale del gendarme. La morale rivoluzionaria, in netta antitesi con quella dei gendarmi, se elogia il welfare, lo fa come trampolino di lancio per ulteriori conquiste, non per invitare le masse a restarsene buone e contente, accontentandosi come dei cagnolini di quello che hanno.

Le statistiche non sono sufficienti per stabilire se sia legittima o meno una rivolta, specie quando sono usate male. Ma anche fossero usate bene, bisognerebbe sempre tenere conto della loro relatività. Un popolo con la pancia piena ma con la testa prigioniera, ha tutto il diritto di sentirsi sfruttato, specialmente se grazie alle rivolte vicine, comincia a prendere coscienza del fatto che fino a quando non avrà tutto nella mani, dovrà sempre considerarsi poco meno di un povero disgraziato qual in fondo è.

Perché, comunque, sono usate male queste statistiche? Innanzitutto perché le elargizioni di una dittatura sono sempre soggette alla sottomissione e ai capricci del dittatore5. Pesano quindi molto di più di quello che può apparire ai superficiali. In secondo luogo, il PIL pro-capite, fa credere con la sua media astratta che tutti abbiano 15-18˙000 euro di reddito, quando in realtà con oltre il 30% di disoccupazione, per raggiungere una media del genere è necessaria per forza di cose un’enorme sperequazione nella ridistribuzione concreta e reale. È del PIL dei salariati che dovremmo occuparci, non del PIL interclassista. Proprio per questo e per altre ovvie ragioni, un’aspettativa di vita di 78 anni, non riguarda il futuro dei libici, perché è di fatto desunta più dal presente sulla base del recente passato che altro. Per chi è disoccupato cronico, 78 anni di longevità, non sono un’aspettativa di vita, bensì di un’incessante tortura. E infatti, chi c’è dietro i rivoltosi che si sono ribellati al Torquemada libico? C’è il volto bello e genuino dei tanti giovani senza speranza della Libia, quegli stessi giovani che vogliono emigrare e che vengono rispediti indietro dagli imperialisti con cui s’è accordato il Rais. I giovani libici sanno quel che li aspetta, non 78 anni di vita, ma la morte prematura nei campi di concentramento allestiti dal dittatore per i miserabili a cui non ha altra soluzione da offrire6.

C’è ancora da dire che le stesse persone che negano le basi sociali della rivolta libica, in virtù di un presunto benessere dei prigionieri di uno «scatolone di sabbia», sono le stesse persone che giustamente chiamano se non alla rivolta, almeno alla protesta permanente qui Italia e in tante altre parti del mondo, contro le manovre lacrime e sangue di tutti i governi. Se in Italia un Pil da 25˙000 euro a testa non è sufficiente per ritenersi al riparo dalle rivolte, a maggior ragione non dovrebbe esserlo quello libico che ne garantisce un quarto di meno. Ma la verità è che basterebbe vedere quel che è successo a Londra per capire che non c’è angolo del globo capitalistico che possa dimostrare, numeri alla mano, che non ci sono le ragioni per una sommossa. In verità, è l’esatto contrario: tutte le statistiche dicono chiaro e tondo che le condizioni perché succeda quel che sta succedendo ci sono tutte e dappertutto, Stati Uniti compresi.

Da Londra a Tripoli, come da Atene a Teheran, un filo conduttore tiene insieme le piazze di tutto il mondo: è il sottoproletariato che è in prima linea nell’attuale fase di scontro col Capitale. Questo spiega, tra le altre cose, anche gli aspetti più brutali e puramente vandalici delle rivolte. Proprio perché è abbandonato, disgregato, il sottoproletariato è molto più indisciplinato e anarchico del proletariato vero e proprio. Questo si tiene ancora nell’ombra, in disparte, tramortito dalla troppa paura che ha di perdere quel poco che ha7. Fa fin male vedere come venga snobbata questa parte così martoriata della nostra classe. Per il compagno Achilli trattasi soltanto di «tribù cirenaiche penalizzate nella distribuzione della ricchezza petrolifera nazionale», altro che ribelli! Eppure questi tribali altro non sono che il nostro esercito industriale di riserva che ha capito che resterà per sempre in panchina e ne ha giustamente le palle piene! È gente talmente sfruttata che non ha nemmeno la possibilità di essere sfruttata come gli altri.

Nei paesi sotto il tallone di ferro dell’imperialismo, il proletariato autoctono resta al pari della borghesia rachitico. Mentre la borghesia diventa compradora al soldo dell’imperialismo, il proletariato si sfilaccia, si disperde e infine collassa nel mare dei lumpenproletariat. Quel che ne esce è un mix di capitalismo e di regime semi-feudale che sprofonda sempre di più, incapace di portare a termine una vera e propria rivoluzione borghese.

Proprio perché una rivoluzione borghese non è mai stata portata a termine, Bengasi ha potuto per ora dirottare la protesta sociale verso la richiesta di un normale programma democratico8. I giovani ribelli sono insorti per sostituire il Rais con il «lavoro». L’arretramento della coscienza ha fatto sì che la parola “lavoro”, tra le più pronunciate nelle strade in rivolta, potesse anche tradursi facilmente in programma nazionale borghese. Non deve stupire l’ingenuità di tanti giovani, ma essere compresa e giustificata perfettamente dalla nostra assenza. Sono infatti i comunisti che devono dare carattere scientifico alle richieste popolari e istintive della gioventù che non può che esprimere in forma ibrida la sua voglia di socialismo. Invece, tanti compagni, siccome non han sentito recitare da questi giovani Marx a memoria, ne hanno subito fatto delle marionette di Adam Smith, dimenticando che non sono le idee a muovere il mondo ma gli interessi. E i disoccupati muovono tutti come possono, indipendentemente dallo slogan che preferiscono, verso il socialismo.

Sotto la spinta delle masse, la spinta disperata della disoccupazione, Bengasi ha varato il suo programma borghese. Tripoli, che di masse ne aveva dietro pochine, non poteva che rispondere rinnovando l’appoggio al bastone della sua dittatura. Anche così Bengasi è il progresso, Tripoli la reazione. Ecco perché noi stiamo con Bengasi, anche se dal basso, perché senza progresso non c’è rivoluzione.



IL «CATASTROFICO SUCCESSO» DELL’IMPERIALISMO


È ancora difficile ricostruire tutti i dettagli che spieghino come il Cnt abbia ribaltato le sorti della guerra. Dai primi commenti già sappiamo, però, come la stampa borghese abbia salutato l’ingresso trionfale dei ribelli per le strade di Tripoli. In fondo tutto il resto passa in secondo piano. L’imperialismo sorride amaro. Il bicchiere non si sa se sia più mezzo vuoto che pieno. C’è chi ci parla di una guerra senza vincitori, cioè di una guerra che l’imperialismo pur non avendo perso, non ha nemmeno vinto come voleva, e chi nasconde la sua preoccupazione dietro la solita facciata retorica dell’ora della ricostruzione e della responsabilità. Cosa angustia i nostri poveri borghesi? Ce lo spiega Marta Dassù, colf degli Agnelli, in quattro righe spudorate: «Italia, Europa e Stati Uniti hanno scommesso su una ipotesi precisa: che il Consiglio di Transizione Nazionale creato a Bengasi riesca a garantire un processo di riconciliazione, tenendo sotto controllo le rivalità tribali e avviando la costruzione di istituzioni nazionali in un Paese che ne è privo da sempre. Questa scommessa, già difficile, è complicata dal ruolo decisivo assunto dai ribelli occidentali, dai berberi di Nafusa, nella offensiva militare su Tripoli. Quanta della Libia anti-Gheddafi sarà disposta a riconoscere la leadership di Bengasi? Gli europei non avranno più la stessa influenza una volta che i ribelli saranno al potere»9. Ecco qua, in quattro righe, tutta la rivolta al completo. Italia, Europa e Stati Uniti, in una parola la Nato, sognano un governo che tenga sotto controllo la rivoluzione, che ne sia cioè al di sopra, indipendente. Solo un governo al di sopra del controllo dei ribelli, può infatti infischiarsene della rivoluzione. Un simile governo sarebbe stato possibile se la sostituzione di Gheddafi, non avesse richiesto l’apporto decisivo delle masse occidentali e dei Berberi. Gheddafi non potrà essere sostituito semplicemente con un suo replicante. Le masse a cui Bengasi ha dovuto appoggiarsi per rovesciarlo, potrebbero chiedere il conto. Quanti rivoluzionari saranno disposti a riconoscere una leadership controrivoluzionaria? Quanti ribelli saranno disposti a riconoscere come legittimo governo Bengasi, e cioè a sottomettersi senza condizioni alla Nato? Se la rivoluzione andasse davvero al potere, i borghesi di tutti continenti non conterebbero più niente. Ecco, tradotto nel linguaggio proletario, il succo dell’articolo della Dassù. L’imperialismo ha paura che sotto il peso decisivo delle masse, i suoi uomini di Bengasi non possano più eseguire gli ordini, o possano eseguirli solo in parte. Già han dovuto sganciare un programma borghese per convincere berberi e compagnia a seguirli, e se il popolo prendendoci gusto chiedesse ancora soddisfazione? Bengasi non avrebbe scelta: o continuare nelle concessioni o fare la fine di Tripoli.




GHEDDAFI E CHÁVEZ: ANTIMPERIALISTI A CONFRONTO


Se fino a qualche mese fa Gheddafi otteneva per i suoi lucrosissimi accordi di pace imperiale, di poter girare per le strade di Roma a spese del proletariato italiano e libico, di colpo, per appassionati di dietrologia e di fantastoria, è diventato il martire dell’indipendenza e della lotta all’ultimo sangue e senza compromessi contro l’imperialismo invasore. Avendo però trovato appoggio, tra i tanti, anche dal leader della rivoluzione venezuelana, qualcuno ha pensato bene di metterli nello stesso sacco. Anzi, Chávez, ha dovuto pure beccarsi dello stalinista, dovendo accettare di stare addirittura un gradino sotto! Stavolta, questi campioni dell’analisi fallimentare, non vengono dalle file dell’estremismo o dell’incorreggibile stalinismo, ma proprio dalle nostre, da una delle innumerevoli sette troskoidi. E chi, nel panorama del troskume, poteva farsi carico di una simile idiozia se non quel partito in frantumi dell’Alternativa Comunista? Secondo costoro, l’appoggio dato a Gheddafi da Chávez è l’ulteriore prova del suo carattere stalinista, quindi antioperaio10. I compagni del Partito di Alternativa Comunista si erano già distinti per due cose davvero lodevoli: primo per descrivere al contrario il processo bolivariano: da ridistributore ad accentratore della ricchezza; secondo per aver già dato per avvenuto il trapasso in capitalismo del regime cubano. L’embargo degli Stati Uniti dev’essere evidentemente per la presenza incompatibile del comunismo negli States! Non contenti di questi due strafalcioni, di cui il primo probabilmente anche in malafede11, ora con questa hanno aggiunto il terzo.

Gli stalinisti sono famosi tra le altre cose per aver ammazzato Trotsky, sciolto la Terza Internazionale e aver eliminato praticamente tutte le elezioni libere. Chávez ha parlato più volte della necessità di una V Internazionale, ha letto La rivoluzione permanente citandola come quello che ci vuole per il Sudamerica, e ha messo al voto praticamente tutto e più volte senza un solo broglio se non dei suoi avversari, ma tutto questo non conta. Stalinista è, e stalinista resta, per la Lit dell’Alternativa Comunista!

Chávez è quello che potremmo definire un rivoluzionario borghese che si è trovato alla testa delle masse in un processo rivoluzionario. Siccome non è un puro marxista, per i compagni della Lit non bisogna appoggiarlo neanche criticamente. Bisogna star fuori dal movimento bolivariano sperando che nasca, non si sa come, al di fuori delle masse, il partito duro e puro della Rivoluzione. Ma se è così, i compagni di Alternativa dovrebbero spiegarci perché non star fuori anche dal processo rivoluzionario apertosi in Libia. In fin dei conti anche in Libia le masse hanno alla testa dei nazionalisti borghesi. Peggio, hanno dei nazionalisti compromessi con l’imperialismo. Chávez, almeno, dall’imperialismo è stato anche rovesciato. Poi per fortuna s’è rimesso in sella, ma è sempre rimasto nel mirino dell’imperialismo. E invece niente! Mentre riconoscono la rivoluzione libica, per i compagni di Alternativa Comunista in Venezuela non è in corso altro che la seconda legislatura di un ennesimo sfruttatore delle masse.

Non avendo capito niente né di Cuba né del Venezuela, il fatto che per ora ci abbiano azzeccato per chissà quale miracolo con la rivoluzione libica, significa solo che o si volgerà presto in socialista, o i compagni della Lit volteranno le spalle anche a lei.

Non è necessario ricorrere al suo improbabile stalinismo, per spiegare l’appoggio dato a Gheddafi da Chávez. Si spiega benissimo col carattere contraddittorio del processo bolivariano che sta portando avanti. In Venezuela Chávez è appoggiato in massa dal proletariato. Le indubbie riforme che ha varato sono il risultato di questo appoggio. Tuttavia, nonostante gli slogan sul Socialismo del XXI Secolo, la rivoluzione in Venezuela non è ancora stata portata a termine, e il suo ritardo comincia già a manifestare segni di involuzione. A tutt’oggi, quindi, il Venezuela è ancora un Paese capitalistico, e capitalistico è il suo modo di produzione. Questo significa che se in Venezuela Chávez poggia il suo bolivarismo parlamentare sugli operai, non appena mette il naso fuori dal suo Paese, non avendo altri operai a cui rendere conto, non può che rappresentare gli interessi del capitale venezuelano. Ed è per il capitale venezuelano che ha stretto accordi con il Rais.

Compito dei comunisti non è accusarlo di stalinismo, mettendolo immeritatamente tra il pattume della Storia, ma avvisarlo e con lui le masse che non portando a termine la rivoluzione socialista, sarà costretto prima o poi a passare nel campo della controrivoluzione anche in casa sua, esattamente come lo è già nella ex casa di Gheddafi. Non si può tenere il piede in due staffe, un po’ con le masse e un po’ coi padroni, prima o poi bisogna scegliere definitivamente. Non è il suo immaginario stalinismo a fargli appoggiare Gheddafi, ma il suo capitalismo reale!

Chávez rischia di far fallire il processo rivoluzionario avviatosi in Venezuela. Non essendo un marxista, è pieno di pregiudizi e di illusioni sulla possibilità di arrivare al socialismo in pratica per via parlamentare. Ovviamente così come non riuscirà mai per questa via, alla stessa maniera rischia di impantanare tutto il processo. Ciò però non significa che non sia, alla sua maniera, sinceramente dalla parte delle masse. Quando va in giro per il mondo a fare accordi commerciali, lui crede di farlo davvero per il progresso delle masse venezuelane. È completamente diverso dagli stalinisti che hanno dimostrato più e più volte di essere storicamente contro gli operai soprattutto nei momenti decisivi. Chávez è in buona fede, quando appoggia Gheddafi, gli stalinisti no.




DOVE VA LA LIBIA?


Dopo Gheddafi, la barbarie! È questo lo scenario immaginato per la nuova Libia dal compagno Achilli. Per quanto pessimista, il quadro che dipinge, è del tutto possibile e le probabilità sono anche elevate. Eppure non è né col metro del pessimismo né con quello dell’ottimismo che dobbiamo guardare il futuro della Libia, ma con quello della rivoluzione. L’abbattimento del regime apre o meno più possibilità per la rivoluzione socialista? La risposta è sì, senz’altro, perché è il proletariato a fare un passo avanti, di conseguenza l’imperialismo ne ha fatto uno indietro. Prima avevamo la doppia dittatura di un colonnello borghese in combutta con l’imperialismo, ora tolto di scena il colonnello, avremo al suo posto un potere che dovrà essere la mediazione tra la Nato e le masse ribelli. Le prospettive per le masse sono nettamente migliori rispetto a prima, specialmente se sapranno sfruttare le occasioni. Il compagno Achilli vede nero perché il suo pessimismo è ammantato di idealismo. Fin dal titolo delle sue considerazioni sembra quasi che prima della barbarie ci fosse il Paradiso Terrestre della jamāhīriyya. In realtà la jamāhīriyya, ammesso che sia mai iniziata, era in pratica già finita da quando Gheddafi aveva cominciato a riavvicinarsi all’imperialismo. Alla stessa maniera dire che la Libia diventerà una dépendance delle potenze imperialiste, è come dire che prima ne fosse indipendente. Tuttalpiù, se all’imperialismo riuscirà di sostituire Gheddafi con altri fantocci che ne facciano in tutto e per tutto le veci, la Libia dentro e fuori dipenderà dalla barbarie tanto quanto prima. Ma è proprio qui il punto: riuscirà l’imperialismo a sostituire Gheddafi con un suo clone? La caduta del Rais con l’intervento diretto delle masse, lascia pensare che non sarà così semplice. Le potenze imperialistiche chiederanno trattamenti di favore che difficilmente il Cnt potrà rifiutare. Ma non è importante che si rifiuti il Cnt, fondamentale è che si rifiutino le masse, costringendo il Cnt a fare altrettanto. Inoltre, sotto la spinta delle masse, il Cnt potrebbe autonomizzarsi parzialmente o addirittura totalmente dall’imperialismo. Il Cnt è in gran parte composto da ex uomini di Gheddafi compromessi con l’imperialismo. Ma così come dalla difesa son passati all’attacco di Gheddafi, alla stessa maniera potrebbero trasformarsi da agenti dell’imperialismo a vigili della rivoluzione. Qualche sintomo c’è già e lo abbiamo visto. Purtroppo, la maggior parte dei compagni vede solo le etichette delle persone, non sa seguirne il movimento incessante di trasformazione. Il marxismo è una teoria dinamica non statica. Le masse potrebbero mettere alla corde molto presto il Cnt, quando si accorgeranno che senza rivoluzione socialista nessun programma potrà essere attuato, tanto meno quello borghese. Le illusioni sui filantropi imperiali, assolutamente comprensibili per chi ha visto la morte in faccia, potrebbero sparire ancor prima se le masse non li vedranno andarsene al più presto.

Tutto è ancora in gioco, ma lo scenario previsto da Achilli, si basa su sull’erroneo giudizio di un arretramento del proletariato libico. Eppure, con la caduta di Gheddafi, per quanto poco, il proletariato è avanzato. La Libia non si è affatto persa la possibilità del tutto immaginaria di sperimentare una via autonoma al suo sviluppo. Non bisogna confondere le intenzioni ideali coi loro contenuti reali. La jamāhīriyya non era un regime delle masse, ma il regime proprio di Gheddafi per il suo sviluppo autonomo dalle masse. Inoltre, si è sempre basata sul capitalismo, cioè su un modo di produzione che in un modo o nell’altro deve ricollegarsi col mercato mondiale. Ecco perché pian piano Gheddafi è ritornato tra le braccia dell’imperialismo. Ora, con l’assemblea costituente, se ci sarà, è il proletariato libico che ha la possibilità col ripristino dei suoi diritti borghesi, di ricominciare uno sviluppo autonomo. La borghesia cercherà di integrarsi sempre di più nel mercato mondiale, il proletariato libico dovrà in un modo o nell’altro disintegrare la borghesia. In questo sarà aiutato dal vento di protesta che soffierà ancora un po’ dovunque, grazie a questo primo parziale successo libico. Noi dobbiamo cercare di essergli al fianco, per toglierli tutte le numerose illusioni che ancora si fa sui suoi falsi amici.

Appena abbattuto il regime, le azioni dell’Eni sono salite. Segno inequivocabile della vittoria borghese, dicono in tanti. No! Segno soltanto di una vittoria combinata e mediata con l’intervento imperialistico. Nonostante la nostra presenza, la borghesia scommette su sé stessa perché ha fiducia in sé stessa. In tutto l’articolo del compagno Achilli manca il coraggio, l’elemento più importante di un carattere rivoluzionario, come se gli operai potessero fare solo da spettatori. Eppure gli operai, nel bene e nel male, sono i protagonisti indiscussi della Storia. Achilli gli fa recitare la parte di sconfitti prima del tempo. Può essere che alla fine sarà così, ma a noi per ora tocca solo fare la nostra parte. Perciò noi, analogamente alla borghesia, scommettiamo sulle masse perché dobbiamo avere piena fiducia in loro. Giochiamoci il pessimismo di Achilli, male che vada, dovessimo perdere, ci resterà più soltanto il suo ottimismo. Nella perdita sarà il più grosso dei guadagni.



Stazione dei Celti

Mercoledì 24 Agosto 2011

Lorenzo Mortara

Fiom-Cgil



1 I marxisti e la rivoluzione venezuelana, tratto dal libro La rivoluzione venezuelana, una prospettiva marxista, di Alan Woods, A.C Editoriale.

2 La guerra di Libia, i quaderni speciali di Limes 1/2011, Aprile 2011.


3 Tra i tanti articoli che possono documentare la vicenda, scelgo questo di Dario Salvetti che mi sembra particolarmente ben fatto: Guerra e rivoluzione in Libia.


5 È il massimo storico del colonialismo italiano in Libia, Angelo Del Boca, a spiegarlo, insieme a tante altre cose, in questa intervista che potete scaricare qui.


6 Spiega in due parole la tratta dei migranti, il giornalista Gennaro Carotenuto nel suo articolo: Libia: il nemico del mio nemico non è mio amico.


7 In Egitto, un po’ più avanti degli altri, sembra però che nella seconda ondate di proteste, gli operai comincino a farsi avanti con richieste di salari e diritti politici. E siamo solo all’inizio...


8 Negli articoli molto precisi di Pier Francesco Zarcone, si mostra come la pressione abbia condotto il Cnt a tirar fuori il programma borghese. Si veda Mondo arabo in rivolta (VIII). Di passata, negli articoli della stessa serie, in particolare in Mondo arabo in rivolta (VI), si possono anche trovare delucidazioni che ridimensionano molto l’appoggio avuto dal Rais dal “suo” popolo.

9 Marta Dassù in Euro e Libia, le due guerre d’Europa, La Stampa di lunedì 22 Agosto 2011.


10 Si veda Libia e Siria: un duro dibattito divide la sinistra, di Eduardo Almeida Neto, capoccione di chissà quale quarto di quel che resta di un’improbabile Quarta Internazionale dei sospiri!


11 Si veda Il Venezuela e la crisi del chavismo, vero articolo “miracolato” che riesce a non trovare nulla di positivo nell’attuale processo in corso in Venezuela.

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