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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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mercoledì 31 agosto 2011

MANOVRA E INTRALLAZZI di J-L. Roussely



di JEAN-LUIS ROUSSELY

La Cgil indice uno "sciopero generale di 8 ore" il 6 settembre. La commissione del senato esaminerà gli emendamenti il 29/08, il Senato in seduta plenaria dovrà cominciare i lavori il 5/09.

Oggi anche la Camusso tiene une conferenza stampa davanti al Senato.

Allora si può approvare l’argomento di G. Cremaschi, ex segretario nazionale della Fiom e leader della Rete 28 aprile?

" (...) E’ chiaro che uno sciopero generale di questa portata e con questa carica politica è una svolta di fatto nelle scelte della Cgil, che deve portare ai necessari cambiamenti di strategia. Non dovrà essere più possibile, in nessun momento, che la signora Emma Marcegaglia sia portavoce degli interessi comuni del lavoro e dell’impresa. E’ finita la stagione della concertazione e del patto sociale, distrutta dalla stessa ferocia della manovra. Ora tocca alla Cgil essere parte fondamentale e costitutiva di un’opposizione sociale che cambi radicalmente le cose." (Sul sito della Rete ).

Indipendentemente dal fatto, non trascurabile, che uno sciopero di 8 ore, senza chiedere una manifestazione di fronte al parlamento per impedire il voto, è come un coltello senza lama, concludere da questa parola d’ordine che per la direzione della Cgil "E’ finita la stagione della concertazione e del patto sociale" è una negazione pura e semplice della realtà.

Oppure G. Cremaschi ha letto o sentito che la direzione della CGIL rinunciava alla realizzazione di un patto sindacati – padroni ?

Al contrario, la direzione della CGIL ha pubblicato (il 23 Agosto, lo stesso giorno dell’indizione dello “sciopero generale”) un voluminoso documento (26 pagine!) sulla manovra con controproposte. A che scopo fare le controproposte? Per aprire a un « cambiamento generale delle cose » come G. Cremaschi vorrebbe farci credere?

A pagina 14 si legge :

"Per la CGIL è necessaria una manovra alternativa, che punti sulla crescita, sull'equità, sugli investimenti, sul lavoro. Una manovra diversa è possibile anche con i saldi previsti dal Governo per raggiungere nel 2013 il pareggio di bilancio."

La presa in carico da parte del sindacato operaio della riduzione dei deficit del bilancio : quale prospettiva di « cambiamento radicale » e quale “fine della stagione della concertazione e del patto sociale!” ! Ma su questo secondo aspetto dell’operazione di camuffamento di G. Cremaschi,(1) bisogna ancora leggere la seguente frase del documento della direzione della CGIL :

“Per la CGIL resta indispensabile sapere esattamente cosa sia stato richiesto all'Italia nella lettera della BCE. Solo in trasparenza le parti sociali e, più in generale, le forze sociali, politiche e culturali del Paese possono esprimere la propria opinione e formulare le proposte per risanare i conti, evitare il tracollo e rilanciare la crescita del reddito e dell'occupazione.”

Prendere per riferimento : "Le parti sociali "e "le forze politiche" senza alcuna esclusione, che altro è se non un appello alle "soluzioni condivise" care a Napolitano, alla chiesa, al Pd, ... in altre parole un appello ai "sacrifici condivisi ", in altri termini ancora alle "riforme" : sulle pensioni, la funzione pubblica, la sanità, ...

Esagerazioni? Vediamo (tra gli altri ) il punto (2) delle "controproposte" della Cgil :

"Per favorire politiche per la crescita e lo sviluppo si può lavorare con tutte le parti istituzionali e sociali ad una proposta attraverso la quale i fondi pensione possano diventare dei veri e propri investitori (istituzionali), con loro capacità interna di elaborazione e di decisione strategica, non subalterni alle logiche finanziarie e speculative dei gestori."

Pretendere che i fondi pensione potrebbero essere altro che un’arma per liquidare le pensioni a ripartizione attraverso la loro cogestione, legare i sindacati alla realizzazione del profitto massimo è una manovra grossolana. Evidentemente questo G. Cremaschi non lo vede, e tuttavia è firmatario (30 luglio) di un testo intitolato :

" 5 proposte per un fronte comune contro il governo unico delle banche", 5 proposte di cui la prima era : "Non pagare il debito" e un po’ più in là "vanno nazionalizzate le principali banche, senza costi per i cittadini(…)". Niente a che vedere col "programma" della direzione della Cgil per lo sciopero del 6 settembre.

E’ inutile proseguire, la direzione della Cgil non ha rotto con la sua politica di sottomissione agli interessi della borghesia. Ma la CGIL resta il sindacato di massa al quale si rivolgeranno i lavoratori (e anche una parte dei giovani) che cercano di resistere alla formidabile offensiva antioperaia contenuta nella "manovra". Per eliminare questa pressione, senza danno per la borghesia, deve darsi un’apparenza combattiva, indire uno sciopero (limitatissimo!!), eliminando ogni elementare parola d’ordine di difesa operaia :

- Questo déficit non è il nostro,

- Abbasso la manovra,

- Nessun cambiamento all’articolo 18, nessun contratto locale in deroga al contratto nazionale.

Più che mai l’intervento nella CGIL dei militanti della "lotta di classe" dovrebbe farsi sull’esigenza della denuncia di ogni velleità di "patto", di "concertazione" col padronato e col governo. Questo presuppone che si esiga :

- La denuncia dell’accordo con la Confindustria del 28 giugno che ha aperto la via al governo per rimettere in causa l’articolo 18.

- L'appello della Cgil per una manifestazione a Roma di fronte al parlamento per impedire il voto della manovra.

La dichiarazione di G. Cremaschi del 23 Agosto (come la decisione della direzione della Fiom di tacere fino al 6), introducendo nell’appello allo sciopero del 6 settembre un contenuto completamente estraneo, gira le spalle a questa lotta.

Questi problemi politici non sono riservati al proletariato italiano. Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna, Francia... più la crisi del capitalismo s’approfondisce, più i burocrati sindacali si fanno agenti di una politica d'unione nazionale. La lotta per la rottura dei "Patti" è il primo atto di un orientamento che miri a creare le condizioni di uno scontro delle classi per battere l’offensiva del governo della borghesia.

Jean-Louis Roussely

25 agosto 2011


1. Per la Cgil
Per la CGIL è necessaria una manovra alternativa, che punti sulla crescita, sull'equità, sugli investimenti, sul lavoro. Una manovra diversa è possibile anche con i saldi previsti dal Governo per raggiungere al 2013 il pareggio di bilancio.
Per la CGIL resta indispensabile sapere esattamente cosa sia stato richiesto all'Italia nella lettera della BCE. Solo in trasparenza le parti sociali e, più in generale, le forze sociali, politiche e culturali del Paese possono esprimere la propria opinione e formulare le proposte per risanare i conti, evitare il tracollo e rilanciare la crescita del reddito e dell'occupazione.
Il Paese si trova oggi costretto ad anticipare il pareggio di bilancio al 2013, cercando risorse complessivamente pari a circa 48 miliardi di euro complessivi nel 2013.

2. Un’altra manovra è possibile. La politica del Governo risulta tanto più grave in considerazione del fatto che l'obiettivo di porre in equilibrio il sistema previdenziale è stato ampiamente realizzato (da ben 5 riforme in due decenni). La CGIL propone di:
ristabilire il criterio della flessibilità, peculiare del sistema contributivo, ovvero lasciare la libertà di scelta per l'uscita attraverso una forchetta abbastanza ampia entro la quale il lavoratore può decidere di cessare l'attività in anticipo con un importo di pensione minore o più tardi con un importo maggiore (ovviamente salvaguardando i lavori usuranti).
prevedere soluzioni capaci di garantire una transizione soft tra lavoro e non lavoro anche attraverso forme di prolungamento parziale dell'attività lavorativa, scelta liberamente e non per obbligo di legge, in cui il lavoratore riceve parte della pensione dall'Inps integrata dalla retribuzione percepita dall'attività lavorativa svolta.
lavorare con tutte le parti istituzionali e sociali ad una proposta attraverso la quale i fondi pensione possano diventare dei veri e propri investitori (istituzionali), con la loro capacità interna di elaborazione e di decisione strategica, non subalterni alle logiche finanziarie e speculative dei gestori, per favorire politiche per la crescita e lo sviluppo.
Aprire un “cantiere” con tutte le parti istituzionali e sociali per rispondere alla necessità di una pensione contributiva di garanzia rivolta in particolare alle figure più fragili presenti nel mercato del lavoro e per un futuro previdenziale ai giovani.
lavorare con tutte le parti istituzionali e sociali ad una riforma degli ammortizzatori sociali e, più in generale, per un welfare universalistico.


di Giorgio Cremaschi

La decisione della Cgil di proclamare 8 ore di sciopero per il 6 settembre è un fatto positivo e necessario, cui deve seguire una svolta in tutti i comportamenti dell’organizzazione. Lo sciopero generale vero, che prova a fermare il paese e a far sentire al Parlamento e alle istituzioni la rabbia di un mondo del lavoro che non ne può più di pagare e che è arcistufo di questo governo, è una rottura sacrosanta con il teatrino delle parti sociali. Occorre costruire una grande opposizione sociale che travolga la manovra e faccia pagare la crisi a chi l’ha provocata, i ricchi, la finanza, la speculazione. (...)
Per questo la Cgil dovrà essere conseguente e questo chiederemo subito dopo lo sciopero. Occorre metter fine alla stagione del degrado della contrattazione e disdettare l’accordo del 28 giugno, che peraltro il governo, con il consenso di Confindustria, Cisl e Uil ha trasformato in un decreto legge liberticida. Occorre prendere atto che Cisl e Uil, hanno scelto la complicità con il governo e con il mondo delle imprese. Occorre invece riferirsi all’indignazione civile e democratica, ai movimenti sociali, civili e ambientali che hanno percorso il paese. E’ chiaro che uno sciopero generale di questa portata e con questa carica politica è una svolta di fatto nelle scelte della Cgil, che deve portare ai necessari cambiamenti di strategia. Non dovrà essere più possibile, in nessun momento, che la signora Emma Marcegaglia sia portavoce degli interessi comuni del lavoro e dell’impresa. E’ finita la stagione della concertazione e del patto sociale, distrutta dalla stessa ferocia della manovra. Ora tocca alla Cgil essere parte fondamentale e costitutiva di un’opposizione sociale che cambi radicalmente le cose.

traduzione di Michele Basso

martedì 30 agosto 2011

Né con Truman né con Stalin


dal sito AVANTI BARBARI


Da qualche mese è in libreria il corposo volume di Sandro Saggioro Né con Truman né con Stalin. Storia del Partito Comunista Internazionalista (1942-1952) - Edizioni Colibrì. Come si evince dallo stesso titolo, il libro narra le vicende dei primi anni di vita del Partito Comunista Internazionalista a partire dallo studio delle varie componenti che diedero vita all'organizzazione fino alla fatidica spaccatura in due tronconi. Arricchisce il volume l'appendice documentaria che contiene tutta una serie di documenti - alcuni veramente di difficile reperibilità, considerato lo stato di abbandono in cui versano gli archivi delle organizzazioni, dirette eredi di quella esperienza - che testimoniano l'acceso dibattito teorico e politico che precedette la frattura, nel 1952, del Pcint. in due tronconi.

L'autore del libro ha il grande merito di aver finalmente rotto quel silenzio assordante che la classe dominante ha imposto tutt'intorno all'esperienza del Partito Comunista Internazionalista in quanto pochi e frammentari sono stati finora gli studi storici dedicati alle vicende internazionaliste e, in ogni caso, nessuno ha tratto l'argomento con la stessa organicità e con la dovizia di testi a corredo.

Come tutti gli storici anche Saggioro svolge un'attività interpretativa di documenti imponendo alle vicende, inevitabilmente, il proprio punto di vista tant'è che lo stesso autore, con molta onesta intellettuale, avverte che "Chi ha affrontato il presente lavoro non ha certo pretesa di imparzialità; sta tutto dalla parte della formazione rivoluzionaria di cui ha narrato e, su questa linea, ritiene impareggiabile e fondamentale il contributo di Amadeo Bordiga, contributo che però si dispiegherà compiutamente, soprattutto a partire dal momento in cui questa narrazione si conclude e proseguirà poi fino alla morte, nel 1970". (1)

Tuttavia, proprio il ritenere impareggiabile e fondamentale il contributo di Amadeo Bordiga - cosa, peraltro, per molti versi condivisibile - porta il nostro autore a dare all'intera esperienza internazionalista un'interpretazione che non ci sentiamo assolutamente di condividere. In primo luogo intorno alla fondazione dell'organizzazione internazionalista. Il Partito Comunista Internazionalista nasce alla fine del 1942 grazie al contributo di compagni che operavano in Lombardia e Piemonte ed erano rimasti fedeli ai valori del comunismo rivoluzionario. Pur non essendoci stato alcun congresso fondativo - cosa, in tutta evidenza, non fattibile in pieno regime fascista - un cospicuo numero di compagni si è aggregato per dare vita al Partito Comunista Internazionalista. Senza voler far torto a nessuno di quei compagni, è doveroso rimarcare come sia stato Onorato Damen colui che ha dato il maggior contributo (impulso) sul piano teorico e organizzativo. Il fatto che il partito si sia già costituito alla fine del 1942 (2) non costituisce ancora dato sufficiente per il nostro autore tant'è che il medesimo, a pagina 31, scrive "A queste forze che si erano aggregate al nord si aggiungeranno dal 1943 in poi, gli elementi della Frazione all'estero che rientravano alla spicciolata in Italia ed inoltre, nel 1945, ..., la Frazione di Sinistra dei Comunisti e Socialisti Italiani che si era sviluppata da Roma in giù. Dalla fusione di queste tre forze che andiamo ora ad esaminare, alla fine della guerra, si svilupperà il Partito Comunista Internazionalista".

Proprio il volere, a tutti i costi, dare accentuazione alla figura di Amadeo Bordiga, anche laddove ciò potrebbe essere pleonastico, considerato il tipo d'indagine condotta, porta l'autore a sottovalutare la fondazione del partito nel 1942, quasi fosse un fatto leggendario, e ad interpretare le successive vicende internazionaliste alla luce di quella che sarà l'esperienza bordighiana.

Il Partito Comunista Internazionalista è fondato alla fine del 1942 e ad ingrossare le proprie fila contribuisce il confluire dei compagni della Frazione all'estero e della Frazione di Sinistra, tant'è che l'adesione dei compagni avviene su base individuale e previo scioglimento delle due frazioni. Forse l'asserire questo, per il nostro autore, significa sminuire la figura di Amadeo Bordiga, per cui ne deriva il distinguo ermeneutico fra atto di fondazione o processo di fondazione del partito. Noi riteniamo sia più aderente alla realtà dei fatti parlare di atto di fondazione del Partito Comunista Internazionalista e nello stesso tempo riconoscere il merito a quei compagni che, in piena dittatura, hanno avuto il coraggio di organizzarsi per combattere il capitale nella versione fascista e stalinista e senza che tutto ciò abbia a sminuire la statura di Amadeo Bordiga. Ma un fatto ci sembra abbastanza chiaro: il partito nasce prescindendo dalla volontà di Bordiga ed in virtù dell'apporto assai fattivo di compagni come Onorato Damen. Bordiga - occorre porlo nel dovuto rilievo - non aderirà mai all'organizzazione internazionalista, avendo però modo, allo stesso tempo, di condizionare molti compagni per mezzo della sua spiccata personalità e Saggioro, pur essendo a conoscenza di tutto questo e scrivendone, ha commesso l'errore di interpretare le vicende internazionaliste alla luce delle successive elaborazioni del rivoluzionario napoletano. Nella densa descrizione delle vicende del partito comunista internazionalista, arricchita - come dicevamo - da un'ampia appendice documentaria, ci ha lasciato alquanto perplessi la notizia che il Saggioro riporta nella nota 13 a pag. 178 in cui scrive "Di Francesco Maruca abbiamo già parlato; responsabile della federazione di Catanzaro, all'epoca della rottura rimase a fianco di Damen, dalla cui organizzazione si staccò più tardi." Non sappiamo quale fonte abbia consultato Saggioro tale da indurlo a riportare tale notizia, ma Ciccio Maruca non si è mai staccato dal Partito Comunista Internazionalista, militando nell'organizzazione fino alla morte avvenuta a Bologna nel novembre del 1962. A testimonianza della sua ininterrotta militanza nel partito riportiamo quanto Battaglia Comunista nel numero undici del novembre 1962 scrive in occasione della sua morte "Ciccio Maruca è morto. Mentre il giornale va in macchina ci giunge inattesa e dolorosa la notizia della morte del nostro compagno. Parleremo ancora di Maruca per ricordare ai compagni e per illustrare ai più giovani che non lo hanno conosciuto, l'opera di questo combattente la cui milizia ha percorso per intero l'arco della milizia delle generazioni di Livorno, fino alla formazione del nostro partito, nella quale ha profuso generosamente le sue eccezionali doti di agitatore, di propagandista instancabile e di giornalista di partito incisivo e mordente. La morte di Maruca apre un grande vuoto nelle file del partito non facilmente colmabile; abbiamo tuttavia la certezza che altri e più giovani prenderanno il suo posto e faranno propria la sua eredità politica in cui il problema dell'unità delle forze rivoluzionarie sul piano ideologico, politico e organizzativo del partito comunista internazionalista ha un posto essenziale e non dilazionabile. Addio Ciccio." (3)

Per concludere questa nostra breve recensione ci sembra particolarmente interessante, da un punto di vista politico, quanto scrive, sempre il Saggioro, a pag.16 allorché illustra lo scopo del proprio libro "Quanto ci siamo prefissi con questo lavoro è di scrivere la storia del Partito Comunista Internazionalista dalla sua nascita, nel cuore stesso della seconda guerra mondiale, fino al 1951-52, quando le sue forze si separarono in due tronconi. Codesta storia nessuno l'ha mai scritta e quindi, ora che il ciclo di questa esperienza rivoluzionaria si è concluso, sarebbe quanto mai opportuno provvedere". La necessità di scrivere questa storia nascerebbe per Saggioro proprio dalla fine del ciclo di questa esperienza rivoluzionaria, ma lo stesso autore, in quanto storico, chiarisce che "Ovviamente chi continua questa esperienza non sarà proprio d'accordo con quanto diciamo: il Partito Comunista Internazionalista che fa capo a Battaglia Comunista esiste ancora, e la diaspora delle formazioni che si richiamano ad Amadeo Bordiga ha dato vita ad altri Partito comunisti internazionali." (4) Va da sé che quello che Saggioro non può dire in qualità di storico lo possiamo dire noi in qualità di militanti rivoluzionari: l'esperienza della sinistra comunista si è chiusa con una sonora sconfitta e occorre fare un bilancio dissacrante onde poter rilanciare il progetto dell'alternativa socialista. E' vero che Battaglia Comunista ancora esiste, così come i tanti gruppi che si rifanno a Bordiga, ma la loro esistenza organizzativa non nasconde il processo di sclerotizzazione che ha fatto di loro tante chiesuole rattrappite in se stesse a rimirarsi il loro ombelico. Battaglia Comunista è ormai un gruppo totalmente appiattito sulle posizioni dell'anarco-sindacalismo e del movimento antagonista, mentre per il variegato mondo bordighista essendo tutto già stato detto scritto ai rivoluzionari rimane solo il compito di mantenere vivo il Bordiga-pensiero. In realtà, è in quest'abbandono del metodo del materialismo storico che possiamo osservare la fine del ciclo di quell'esperienza rivoluzionaria. Saggioro ha assolto il compito di scrivere la storia di quell'esperienza con i limiti che sinteticamente abbiamo cercato di mettere in evidenza. Alle sparute avanguardie rivoluzionarie spetta un compito ben più gravoso: ricostruire il partito comunista che non potrà che essere internazionale e internazionalista.

Lorenzo Procopio

Note

1) Pagina 17 del libro Né con Truman né con Stalin. Storia del Partito Comunista Internazionalista 1942 - 1952.

2) A pagina 30 del libro è riportata la nota redatta da Bruno Maffi per il Dizionario di cultura politica in cui c'è scritto che "nato sulla fine del 1942 il partito comunista internazionalista è tuttavia il punto d'arrivo di un lungo processo di elaborazione ideologica..."

3) E' in una fase di avanzata elaborazione uno studio sulla figura di Francesco Maruca e sul movimento comunista nella provincia di Catanzaro, che l'Istituto Onorato Damen dovrebbe pubblicare nel corso del 2012 in occasione del cinquantenario della morte di Ciccio Maruca.

4) Vedi nota 5 a pagina 16 del libro Nè con Truman né con Stalin. Storia del partito comunista internazionalista.

DemmeD' Problemi del socialismo nel XXI secolo Rivista teorica dell'Istituto Onorato Damen, n.3, luglio 2011.

domenica 28 agosto 2011

COS’È UNA SITUAZIONE RIVOLUZIONARIA di V.I. Lenin



estratto da

Il fallimento della II Internazionale (cap. II)

di Vladimi Ilich Lenin

scaricabile qui




Il vivace dibattito sulla rivoluzione Libia, in seguito agli articoli Dopo Gheddafi la barbarie?Della Libia e di altre rivoluzioniRisposta critica sulla Libia, come Redazione non può che farci piacere. Pubblichiamo questo estratto del grande Lenin per contribuire all’approfondimento dell’argomento.



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Per il marxista non v’è dubbio che la rivoluzione non sia possibile senza una situazione rivoluzionaria e che non tutte le situazioni rivoluzionarie sbocchino nella rivoluzione. Quali sono, in generale, i segni di una situazione rivoluzionaria? Siamo sicuri di non sbagliare a indicare questi tre segni come i segni principali:



1 – Le classi dominanti non riescono più a conservare il loro potere senza modificarne la forma; una crisi negli «strati superiori», una crisi nel sistema politico della classe dominante, che apre una fessura nella quale si incuneano il malcontento e l’indignazione delle classi oppresse. Per lo scoppio della rivoluzione non basta ordinariamente che «gli strati inferiori non vogliano più» continuare a vivere come prima, ma occorre anche che «gli strati superiori non possano più» vivere come per il passato.


2 – Un aggravamento, maggiore del solito, dell’oppressione e della miseria delle classi oppresse.


3 – In forza delle cause suddette, un rilevante aumento dell’attività delle masse, le quali in un periodo «pacifico» si lasciano depredare tranquillamente, ma in periodi burrascosi sono spinte, sia da tutto l’insieme della crisi, che dagli stessi «strati superiori», ad un’azione storica indipendente.



Senza questi cambiamenti oggettivi, indipendenti dalla volontà non soltanto di singoli gruppi e partiti, ma anche di singole classi, la rivoluzione – di regola – è impossibile. L’insieme di tutti questi cambiamenti oggettivi si chiama situazione rivoluzionaria. Una tale situazione si presentò nel 1905 in Russia e in tutte le epoche rivoluzionarie in Europa occidentale; ma essa si presentò anche nel 1860 in Germania e nel 1859-1861 e 1879-1880 in Russia, sebbene in questi casi non vi sia stata alcuna rivoluzione. Perché? Perché la rivoluzione non nasce da ogni situazione rivoluzionaria, ma solo nei casi in cui, alle trasformazioni oggettive sopra indicate, si aggiunge una trasformazione soggettiva, cioè la capacità della classe rivoluzionaria di compiere azioni rivoluzionarie di massa sufficientemente forti da spezzare (o almeno incrinare) il vecchio governo, il quale, anche in un periodo di crisi, non «cadrà» mai se non lo «si fa cadere».





venerdì 26 agosto 2011

Le democrazie manipolate dal dopoguerra ad oggi di S. Zecchinelli


1. L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul segreto; l’Italia è una Repubblica democratica canonizzata dai segreti: segreti di stato.
Il neonato sistema repubblicano nasce fra le macerie della Strage di Portella delle Ginestre, il primo maggio 1947, attraverserà il piombo di Scelba e Tambroni, fino a giungere alla resa dei conti successiva alle mobilitazioni studentesche del 1968. 
La storia dello stragismo in Italia riguarda il rapporto che intercorreva fra centri di potere interni al nostro territorio e paesi come la Spagna Franchista, il regime dei colonnelli in Grecia e il governo centrale di Washington.  Si avvicinava a seguito delle lotte di fine anni ’60 il periodo della strategia della tensione.  Questa definizione viene solitamente analizzata in modo molto grossolano dalla storiografia ufficiale.  Siamo soliti affermare che la ratio della strategia della tensione è di mandare in crisi governi democratici attraverso attentati terroristici; questo avrebbe aumentato la richiesta di sicurezza da parte delle classi, portando all’instaurazione di dittature militari.
Questa definizione è molto parziale; prendiamo in esame il maccartismo.  Il maccartismo è un atteggiamento anticomunista che caratterizzò gli Stati Uniti nel periodo successivo la fine della seconda guerra mondiale.  Il senatore repubblicano Mc Carty riuscì ad avere il controllo dei mezzi di comunicazione instaurando un clima di panico e tensione.  In quel periodo del resto i teorici repubblicani e democratici avanzarono la teoria del dominio secondo la quale se una nazione era comunista le nazioni vicine sarebbero progressivamente diventata comuniste anche loro.  Chomsky contrappose a quest’analisi la “minaccia del buon esempio’’.  Secondo Chomsky la vera minaccia è che un paese socialista davvero riuscisse a rappresentare un modello sociale alternativo e allora tutti gli altri paesi avrebbero seguito il suo esempio; questo spiega l’intervento militare americano a Cuba, in Vietnam e nell’America Latina.
Un ordine mondiale basato sulla fuga del capitale finanziario non può permettere che qualche pezzo si stacchi e allora interviene con la forza.  Quindi capiamo perché Kissinger ha ritenuto il Cile come un virus che avrebbe potuto contagiare altri paesi e i suoi effetti sarebbero potuti arrivare fino in Italia.  Tutto questo naturalmente doveva essere dato in pasto all’americano medio che avrebbe mangiato la “teoria della mela marcia’’ o ’teoria del domino’’.  In questo caso lo strumento mediatico ha un ruolo fondamentale, non in rapporto a un’involuzione democratica, ma per rafforzare i grandi partiti centristi che eseguono gli ordini dell’elite economiche.  Questa breve analisi cerca di fare un po’ di chiarezza su alcune formule utilizzate in modo superficiale dalla nostra storiografia. 
Torniamo in Italia.  Nel febbraio 1969 arriva a Roma il neoeletto presidente nordamericano Richard Nixon, accompagnato da Henry Kissinger; questi incontrarono il Presidente della Repubblica Italiana Giuseppe Saragat.  Saragat affermò che il PCI si fingeva un Partito Socialista lontano da Mosca, da cui Berlinguer aveva fatto lo strappo nel 1968, ma questa era solo una situazione di facciata.  Secondo l’allora Capo dello Stato il PCI voleva poter denunciare la NATO rendendo l’Italia neutrale e poi riallinearla con Mosca. 
Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.  Terminata la guerra Togliatti si attenne alle disposizioni di Yalta e quindi alla ripartizione delle zone d’influenza fra le tre super-potenze vincitrici; gli accordi di Yalta prevedevano che l’Italia entrasse a far parte della NATO.  Il PCI era una sorta di mostro a due teste che riuniva il peggio della socialdemocratica e il peggio dello stalinismo.  Il partito aveva finalità esclusivamente elettoralistiche, quindi come le altre socialdemocrazie europee era un partito borghese e di governo; da un punto di vista della struttura interna, invece, restava privo di pluralismo.  Attraversò fra mille contraddizione la destalinizzazione del 1956 -questa era un modo per scaricare su una persona sola, Stalin, le cause della burocratizzazione-, arrivando alla fine degli anni ’60 ad una presunta svolta.
Nel 1969 Berlinguer guidò una delegazione del partito a Mosca ai lavori della Conferenza internazionale dei partiti comunisti; in quest’occasione si scontrò con Breznev per l’invasione della Cecoslovacchia e prese le difese degli “stalinisti’’ cinesi.  In realtà Berlinguer cercava nuovi centri di potere a cui appoggiarsi e aveva intuito che la Cina poteva essere una potenza emergente.  Lo strappo da Mosca, che non ha messo fine ai rubli che il PCI “buono’’continuava a prendere dal Cremlino, è stata una delle tante storielle degli stalinisti italiani. 
In questo scenario Saragat avanza le sue richieste a Nixon.  Saragat, si pone come alternativa politica accanto la Democrazia Cristiana, rendendo noto a Nixon la sua preoccupazione per la presenza di frange di estrema sinistra sia all’interno della DC sia all’interno del PSI.  Nel luglio 1969 il primo Governo Rumor cade e poco dopo nasce un nuovo Governo Rumor, con Moro agli Esteri al posto di Nenni.  Saragat invoca l’aiuto di Nixon per proteggere l’Italia dal pericolo sovietico. 
In questo scenario particolare ci sarà il Congresso del PCI nel febbraio 1969; con questo Congresso doveva iniziare il processo di democratizzazione del partito ormai pronto a condividere responsabilità di potere all’interno del governo di centro sinistra subentrando al posto delle forze socialdemocratiche.  Questo Saragat non poteva permetterlo ed elaborò un piano volto a spostare a destra l’orientamento governativo.  Il piano di Saragat si prefigge: la ricostituzione del Partito Socialdemocratico, la crisi del governo e la sua caduta, le elezioni anticipate in un clima di crociata anticomunista e pone uno scenario di governo senza forze socialiste e con la presenza del Partito Liberale.  Inoltre il Partito Socialista Unificato avrebbe dovuto subire una scissione con la conseguente rinascita del Partito Socialdemocratico guidato da Mario Tanassi esponente della destra atlantica. 
Tutto questo si sposava con i programmi della destra eversiva.  All’interno della destra extraparlamentare abbiamo, infatti, nel 1968 un svolta importante, quando la cellula veneta di Ordine Nuovo confluisce nell’organizzazione neonazista di Avanguardia Nazionale e il suo leader Pino Rauti decide di rientrare nell’MSI, perché coll’avvento della segreteria Almirante era il momento di continuare la battaglia all’interno del Parlamento. 
Il Movimento Sociale Italiano non era un partito di nostalgici di Salò, ma una forza atlantica nata con delle finalità molto precise.  Questa formazione politica aveva il compito di controllare i vari gruppi post-fascisti disinnescandoli nel momento in cui la struttura economica richiedeva una certa stasi sociale.  I suoi dirigenti potevano fare la voce grossa in piazza ma in sede governativa erano sempre ricattabili.  Questo è il motivo “canonico’’ che portò alla nascita dell’MSI; c’è un’altra ragione ben poco conosciuta.  Le forze atlantiche si preoccuparono di una possibile frana a sinistra dei giovani aderenti alla Repubblica Sociale di Salò.  Pensiamo alla rivista Pensiero Nazionale di Stanis Ruinas finanziata direttamente da Togliatti; i fascisti rossi, quelli che si rifacevano alle idee di Nicola Bombacci, erano pronti a unirsi ai “fratelli’’ stalinisti. Bisognava fermare tutto questo concedendo loro un  partito che affermava di essere in continuità con quella produzione “ideologica’’.  All’interno dell’MSI, in seguito, si formarono correnti di “inistra’’ come quella di Beppe Niccolai che cercarono il dialogo con il Psi di Craxi, ma questo sarà oggetto d’analisi in altre sedi.
Avanguardia Nazionale era pronta a sfruttare la politica di Saragat esasperando lo scontro fra il movimento operaio e le forze anticomuniste, per poi tramite un’azione mirata arrivare al Colpo di Stato.  Nel 1969 i servizi segreti inglesi intercettarono un messaggio (Protocollato Y00 A47) firmato Michael Kottakis, Direttore Generale del Ministero degli Interni, indirizzato all’ambasciatore greco Antoine Poumpouras, dove chiedeva se era possibile effettuare in Italia un colpo di stato alla greca seppur nel rispetto delle condizioni economiche e politiche di quel paese.  Questi documenti furono pubblicati dall’Observer inglese.(1)  Si prepara il terreno che nella notte del 12 dicembre 1969 porterà all’esplosione della bomba davanti Banca dell’Agricoltura a Piazza Fontana. 
Il vertice Saragat-Nixon-Kissinger ora si poteva pienamente realizzare.  Il Presidente del Consiglio Rumor avrebbe dovuto sciogliere anticipatamente le Camere, affidare il Ministero dell’Interno a un militare e proclamare lo stato d’eccezione; la democrazia rappresentativa sarebbe diventata una dittatura militare.  L’obiettivo che mi sono posto è quello di descrivere un espediente tattico che avrebbe portato ad un colpo di Stato.  L’Observer inglese pubblicherà i nomi degli attentatori e Rumor decise di non sciogliere le Camere; Aldo Moro costrinse Saragat a rinunciare al suo piano liberticida concedendogli di falsare le indagini che poi avrebbero portato all’imputazione degli anarchici di Milano.  Diciamo che quello che avvenne in seguito è una storia più o meno conosciuta per ciò che riguarda le versione ufficiali.  Ripartendo da quest’analisi cercherò,molto brevemente,di ricostruire la ratio dei colpi di stato,andando poi ad analizzare, molto brevemente, i dispositivi totalizzanti odierni.
2. Il termine “colpo di stato’’ viene utilizzato per la prima volta dall’autore libertino francese del ’700 Gabriel Naudè.  Naudè afferma che il colpo di stato è un atto improvviso e violento tramite il quale si estende la propria forza in determinate circostanze.  Quindi capiamo che questo non necessariamente è esterno al potere costituito; diventa necessaria una breve analisi di carattere giuridico. 
Gli interventi riguardanti l’ordinamento giuridico possono essere di tre tipi: 1) riforme macrosistemiche, 2) riforme sistemiche, 3) riforme microsistemiche.  Prenderemo brevemente in esame le riforme macrosistemiche. 
Con le riforme macrosistemiche il corpo politico cambia nettamente l’assetto costituzionale; sia chiaro è un cambiamento che viene dall’alto.  Il governo legittimo impugna la Costituzione e ne rovescia il contenuto.  Carl Schmitt, uno dei massimi filosofi del diritto del’900, afferma nella sua Teologia Politica che “sovrano è chi proclama lo stato d’eccezione’’.  Il colpo di stato è fatto dal politico che concentrando nelle sue mani il potere garantisce l’ordine sociale.  Lo Stato democratico dovrebbe essere ben altra cosa a partire dalla Costituzione fondata sul principio di separazione dei poteri.  In realtà le elite hanno elaborato nuovi modi per far venire meno la sovranità del popolo. 
Farò chiarezza su un avvenimento che considero di particolare importanza.  Nel 1993 Peter Eigen fonda a Berlino Transparency International un’organizzazione che si occupa di portare la competitività nel mondo.  Le fasi che portarono alla nascita della T.I sono essenzialmente tre: 1) la fase d’incubazione (1984-1989), 2) la fase organizzativa (1989-1993) e 3) la nascita ufficiale (1993).  Le origini di T.I risalgono ad alcuni incontri promossi nel 1984 dal principe Filippo duca di Edimburgo, consorte della regina Elisabetta d’Inghilterra con esponenti delle tre maggiori religioni monoteiste: cattolica, ebraica e islamica.  Questi incontri avevano lo scopo di costituire un codice etico inter-religioso per International Businnes, formulato alla luce delle tradizioni religiose.  Pensiamo alla Teologia del capitalismo: un percorso di produzione ideologica che parte da Locke e arriva fino all’ultima enciclica del Papa Benedetto XVI.  Eigen in seguito porrà il problema di combattere la corruzione all’interno dei governi; per fare questo era necessario far venire meno la sovranità nazionale attraverso organismi di controllo sovranazionale. 
La tecnica del Colpo di Stato di Peter Eigen mira a sostituire il governo legittimo, eletto dal popolo attraverso l’elezioni democratiche, con un potere esterno.  Se noi pensiamo alla struttura degli organi comunitari capiamo l’importanza di tutto questo; il potere legislativo non viene esercitato dal Parlamento Europeo, ma dalle Commissioni che prendono il posto degli esecutivi nazionali. Queste presentano una ripartizione interna che fa si che il potere sia esercitato da gruppi di burocrati a noi del tutto sconosciuti, l’Italia è rappresentata da una certa Commissione 133 … Qualche lettore ne ha mai sentito parlare?  Peter Eigen dice che in questo contesto devono assumere grande importanza organi moralizzanti come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale.  Mi sembra ovvio! Nel momento in cui con il signoraggio bancario le banconote vengono prodotte dalle banche, queste possono far collassare economicamente un paese che non risponde alle loro disposizioni.  In Italia T.I è stata fondata il 20 gennaio 1997, presso la Camera del Commercio di Milano; i protagonisti del congresso di fondazione erano Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo che sono stati fra gli eroi di Mani Pulite. 
La presenza della Lega Nord nel T.I è molto forte infatti l’attuale Presidente è Teresa Brassiolo consigliere comunale della Lega Nord a Milano.  Non bisogna farsi trarre in inganno da una certa fraseologia politica; la Lega Nord è un partito assolutamente europeista.  Le politiche regionaliste servono proprio a dilatare la sovranità nazionale,compresa la Costituzione che dovrebbe determinare il DNA di un sistema sociale; le Costituzioni dei paesi membri della Comunità Europea sono state sostanzialmente abrogate con il Trattato di Lisbona.  Il Capitale Finanziario ha bisogno di dividere e questo processo di liquefazione della sovrastruttura passa anche attraverso provvedimenti legislativi come le gabbie salariali; provvedimento che si sposa alla perfezione con l’esigenze dell’imperialismo europeo.  I cittadini devono diventare dei corpi apatici che galleggiano in un mondo liquido; questi sono i dispositivi totalizzanti che vengono ora adottati dalle destre economiche. 
Il distacco che si è creato fra la società civile e la società politica, la morfinizzazione intellettuale dei membri del corpo sociale - in rapporto alla cultura della visibilità e alla società dei consumi - sono le nuove armi delle destre economiche.  Fino a qualche decennio fa parlavamo d’involuzione democratica, d’instaurazione di uno stato autoritario; volendo utilizzare termini marxisti d’irrigidimento della sovrastruttura.  La vera involuzione non è più politica ma umana; all’uomo politico, il cittadino e partigiano di cui parlava Gramsci, si sostituisce l’uomo qualunque, simbolo del deserto culturale odierno. 
Nel 1973 nasce la Commissione Trilaterale a cui prenderanno parte i massimi esponenti dell’imperialismo americano, europeo e giapponese.  In continuità con il Memorandum di Lewis Powell del 1971 - una sorta di Manifesto delle destre economiche - la Commissione Trilaterale scrive un nuovo documento intitolato “The Crisis of Democracy’’.  Citerò ora la parte iniziale di questo documento: “La storia del successo della democrazia … sta nell’assimilazione di grosse fette della popolazione all’interno dei valori, atteggiamenti e modelli di consumo della classe media’’.  Abbiamo quindi un processo di normalizzazione culturale. 
Il documento ancora afferma “Il funzionamento efficace di un sistema democratico necessita di un livello di apatia da parte di individui e gruppi. In passato (prima degli anni ’60 nda) ogni società democratica ha avuto una popolazione di dimensioni variabili che stava ai margini, che non partecipava alla politica. Ciò è intrinsecamente anti-democratico, ma è stato anche uno dei fattori che ha permesso alla democrazia di funzionare “bene’’.  La democrazia per funzionare aveva bisogno che il potere fosse ben saldo nelle mani dell’elite.  Dice bene Marcuse quando afferma che le nuove democrazie liberali non hanno bisogno d’irrigidire la sovrastruttura (quindi di ricorrere al fascismo) per attivare dei dispositivi totalizzanti che di fatto annullano il singolo individuo.  Le destre economiche hanno capito che dovevano passare dall’esercizio del dominio all’egemonia culturale, rendendo amorfa la società civile, inglobando all’interno dei meccanismi sistemici i partiti e i sindacati di sinistra; dovevano fermare la storia.  Con quest’articolo ho cercato di dare qualche spunto di riflessione su come le destre economiche mantengono bel saldo il potere nelle loro mani; sono partito con l’analizzare i colpi di stato militari (riportando un esempio che ha riguardato il nostro paese), fino ad arrivare agli attuali metodi di controllo delle masse.  Sicuramente la mia analisi è incompleta ma spero che possa fornire qualche spunto di riflessione al lettore che intende approfondire questi argomenti.  La battaglia contro le destre economiche, contro questi mostri che stanno distruggendo le nostre vite, è prima di tutto una lotta per l’alfabetizzazione delle masse.  Marx nei “Manoscritti economico-filosofici del 1844’’ afferma “L’animale costruisce soltanto secondo la misura e il bisogno della specie, a cui appartiene, mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e sa ovunque predisporre la misura inerente a quel determinato oggetto; quindi l’uomo costruisce anche secondo le leggi di bellezza...  Questa frase di Marx contiene tutto il valore umano di una prospettiva socialista; bisogna insegnare alle gente che cos’è la bellezza, quella vera, perché solo così potremo vincere l’alienazione e l’incivilimento di questa società capitalistica.
Note:  


1) Il 7 dicembre 1969 il The Observer pubblicava in prima pagina con un titolo a caratteri cubitali,Greek Premier Plots Army Coup in Italy,la fotocopia dell’originale in lingua greca e la relativa traduzione in inglese,del documento che gli agenti del MI-6 avevano sottratto all’ambasciatore Poumpouras.
Testi utilizzati:
1)’’Il segreto della Repubblica la verità politica sulla strage di Piazza Fontana’’Fulvio e Gianfranco Bellini.
2)’’Per una teoria del colpo di stato’’Roberto Ravi Pinto.
Letture utili:
1)’’Teologia Politica’’Carl Schmitt  
2)’’Psicanalisi e politica’’Herbert Marcuse
    
http://www.webalice.it/mario.gangarossa/sottolebandieredelmarxismo_dossier/2010_11_stefano-zecchinelli_le-democrazie-manipolate-dal-dopoguerra-ad-oggi.htm
Articolo pubblicato anche su: Sotto le bandiere del marxismo

giovedì 25 agosto 2011

Risposta critica sulla Libia al compagno/amico Mortara, di Riccardo Achilli



Poiché l’articolo recente del compagno ed amico Lorenzo Mortara, intitolato Della Libia e di altre rivoluzioni, è una specie di combinazione fra una recensione critica del mio precedente articolo Dopo Gheddafi la barbarie? (a dire il vero letto anche con una certa approssimazione) ed una sorta di assemblaggio di elementi di teoria marxista, con a mio avviso una carenza di analisi della situazione reale, mi corre l’obbligo di rispondergli, perché la posizione che assume in ordine alle vicende libiche può portare, a mio giudizio, ad una legittimazione di fatto di rivolte fasulle, dietro le quali vi sono interessi imperialistici reali, e quindi fare (anche e ovviamente non è questa la sua intenzione) l’interesse dell’imperialismo stesso. Premetto che, oltre alla risposta qui presente, non dedicherò ulteriore attenzione all’articolo di Mortara ed alle susseguenti deduzioni che saranno fatte nello sviluppo delle discussioni su facebook, sia perché non ho il tempo di perdermi in una lunga diatriba, sia perché io e Mortara collaboriamo, insieme ad altri compagni, nella gestione di un gruppo e di un blog, per cui ritengo di non voler spingere la polemica oltre livelli che comprometterebbero la collaborazione fra noi.

Il Mortara asserisce che il mio articolo, che critica la fazione di fatto vincitrice della guerra civile, ovvero il Cnt, è senza coraggio, ma andrebbe discusso anche il coraggio di chi, come lui, si accoda al carro del vincitore, oltretutto con una venatura idealistica di cui accusa me (“Achilli vede nero perché il suo pessimismo è ammantato di idealismo”, sostiene). Tuttavia, affermazioni contenute nell’articolo di Mortara, come quella per cui “i compagni da salotto che gli sputano (ai miliziani del Cnt, nda) dovrebbero avere più rispetto per chi ha avuto comunque il coraggio di mettersi in gioco…se hanno rischiato anche la vita, è segno che forse i mercenari di Bengasi non sono così privi di valore” sono tipicamente affermazioni idealistiche, soprattutto quando poi Mortara stesso ammette che “come il vecchio regime era corrotto dall’imperialismo con cui trafficava, anche i nuovi aspiranti al comando qualche legame dovevano avercelo” e che “il coordinamento dei primi comitati rivoluzionari è stato preso immediatamente in mano da quell’unico pezzo di organizzazione che si è staccato dal regime”. Non saprei trovare affermazione più idealistica e meno marxista (cioè meno materialista) di quella che fa Mortara. Il suo argomento è: “i miliziani del Cnt sono spezzoni del vecchio regime che trafficava con l’imperialismo, sono anche l’espressione locale di questo imperialismo, ma siccome stanno sul campo a rischiare la pelle, noialtri pantofolai, nei nostri comodi e pacifici salotti, non abbiamo il diritto di criticarli, non abbiamo il diritto di dire chi siano realmente costoro”. Sembra risuonare, in questo discorso, la poesia dell’ottimo Osvaldo Tagliavini “Dimmi Mefite/ di sanguinosi corpi/ e del trono del mito e della leggenda”. Caro Mortara, idealizzare i combattenti solo perché combattono, anche se si riconosce che sono frammenti di un regime che ci dovrebbe essere nemico, è idealismo all’ennesima potenza. In base a ciò, potremmo idealizzare anche i combattenti di Salò, che in fondo erano anche loro “nuovi aspiranti al comando”, con più di “qualche legame” con gli assetti di potere controrivoluzionari.


Ma veniamo all’elemento centrale dell’argomentazione del compagno Mortara. Lui ritiene che, con la rivolta libica, il proletariato di quel Paese abbia fatto un passo avanti verso una futura possibilità rivoluzionaria, anche se riconosce che la rivolta è connotata da un evidente tratto borghese. Perché? Intanto perché, per il semplice fatto che si sono mosse delle “masse”, ciò vale a qualificare la rivolta come una rivoluzione dalla base. E’ superfluo ricordare a tal proposito che la storia è piena di rivoluzioni borghesi che si sono fatte sulla pelle delle masse, mandate avanti a farsi massacrare. La Rivoluzione francese era una rivoluzione borghese, ma a farsi ammazzare nella battaglia per la presa della Bastiglia ci andarono i sanculotti. Peccato però che non furono i sanculotti a trarre beneficio dalla rivoluzione ma che, dopo la fase del terrore, arrivò la restaurazione bonapartista, e dopo questa l’impero borghese di Napoleone III, e dopo questo una repubblica liberale e borghese. Lo stesso si può dire della “rivoluzione” americana, così come anche delle rivoluzioni antispagnole delle colonie latinoamericane, che hanno aperto la strada all’emergere di borghesie nazionali dominanti. Nei Paesi in via di sviluppo, poi, capita spesso che una frazione “illuminata” della borghesia faccia una “rivoluzione”, se così si può dire, contro la frazione compradora della borghesia stessa, asservita agli interessi imperialistici esterni. E gli esiti, se tali “rivoluzioni” hanno successo, sono sempre gli stessi: una forma di socialismo integrato dentro i circuiti del capitalismo globale, con cui fa affari, e che tende rapidamente a ripiegare su sé stesso, burocratizzandosi, e cancellando progressivamente le conquiste sociali precedentemente elargite, perché nella fase iniziale della “rivoluzione”, la borghesia illuminata aveva bisogno di allearsi con il proletariato per spodestare la borghesia compradora, e quindi, inizialmente, doveva concedere qualcosa al proletariato stesso.

Inoltre, il compagno Mortara considera rivoluzionaria la rivolta libica, perché nel suo articolo non c’è traccia della teoria marxista della rivoluzione, ben descritta da Lenin. Ciò si vede dal modo in cui critica l’utilizzo di due dati statistici nel mio articolo: il Pil pro capite e la speranza di vita alla nascita, che vedono la Libia primeggiare rispetto al Nord Africa, ed al continente africano in generale. Dice Mortara che “le statistiche non sono sufficienti per stabilire se sia legittima o meno una rivolta…un popolo con la pancia piena ma con la testa prigioniera, ha tutto il diritto di sentirsi sfruttato…se in Italia un Pil pro capite di 25.000 euro a testa non è sufficiente per tenersi al riparo dalle rivolte, a maggior ragione non dovrebbe essere quello libico che ne garantisce un quarto di meno”. Sarei anche d’accordo con l’affermazione di Mortara, se non fosse per un elemento di fondo, che egli stesso riconosce: l’esplosione del Nord Africa è una delle conseguenze della recessione globale avviatasi nel 2007. Quindi, il motivo per il quale Algeria, Tunisia, Egitto ed anche Marocco sono esplosi è genuinamente un motivo economico: in Paesi già poveri, le conseguenze della recessione hanno determinato un ulteriore impoverimento che è divenuto insopportabile, facendo esplodere equilibri sociali già di per sé molto fragili. Nei nostri Paesi ricchi, le rivolte sempre più frequenti cui assistiamo sono il frutto di un impoverimento molto rapido di frange del proletariato che, nella fase socialdemocratica del capitalismo, erano state portate a raggiungere livelli di benessere elevati. Tutto ciò non fa che confermare ciò che diceva Lenin circa le condizioni oggettive per avviare una situazione realmente rivoluzionaria: una delle tre condizioni oggettive è quella di “un incremento senza precedenti delle necessità e delle calamità delle masse”. Quindi, secondo Lenin, un prerequisito essenziale per una rivoluzione è un rapido declino del tenore di vita delle masse, non importa se tale declino avviene in Paesi già poveri, e quindi si traduce in miseria totale, o in Paesi ricchi. Tutto ciò non è avvenuto in Libia: le caratteristiche della sua economia, legate all’esportazione di petrolio, hanno infatti tenuto tale Paese relativamente al riparo dagli effetti della recessione globale. Il Pil pro capite libico (tanto odiato dal mio compagno, nonché amico, Mortara) è il più alto di tutto il Nord Africa. E, se vogliamo evitare il Pil pro capite, che essendo una media richiama la nota storiella del pollo di Trilussa, diciamo anche che lo “human development index”, ovvero un indice composito che tiene conto del reddito pro capite, dell’aspettativa di vita e del livello di istruzione della popolazione, e quindi è un indicatore della qualità “sociale” dello sviluppo, colloca la Libia al primo posto in tutto il continente africano. E, caro Mortara, serve a poco richiamarmi il 30% di tasso di disoccupazione in Libia. Chiunque conosce quel Paese sa che gran parte dell’occupazione operaia nell’industria e nei servizi è coperta da proletariato immigrato (in particolare, da Ciad, Niger, Sudan, Pakistan, India, immigrati che peraltro affollano la Libia proprio perché questo Paese è in condizione di offrire loro livelli salariali relativamente soddisfacenti). Ciò significa che gran parte della disoccupazione libica è volontaria (ed in realtà nasconde anche fasce di lavoro sommerso). E comunque, caro Mortara, non vi è lo stesso impatto sociale (e quindi la stessa carica di rabbia rivoluzionaria) in un Paese che ha un 30% di tasso di disoccupazione ma in cui la casa, le bollette, ed i generi alimentari di prima necessità, oltre che i servizi pubblici essenziali, sono interamente a carico dello Stato, rispetto ad un altro Paese con un 5-6% di tasso di disoccupazione (poniamo gli stati Uniti, ad esempio) ma dove tali benefici sociali non esistono, o sono molto più ridotti, e quasi tutti i beni e servizi essenziali per la sopravvivenza devono essere acquistati sul mercato con denaro sonante. Quindi, sulla base di queste poche, sporche e maledette statistiche, il compagno Mortara mi consentirà, spero, di ritenere che in Libia non vi fosse, a Febbraio dell’anno scorso, la stessa intensità della condizione oggettiva di “incremento senza precedenti delle necessità e delle calamità delle masse” che si è verificata in altri Paesi del Maghreb, e che si sta verificando nella ricca Europa che, benché molto più ricca della Libia, sta però scontando un processo di deterioramento delle condizioni di vita di ampie fasce del proletariato. A generare la condizione oggettiva di “incremento delle necessità e delle calamità delle masse” è, infatti, la dinamica, non il livello assoluto di partenza degli indicatori economici che misurano la condizioni di vita.


In realtà, caro compagno, quello che manca per poter definire “rivoluzionaria” la situazione libica è la condizione soggettiva, sempre descritta da Lenin, ovvero la presenza di un partito organizzato di avanguardie, in grado di far crescere la coscienza di classe delle masse. In sua assenza (e tu stesso ammetti, nel tuo articolo, che tale partito non esiste, anzi quando imputi la natura borghese della rivolta libica ad un deficit di avanguardie, quello è l’unico punto dell’intero articolo in cui concordo con te) le masse non possono che farsi “fottere”, per dirla in francese, da frazioni di borghesia che, in un Paese in via di sviluppo, non possono che legarsi inestricabilmente con gli interessi dell’imperialismo esterno.


Veniamo quindi al punto di fondo dell’articolo di Mortara: non è vero, come afferma lui, che con la rivolta libica il proletariato di quel Paese abbia fatto un piccolo passo in avanti. E’ vero che la Jamahiriyah era un regime legato con l’imperialismo a doppio filo (in particolare, anche con quello italiano). Però il passaggio da Gheddafi all’imperialismo anglo-franco-americano non comporterà nessun miglioramento della coscienza di classe del proletariato nazionale. Voglio lasciar da parte le tristi scene di questi giorni, di masse di proletari libici che inneggiano alle fotografie di Sarkozy, Cameron o Obama. Il punto di fondo è che il capitalismo è, per usare una immagine di Deleuze, una “grande macchina desiderante”, dove però i desideri che vengono prodotti sono manipolati, orientati, distorti dal consumismo e dall’unidimensionalità del cittadino/suddito, che deve essere soltanto produttore alienato e consumatore docile. Mentre la Jamahiriyah (in questo concordo con Mortara, più a chiacchiere che nei fatti) predicava l’autonomia dei processi di sviluppo nazionale e la democrazia dal basso, il capitalismo liberale a guida esterna che la sostituirà a breve predicherà la produttività del lavoro, l’integrazione servile nei circuiti della globalizzazione, l’ottundimento totale (ben studiato da Fromm e da Marcuse) della coscienza rivoluzionaria delle masse, ottenuto tramite i centri commerciali ed i Mac Donald. In queste condizioni, la coscienza rivoluzionaria delle masse libiche non potrà che arretrare. Gli si venderà il grande sogno di plastica del capitalismo, e le masse si piegheranno, perché dopo aver tanto sofferto, dopo aver versato tanto sangue durante l’attuale “rivolta”, il desiderio, umanamente comprensibile, di ritorno alla pace ed alla vita serena sarà intermediato dalla “pax consumistica” del capitalismo. Ed allora addio alla prospettiva di coinvolgere le masse libiche in una prospettiva rivoluzionaria per i prossimi cento cinquant’anni. D’altra parte, caro Mortara, lo affermi nel tuo stesso articolo: “Bengasi ha potuto per ora dirottare la protesta sociale verso la richiesta di un normale programma democratico. I giovani ribelli sono insorti per sostituire il Rais con il “lavoro”. L’arretramento della coscienza di classe ha fatto sì che la parola lavoro potesse anche tradursi facilmente in programma nazionale borghese”. Certo, è appunto questo ciò che sta succedendo. Ed è vero come dici tu, che ciò dipende dall’assenza di un partito di avanguardie rivoluzionarie. Ma rimane il fatto che la virata verso un programma nazionale borghese non potrà che accompagnarsi ad un arretramento della coscienza di classe, e quindi in un allontanamento da obiettivi rivoluzionari. Esattamente ciò che le potenze imperialiste ed i loro alleati del Cnt vogliono.

E se qualcuno nutrisse dei dubbi sul fatto che la Libia verrà presa sotto il soffocante alone del controllo imperialistico, basti pensare ad alcuni elementi: chi potrà ricostruire città ed infrastrutture nazionali distrutte dalla guerra, se non le potenze imperialistiche che questa guerra hanno creato? Naturalmente chiederanno qualcosa in cambio, e quel qualcosa è il controllo politico ed economico del Paese. Basta leggere i giornali in questi giorni per capirlo: Jalil, il leader del Cnt, dichiara che tutti i contratti petroliferi in essere con i Paesi capitalisti occidentali verranno rispettati, mentre gli investimenti cinesi e russi in Libia potrebbero essere in pericolo. Lo stesso Jalil sta facendo una tournée in Europa per stipulare nuovi contratti con i Paesi che, direttamente o indirettamente, hanno partecipato alla guerra, e che sono stati rapidissimi a riconoscere ufficialmente il Cnt, mentre, a norma di diritto internazionale, il legittimo governo libico è ancora quello di Gheddafi. D’altro canto, un funzionario del Ministero degli Esteri britannico ha dichiarato che stanno approntando un team di specialisti da inviare in Libia, per “stabilizzare” la situazione politica dopo il definitivo rovesciamento di Gheddafi. Che significa ciò? Significa che la Gran Bretagna si appresta a controllare, o influenzare, il futuro governo libico. D’altra parte, il Cnt non potrà negare tale influenza, perché ha un debito di riconoscenza particolare con i britannici: è notizia ufficiale di queste ore, confermata dallo Stato Maggiore delle Forze Armate britanniche, che fin dall’inizio della “rivolta”, reparti speciali dei SAS operavano sul terreno libico (in sfregio alle risoluzioni Onu che prevedevano solo interventi aerei) per inquadrare, addestrare e dirigere le milizie ribelli. In fondo, il Cnt, così come l’esercito dei ribelli, è comandato da ex dignitari del regime di Gheddafi, di cui Jalloud e Jalil sono soltanto gli esponenti più noti e prestigiosi. Ora, se costoro hanno collaborato per decenni con il regime di Gheddafi, e se questo non era un regime socialista, allora, per la nota proprietà transitiva, costoro non sono affatto interessati a promuovere una rivoluzione di massa, ma soltanto a mantenere sé stessi, ed i loro clan, al potere nel post-Gheddafi. E per fare ciò, dovranno inevitabilmente soffocare la sollevazione delle masse, che da fattore di vittoria contro Gheddafi, si trasformerà in pericoloso fattore di destabilizzazione dei dirigenti politici del post-Gheddafi.

Una cosa buona Gheddafi aveva ottenuto, sia pur con tutta la sua tracotanza: una certa autonomia della Libia dall’imperialismo globale, che si estrinsecava nella sua influenza sugli altri Paesi del cartello dell’OPEC, e quindi sulla fissazione del prezzo mondiale del petrolio. Tale potere di influenza gli era valso la sopravvivenza politica dopo i bombardamenti reaganiani degli anni Ottanta, ed un ruolo significativo del suo Paese nella spartizione del plusvalore capitalistico mondiale. Da domani, la Libia sarà soltanto una della tante “Banana Republic” che dovranno obbedire alle direttive del FMI, degli Usa e della Ue (tramite la banca mondiale, chiamata a finanziare la ricostruzione post bellica del Paese). Ora ti chiedo, caro compagno: secondo te, questo è un avanzamento della situazione oggettiva del proletariato libico? In questo risiede, devo dire, una tua incomprensione dell’uso della “legge dello sviluppo diseguale e combinato”, che faccio nel mio articolo. Tramite tale legge, Trotzky evidenzia, tra l’altro, come nazioni arretrate possano subire un repentino balzo in avanti nelle condizioni di sviluppo delle loro forze produttive quando, abbandonando (o essendo costrette ad abbandonare) strade di sviluppo autoctone, importano, copiandolo, il sistema economico di Paesi esterni che le dominano in una logica neo coloniale. Questo è esattamente quello che sta succedendo in Libia.

E poi, compagno Mortara, uscendo un attimo dall’angusto ambito libico, sei davvero convinto che l’esito finale della guerra sia stato un “catastrofico successo” per l’imperialismo? Cosa credi che ci siano andati a fare Francia, USA e Gran Bretagna in Libia? A rovesciare Gheddafi per creare condizioni più favorevoli a una futura rivoluzione proletaria? Non ti viene in mente che hanno semplicemente eliminato un leader politico fastidioso, perché troppo autonomo, e che in questo modo hanno indebolito il cartello dell’OPEC (dove, con l’eliminazione di Saddam Hussein e di Gheddafi, rimarrà il solo Chavez a giocare il ruolo del nemico dell’imperialismo globale, confrontandosi con Paesi filo-occidentali come l’Arabia Saudita o il Kuwait)? Non ti viene in mente che un maggiore controllo sul prezzo del petrolio, e quindi un suo abbassamento, siano condizioni essenziali per aiutare il capitalismo globale ad uscire dalla presente recessione sistemica? Non ti viene in mente che si sta realizzando, tramite la sottomissione della Libia, quel disegno di “stretta” imperialistica che il capitalismo è costretto a dare, quando non trova più opportunità di accumulazione, come analizzato già da Rosa Luxemburg nel 1913? E non ti sembra che una simile stretta potrebbe mettere il mondo intero in pericolo di una guerra globale, perché porterà ad una contrapposizione fra interessi capitalistici occidentali e sino-cinesi (come già si sta verificando in Libia, ma anche in altri Paesi africani, come il Sudan, in cui vi è una crescente influenza cinese)? Non ti sembra che la cosa più marxista da fare sia analizzare la situazione con gli strumenti analitici che i padri del marxismo hanno già forgiato? Oppure credi che un progresso nelle condizioni rivoluzionarie possa passare tramite la democrazia? In questo caso, mi spiace ma ciò non è molto marxista.

DELLA LIBIA E DI ALTRE RIVOLUZIONI di L. Mortara



di Lorenzo Mortara

La rivoluzione mondiale s’è desta. Partita dalla Tunisia è rimbalzata in Egitto propagandosi rapidamente in mezzo mondo arabo. È però in Libia, con l’intervento diretto della Nato, che la sua marcia si è complicata, rendendo difficile la sua decifrazione. Non stupisce quindi che proprio sulla Libia i comunisti abbiano cominciato a beccarsi sulla posizione da prendere. Non è assolutamente un compito facile e, chi scrive, non ha certo la pretesa di stabilire con certezza assoluta quale sia il campo da prendere, ma crede sia suo dovere dare qualche dritta per contribuire a fare meno errori possibile.

Quello che è certo è che la rivolta scoppiata a Bengasi ha illuso molti di noi, me compreso, che fosse una cosa da niente liquidare Gheddafi. Quando poi la rivolta si è arenata, alla sottovalutazione del Rais, ha fatto immediatamente seguito la sua sopravvalutazione. Sembrava quasi che la primavera araba, con la riconquista di Bengasi, fosse praticamente finita. Invece la rivoluzione ha ripreso la marcia e oggi anche se non sappiamo che fiori metterà, sappiamo almeno che non è finita. Perciò, per ora, invece della fine della primavera araba, cominciamo a registrare l’autunno del patriarca libico!




INCIPIT DEL MARXISMO D’OGGI


Una volta che si è sbobinato il nastro, bisogna però riavvolgerlo per il verso giusto. Da dove deve partire il nostro marxismo per una corretta interpretazione degli eventi libici? Il compagno Riccardo Achilli, nel suo ultimo articolo – Dopo Gheddafi la barbarie? – ci dice che l’esito della rivolta libica deve essere valutato in base alla «logica della legge dello sviluppo diseguale e combinato». Tuttavia, la legge dello sviluppo ineguale e combinato, ci spiega perché una rivoluzione può scoppiare in un Paese arretrato prima che in uno avanzato e come le due cose possano combinarsi, ma non può affatto stabilire dove si dirigerà tutto il processo. Altrimenti sarebbe fin troppo facile. La legge delle sviluppo ineguale e combinato ci parla soprattutto della struttura economica, ma ci dice ben poco della sua interazione con la sovrastruttura politica. Del resto non la può prevedere, essendo questa molto più fluida. La legge dello sviluppo ineguale e combinato nasce per una contrapposizione scientifica al “marxismo” volgare e meccanicistico che stabilisce una tabella idealistica di marcia per tutti i popoli, in modo da avere la scusa buona per non appoggiarne le rivolte, quando ovviamente nessuna nazione ci si atterrà. La legge dello sviluppo ineguale e combinato ha carattere generale, ma non ci dice quali sono le specifiche caratteristiche delle rivolte d’oggi. È da qui invece che dobbiamo far partire la nostra analisi, altrimenti proprio perché si è presa una misura generale, l’analisi resterà generica.

Quali sono gli aspetti fondamentali delle attuali rivolte? In primo luogo – e fin qui credo ci troveremo tutti d’accordo – la crisi devastante del capitalismo, il più grande crack dai tempi del crollo di Wall Strett del 1929. Epperò questo vale in linea di massima per i borghesi. Per noi invece, per il proletariato, qual è oggi l’aspetto più importante da tenere a mente? Il fatto che alla crisi del capitalismo noi non possiamo che rispondere con una crisi ancora più devastante e lunga di direzione storica. Il capitalismo è entrato in coma nel 2008, noi lo eravamo già nel 1924 con la morte di Lenin, quando la nostra testa è stata decapitata e da allora non si è più rincollata. Non solo, ma nel 1989-91 oltre alla testa, c’è stato pure lo scempio del corpo. Non dobbiamo solo risollevarci dalla polvere, ma rialzarci da un’ecatombe. Questa ecatombe, anche se può sembrare inutile dirlo, si chiama stalinismo. Ma non lo è, vista la facilità con cui molti compagni tendono a dimenticarsene.

La crisi storica dell’umanità, ha scritto Trotsky nel suo testo più importante, il Programma di transizione, si «riduce alla crisi della direzione rivoluzionaria». E Trotsky scrive questo nel 1938. Da allora la crisi non si è mica ridotta, anzi si è acuita all’ennesima potenza. Sembra che la maggior parte dei compagni non rifletta minimamente sull’importanza di questo concetto, su cui ruotano di fatto tutti i nostri problemi. Eppure, se tanto mi dà tanto, la crisi della direzione rivoluzionaria del proletariato, porta naturalmente con sé la stabilizzazione della sua direzione controrivoluzionaria. O meglio, quanto più nel proletariato è in crisi la direzione rivoluzionaria, tanto più è stabile, in piena forma e rigoglio, la sua direzione borghese. Che le direzioni delle attuali rivolte vengano prese dai borghesi, dunque, non dovrebbe stupire, anzi a stupire dovrebbe essere il contrario. Ci vorrà probabilmente ancora tutto un periodo storico prima che le masse possano avere alla testa la direzione giusta. Con tutte le disfatte che il proletariato ha dovuto subire solo negli ultimi cinquant’anni, la presa borghese sulla sua testa è così forte che tre o quattro rivolte spontanee non bastano per scuotersela di dosso. Quei compagni che dal primo momento della rivolta non han fatto altro che sputare sentenze sui “tagliagole di Bengasi”, dovrebbero capire che in questo momento, pretendere dalle masse in rivolta che si richiamino a rivoluzioni socialiste piuttosto che a rivoluzioni più o meno democratiche borghesi, significa pretendere che le masse colmino spontaneamente un secolo di ritardo. Tra l’altro, in sé e per sé, non c’è niente di più infelice dell’espressione tagliagole. Infatti, anche ammesso più per ipotesi assurda che sia effettivamente così, in tempi di guerra civile, di sommosse e rivoluzioni, non essere un tagliagola, significa soltanto essere perfetto per farsi sgozzare dalla controrivoluzione. Essere un tagliagola, in questi momenti, non è un difetto ma una qualità, solo dei rivoluzionari senza qualità possono pensare il contrario.

È soltanto colpa dell’avanguardia se ci sono i borghesi alla testa di Bengasi, perché tocca a lei colmare il divario, riempire la distanza che ancora la separa dal resto della classe. Non il contrario. Chi ha preso subito le distanze da Bengasi non ha fatto altro che aumentarle, creando cioè le premesse perché si ripetano all’infinito altre rivolte spontanee immancabilmente preda dei borghesi. Non è un’avanguardia ma una retroguardia. Un’avanguardia, infatti, sa bene come le masse in generale imparino dall’esperienza e non dai libri. E spiace dirlo, ma per l’esperienza storica delle masse, comunismo vuol dire stalinismo, gulag, morte e repressione. Un giovane medio che oggi, a soli vent’anni dal crollo dell’URSS, si rivolti attraverso un programma democratico borghese non è stupido ma intelligente, perché solo un deficiente potrebbe preferirgli d’istinto lo stalinismo. Noi “marxisti studiati”, ovviamente, sappiamo che lo stalinismo è almeno superiore nella sua struttura economica, ma che può saperne di queste cose la gran massa degli sfruttati dalla dittatura del Rais? Come può un popolo imparare il trotskismo col peso censorio della dittatura, aggravato oltretutto da un 18% di analfabeti? Ma anche con un quinto di ignoranza brutale, i giovani della Libia sono meno deficienti di chi non si fa carico delle loro mancanze.

Alan Woods, uno dei pochi compagni che ha invece riflettuto sulle parole di Trotsky, le ha approfondite spiegando che il «fattore più importante nell’attuale situazione è l’assenza di una forte e autorevole direzione marxista su scala mondiale. La tendenza genuinamente marxista è stata ricacciata indietro per decenni (ultimo corsivo mio) e oggi rappresenta una piccola minoranza. Non può ancora guidare le masse alla vittoria. Ma i problemi delle masse sono impellenti. Le masse non possono aspettare che noi siamo pronti per guidarle»1. Questo pensiero di Woods, è il concetto marxista teoricamente più importante di tutta l’attuale fase storica che stiamo vivendo e probabilmente anche della prossima. Forse l’intera nostra generazione dovrà essere sacrificata sull’altare delle direzioni borghesi. Tanto è il tempo, probabilmente necessario, per poterne vedere spuntare qualcuna proletaria. Bisognerebbe marchiare a fuoco queste parole sulla fronte dei compagni più duri di comprendonio. O si parte da qui per analizzare gli eventi, o ci si ferma subito non al marxismo ma a un suo surrogato.

Se invece si fa lo sforzo di partire da qui, è facile constatare come non siano le masse ad essere deficienti, ma è la deficienza della loro direzione che è ormai patologica. I “mongoloidi” siamo noi, almeno questa è l’apparenza, ed è giusto che sia così, perché le masse un’altra esperienza storica non ce l’hanno e bisognerà fargliela rifare più o meno da capo. Decenni di ritardo direzionale, si colmeranno pian piano attraversando decenni di direzione borghese, ma solo se questa direzione verrà incalzata, fianco fianco alle masse, dalla spina nel fianco della critica rivoluzionaria.

Il partito è in ritardo ma le masse non possono aspettare i comunisti ritardati. È ora che i compagni si sveglino e comincino quantomeno a comprenderlo. Senza immischiarsi nelle faccende dei tagliagole di Bengasi e di altre rivoluzioni, oltre a rimanere decapitati, continueremo a far scempio anche del nostro corpo.



STALINISTI E ALTRI PARTIGIANI DI GHEDDAFI

OVVERO NESSUN MARXISTA SCRIVE AL COLONNELLO!



Invece di cominciare dove si è interrotto il marxismo, cioè circa un secolo fa, per provare a risalire la corrente, la maggior parte dei compagni resta fulminata vedendo spuntare da lontano la bandiera monarchica, dimenticando così la relatività delle cose. Pretendono che le masse si ribellino col Capitale in una mano e la bandiera rossa nell’altra. Sarebbe bello se fosse così, non ci sarebbe bisogno di alcuna rivoluzione, perché l’avremmo già fatta attraverso quella metafisica delle coscienze. È strano come certi “marxisti”, non solo pretendano la rivoluzione delle coscienze, ma pretendano pure che avvenga nell’epoca del più spaventoso arretramento storico della coscienza di classe. Purtroppo per noi, indietro di un secolo come siamo, la bandiera di Re Idris mischiata con gli striscioni per l’eroe Omar Al Mukhtar, anche se non è propriamente quello che vorremmo vedere, può essere benissimo un progresso rispetto a un dispotismo medioevale come quello di Gheddafi. Soprattutto se si pensa, tanto per fare un esempio, all’abuso “colonialistico” che il regime ha fatto di un eroe come Omar Al Mukhtar, spacciato come simbolo libico, quando in realtà fu un combattente che scrisse la sua epica per la sola Storia della Cirenaica.

Ad ogni modo, le bandiere rosse verranno dopo, sempre che verranno, perché con compagni così schizzinosi è già tanto se riusciremo a metterle nell’ultima delle piazze libiche.

I rivoluzionari, a differenza dei normali comunisti, si riconoscono dal fatto che osservano dal basso i processi storici. La maggior parte dei comunisti, al contrario, non son capaci di far altro che vederli dall’alto, è più forte di loro, proprio per questo sorvolano sempre sui processi rivoluzionari in corso. Non sono interessati al movimento vivo delle persone, ma dai retroscena della loro fantastoria di cui fanno incetta di pettegolezzi come fossero chissà quale reliquia. Da questo punto di vista non si distinguono molto dagli stalinisti. Non vedendo le masse, gli stalinisti non riescono a relazionarsi alla classe operaia, ma sempre e solo a questo o quel gruppo di potere. Di conseguenza, in Libia lo scontro non è più tra masse da una parte e dall’altra, ma tra Nato e Gheddafi. E siccome Nato vuol dire imperialismo, il campo stalinista antimperialista grida Viva Gheddafi, cioè Viva l’imperialismo del giorno prima! L’estremismo di sinistra, altrettanto incapace di veder le masse, ma non potendo però urlare le stesse cose degli stalinisti, grida Abbasso i tagliagole di Bengasi, Abbasso l’imperialismo del giorno dopo! Entrambi restano alla stessa distanza dalla rivoluzione, gli uni a destra, gli altri a sinistra, ognuno a girare come una trottola su sé stesso. Li accomuna l’idea della Storia fatta a complotti e la comune ricerca di inutili scartoffie e ciance che comprovino la complessa dietrologia che hanno in testa al posto della semplice osservazione diretta degli eventi.

Per il marxismo rivolte, sommosse e processi rivoluzionari, sono creati con una certa frequenza dalle contraddizioni stesse del sistema capitalista. Non solo, l’esperienza ci ha anche insegnato che in genere una rivolta tira l’altra. Quel che è successo in Libia quindi non dovrebbe stupire nessun compagno, anzi dovrebbe essere salutato come l’ennesima conferma della nostra meravigliosa dottrina. Ma se per la nostra dottrina basta l’aumento della miseria e dello sfruttamento a generare quel che abbiamo sotto gli occhi, per stalinisti ed estremisti questo non sarebbe possibile senza il finanziamento dell’imperialismo! Ribaltata la nostra dottrina, per i marxisti a testa in giù, sono i soldi a generare le sommosse, non la loro mancanza! La cosa è doppiamente ridicola, nel caso libico, perché ci troveremmo di fronte all’imperialismo che finanzia qualcuno per aizzarlo direttamente contro sé stesso! La verità è che i soldi l’imperialismo non li usa per finanziar rivolte e rivoluzioni, semmai per corromperle. Non è la stessa cosa. Questo, infatti, è il motivo per cui l’imperialismo s’è precipitato in Libia: per mettersi alla testa della Rivoluzione prima che degenerasse – dal suo punto di vista e non dal nostro – in qualcosa di progressista o addirittura di socialista. L’imperialismo, proprio come tutti padroni, ha scaricato immediatamente il suo alleato Gheddafi, quando ha avuto paura, sottovalutandolo, che non fosse più in grado di tenere sotto controllo le masse. Quando poi ha visto che non era così spacciato come credeva, ormai era troppo tardi per tornare indietro e perdere la faccia. La partita, anche se gli imperialisti si sarebbero accontentati di un pari e patta a tavolino, doveva a quel punto essere giocata accettando l’imprevedibilità del risultato. Invece di trarre lezioni dai nostri avversari, partigiani di Gheddafi e sputasentenze contro Bengasi, preferiscono continuare a fare i cattivi maestri del marxismo. Che cosa dovrebbe insegnare ai giovani marxisti il repentino intervento Nato in Libia? Che appunto non c’è rivolta che possa sfuggire ai borghesi, dove ci sono masse ribelli, i borghesi vi si fiondano come falchi per prenderne la direzione. Se la direzione di Bengasi è caduta subito sotto il controllo imperiale, significa che a contrastarla c’erano tutti tranne noi comunisti. Quanto più sono lontani i comunisti, tanto più è facile per i borghesi prendere la testa delle masse. Tutto qui. È normale, come detto, che i comunisti si trovino a cento anni di distanza dalla Bengasi in rivolta di oggi. Se è normale quindi che non si riesca a recuperare, in un paio di mesi, un secolo di ritardo storico del partito, è però assurdo che non si riesca accorciare manco di un passo, lo spazio di distanza che ci separa da Bengasi. Invece è proprio così, mentre i borghesi si immischiano subito in una cosa così sporca come la rivoluzione, settari e altri degni compari, se ne lavano le mani a distanza per poi ovviamente sputare sui mercenari di Bengasi, senza rendersi conto che una direzione borghese era pressoché inevitabile, visto che un’altra non poteva esserci, in quanto oltre al ritardo storico del partito, si è aggiunto il ritardo permanente di metà della sua avanguardia che una prospettiva storica non sa manco cos’è.

Fin dalle prime battute della rivolta, la documentazione per informarsi e comprendere la dinamica in Libia non è mancata. Solo in Italia abbiamo avuto un intero numero di Limes2 dedicato all’argomento. Naturalmente trattasi di informazione borghese da prendere con le molle. Per questo abbiamo avuto a supporto parecchio materiale di provenienza marxista. Quello che emerge è presto detto. Come ha sottolineato Del Boca, il rancore contro il tiranno covava da lungo tempo, particolarmente nelle zone più depresse della Cirenaica che poi hanno dato il là alla rivolta. Non si aspettava altro che una scintilla. Non appena scoccata, un 30% circa dei militari si è staccato e ha preso le distanze dal regime, schierandosi dalla parte degli insorti3. Come ogni rivoluzione che si rispetti, anche quella libica ha rispettato il copione, con buona parte della guardia del regime che è passata dalla sua difesa all’attacco. Anche nell’Ottobre, l’armata rossa fu formata con buona parte dei vecchi quadri zaristi. Che c’è di strano? Quello che è strano è pretendere che da quadri simili escano eroi del socialismo. Ma non essere eroi del socialismo, non vuol dire essere automaticamente dei nemici. In ogni processo rivoluzionario si rischia la pelle, e questo dovrebbe bastare per non ridurre tutto a un complotto di mercenari. Venduti quanto si vuole a Bengasi, ma non certo privi di palle. I compagni da salotto che gli sputano addosso belli comodi e in pantofole da quaggiù, dovrebbero mostrare più rispetto per chi ha avuto comunque il coraggio di mettersi in gioco. Vendersi per comprarsi una bara non è tipico dei mercenari, ma dei mercenari cretini. Se hanno rischiato anche la vita, è segno che forse i mercenari di Bengasi non sono così privi di valore come li dipingono i loro critici. Sia come sia, staccatisi dal Rais dopo averlo servito per anni, i “tagliagole” di Bengasi non potevano andare molto più in là di un semplice cambio del regime. E come il vecchio regime era corrotto dall’imperialismo con cui trafficava, anche i nuovi aspiranti al comando qualche legame dovevano avercelo. Ma non basta pagare un pugno di militari per sollevare una città con più di un milione di abitanti come Bengasi. Chi crede che sia solo una questione di soldi, dovrebbe spiegarci perché l’imperialismo non ricorre in ogni momento a un simile espediente? E la risposta è semplice: perché per mettere i suoi uomini alla testa di una rivolta, c’è bisogno prima che delle masse insorgano. E le masse l’imperialismo non le può sollevare a comando. Bengasi, sollevatasi spontaneamente, si è subito trovata di fronte un problema di organizzazione, per la semplice ragione che la dittatura, tra le altre cose, ha spazzato via ogni forma organizzativa delle masse. Non c’è quindi da stupirsi che il coordinamento dei primi comitati rivoluzionari sia stato preso immediatamente in mano da quell’unico pezzo di organizzazione che si è staccato dal regime. Il contrasto subito sorto tra la direzione di Bengasi e la sua base, dovrebbe già bastare per prendere come genuina la rivolta. Mentre la base spingeva per un rovesciamento anche sociale del regime libico, la direzione ha incanalato la lotta verso un rovesciamento solo politico4. Non potendo puntare più di tanto sulle masse per questo, forte della sua presunzione, la direzione di Bengasi, dando per finito il Rais, ha concentrato sempre più il suo scontro in un duello puramente militare. Arrivata alle porte di Tripoli si è però arenata. Gheddafi non era così solo come poteva sembrare.



TRIPOLI O BENGASI: DA CHE PARTE STARE?


Analizzare gli eventi libici senza dirci quale posizione devono prendere i comunisti, equivale a mettere la testa sotto la sabbia come gli struzzi. Invece è proprio qui il lato spinoso della questione. Una volta scoppiata la rivolta che dovevano fare i comunisti? Alle prime manifestazioni di piazza in favore di Gheddafi, gli stalinisti, orfani di baffone, non potevano che schierarsi con la nostalgia di un suo replicante. «Il popolo lo ama ed è ancora con lui», scrivono nei loro blog di stupidaggini. Già solo il fatto che gli stalinisti, i “compagni” più controrivoluzionari di tutti i tempi, si siano schierati dalla parte di Gheddafi, dovrebbe essere più che sufficiente per noi per stare dalla parte di Bengasi, contro Tripoli. Perché in effetti, chi si è schierato con Gheddafi, non è il popolo, ma solo una sua parte, anche abbastanza minoritaria. Le rivoluzioni sono appunto quei momenti storici in cui il popolo si divide grosso modo in due tronconi. È tanto semplice che solo la dabbenaggine degli stalinisti può dimenticarlo. Ma noi marxisti no! Noi non abbiamo bisogno di stare con uno o l’altro dei contendenti, perché sappiamo che ne esiste un terzo, la massa appunto. Ma anche la massa sotto i colpi degli eventi può dividersi. Esistono masse progressiste e reazionarie, masse rivoluzionarie e controrivoluzionarie. Tra Tripoli e Bengasi chi rappresenta le masse progressiste? Un popolo che ama il suo dittatore è solo un popolo che odia sé stesso. Pur con tutta la comprensione possibile e la pietà, noi marxisti non faremo mai l’elogio di quei vandeani che durante la Rivoluzione francese, presero posizione per l’Ancien Régime e si schierarono con la loro palla al piede. Esattamente come il grande Oscar Wilde faceva notare che non c’era niente di più triste, per la testa pensante, di quei neri che durante la guerra di secessione americana, si schierarono con gli schiavisti invece di sgozzarne quanti più possibile! Ma se è triste vedere masse in delirio per Gheddafi, addirittura squallido vedere gente intelligente che gli tiene pure bordone, invece di contribuire in qualche modo all’abbattimento del satrapo.

Anche se Gheddafi per un po’ è sembrato riuscire a ribaltare gli esiti della guerra, tutto questo appoggio evidentemente non ce l’ha avuto. Altrimenti Nato o non Nato non sarebbe caduto. Gheddafi come la Nato ha assaltato dai cieli i ribelli. Ma proprio qui risiede una differenza fondamentale. Mentre la Nato l’ha fatto perché non ha voluto in nessun modo armare la protesta di terra, temendo che la sopravanzasse, Gheddafi non poteva armare il popolo perché più della metà gli avrebbe sparato addosso. La Nato aveva la sue ragioni per non armare le masse, ma il “leader del popolo”, per fare la stessa cosa, aveva solo il torto di non essere più il leader di nessuno. Tuttavia, l’aver messo lo scontro sul piano solo militare da parte del Consiglio Nazionale Transitorio, rinunciando in partenza al proprio pieno potenziale di massa, ha all’inizio favorito il Rais che poteva tra l’altro contare su alcuni quadri militari già sperimentati e non alle prime armi. Ed è proprio al momento dell’intervento Nato, all’apice della controffensiva lealista, quando sembrava che Gheddafi fosse a un passo dal riprendere il controllo della situazione, che i cantori del dittatore si son messi a recitare a squarcia gola le più stucchevoli poesie in memoria dei tanti benefici regalati al popolo dal vecchio regime. Non sappiamo ancora bene come i ribelli siano riusciti a ribaltare le sorti, l’intervento Nato è sicuramente stato decisivo, ma fondamentale si deve essere rivelata anche la modifica della tattica del Consiglio Nazionale Transitorio che, messo alle strette, ha allargato il fronte coinvolgendo con successo nella lotta altre masse prima snobbate.

Quel che qui mi preme contestare, da materialista, è l’uso completamente antimarxista delle statistiche pro o contro una rivoluzione. Per screditare i rivoltosi si è citato i bassi costi di tanti beni di prima necessità, il potente welfare garantito dal regime e altre sciocchezze. Ci si è solo dimenticati di dire che, in regime capitalistico, la media del PIL pro capite è un’astrazione buona solo per ricordare, a chi evidentemente ha ancora un buona memoria, che la ridistribuzione del reddito è in mano ai capitalisti. Appoggiarsi al PIL contro la rivoluzione, significa soltanto stabilire che al posto nostro, anche per le rivoluzioni siano i padroni a dove dare il via. Che siano gli stalinisti a usare questo metro non mi stupisce, visto che sono strutturalmente incapaci di vedere le masse padrone di sé stesse, per cui, medioevali come la Chiesa, pensano sempre che debba esserci una qualche autorità – e quindi, in ultima analisi, loro o nessuno! – che debba dare l’autorizzazione per una rivolta; mi stupisce invece che si perdano nelle statistiche anche i marxisti, quando per noi una rivolta, per essere legittima, è sufficiente che chi abbia deciso di farla, la voglia! Altro metro di giudizio è del tutto ridicolo. Per noi, le masse, avrebbero avuto tutte le giustificazioni per rivoltarsi, anche qualora Gheddafi avesse concesso in anticipo le sette vergini che spettano nell’aldilà ad ogni buon musulmano. Perché, per noi, l’unico Dio che può giudicare la condizione delle masse, è in ultima analisi la massa stessa, autoresponsabile. Dietro il panegirico sul welfare libico come deterrente per le rivolte, c’è la morale del gendarme. La morale rivoluzionaria, in netta antitesi con quella dei gendarmi, se elogia il welfare, lo fa come trampolino di lancio per ulteriori conquiste, non per invitare le masse a restarsene buone e contente, accontentandosi come dei cagnolini di quello che hanno.

Le statistiche non sono sufficienti per stabilire se sia legittima o meno una rivolta, specie quando sono usate male. Ma anche fossero usate bene, bisognerebbe sempre tenere conto della loro relatività. Un popolo con la pancia piena ma con la testa prigioniera, ha tutto il diritto di sentirsi sfruttato, specialmente se grazie alle rivolte vicine, comincia a prendere coscienza del fatto che fino a quando non avrà tutto nella mani, dovrà sempre considerarsi poco meno di un povero disgraziato qual in fondo è.

Perché, comunque, sono usate male queste statistiche? Innanzitutto perché le elargizioni di una dittatura sono sempre soggette alla sottomissione e ai capricci del dittatore5. Pesano quindi molto di più di quello che può apparire ai superficiali. In secondo luogo, il PIL pro-capite, fa credere con la sua media astratta che tutti abbiano 15-18˙000 euro di reddito, quando in realtà con oltre il 30% di disoccupazione, per raggiungere una media del genere è necessaria per forza di cose un’enorme sperequazione nella ridistribuzione concreta e reale. È del PIL dei salariati che dovremmo occuparci, non del PIL interclassista. Proprio per questo e per altre ovvie ragioni, un’aspettativa di vita di 78 anni, non riguarda il futuro dei libici, perché è di fatto desunta più dal presente sulla base del recente passato che altro. Per chi è disoccupato cronico, 78 anni di longevità, non sono un’aspettativa di vita, bensì di un’incessante tortura. E infatti, chi c’è dietro i rivoltosi che si sono ribellati al Torquemada libico? C’è il volto bello e genuino dei tanti giovani senza speranza della Libia, quegli stessi giovani che vogliono emigrare e che vengono rispediti indietro dagli imperialisti con cui s’è accordato il Rais. I giovani libici sanno quel che li aspetta, non 78 anni di vita, ma la morte prematura nei campi di concentramento allestiti dal dittatore per i miserabili a cui non ha altra soluzione da offrire6.

C’è ancora da dire che le stesse persone che negano le basi sociali della rivolta libica, in virtù di un presunto benessere dei prigionieri di uno «scatolone di sabbia», sono le stesse persone che giustamente chiamano se non alla rivolta, almeno alla protesta permanente qui Italia e in tante altre parti del mondo, contro le manovre lacrime e sangue di tutti i governi. Se in Italia un Pil da 25˙000 euro a testa non è sufficiente per ritenersi al riparo dalle rivolte, a maggior ragione non dovrebbe esserlo quello libico che ne garantisce un quarto di meno. Ma la verità è che basterebbe vedere quel che è successo a Londra per capire che non c’è angolo del globo capitalistico che possa dimostrare, numeri alla mano, che non ci sono le ragioni per una sommossa. In verità, è l’esatto contrario: tutte le statistiche dicono chiaro e tondo che le condizioni perché succeda quel che sta succedendo ci sono tutte e dappertutto, Stati Uniti compresi.

Da Londra a Tripoli, come da Atene a Teheran, un filo conduttore tiene insieme le piazze di tutto il mondo: è il sottoproletariato che è in prima linea nell’attuale fase di scontro col Capitale. Questo spiega, tra le altre cose, anche gli aspetti più brutali e puramente vandalici delle rivolte. Proprio perché è abbandonato, disgregato, il sottoproletariato è molto più indisciplinato e anarchico del proletariato vero e proprio. Questo si tiene ancora nell’ombra, in disparte, tramortito dalla troppa paura che ha di perdere quel poco che ha7. Fa fin male vedere come venga snobbata questa parte così martoriata della nostra classe. Per il compagno Achilli trattasi soltanto di «tribù cirenaiche penalizzate nella distribuzione della ricchezza petrolifera nazionale», altro che ribelli! Eppure questi tribali altro non sono che il nostro esercito industriale di riserva che ha capito che resterà per sempre in panchina e ne ha giustamente le palle piene! È gente talmente sfruttata che non ha nemmeno la possibilità di essere sfruttata come gli altri.

Nei paesi sotto il tallone di ferro dell’imperialismo, il proletariato autoctono resta al pari della borghesia rachitico. Mentre la borghesia diventa compradora al soldo dell’imperialismo, il proletariato si sfilaccia, si disperde e infine collassa nel mare dei lumpenproletariat. Quel che ne esce è un mix di capitalismo e di regime semi-feudale che sprofonda sempre di più, incapace di portare a termine una vera e propria rivoluzione borghese.

Proprio perché una rivoluzione borghese non è mai stata portata a termine, Bengasi ha potuto per ora dirottare la protesta sociale verso la richiesta di un normale programma democratico8. I giovani ribelli sono insorti per sostituire il Rais con il «lavoro». L’arretramento della coscienza ha fatto sì che la parola “lavoro”, tra le più pronunciate nelle strade in rivolta, potesse anche tradursi facilmente in programma nazionale borghese. Non deve stupire l’ingenuità di tanti giovani, ma essere compresa e giustificata perfettamente dalla nostra assenza. Sono infatti i comunisti che devono dare carattere scientifico alle richieste popolari e istintive della gioventù che non può che esprimere in forma ibrida la sua voglia di socialismo. Invece, tanti compagni, siccome non han sentito recitare da questi giovani Marx a memoria, ne hanno subito fatto delle marionette di Adam Smith, dimenticando che non sono le idee a muovere il mondo ma gli interessi. E i disoccupati muovono tutti come possono, indipendentemente dallo slogan che preferiscono, verso il socialismo.

Sotto la spinta delle masse, la spinta disperata della disoccupazione, Bengasi ha varato il suo programma borghese. Tripoli, che di masse ne aveva dietro pochine, non poteva che rispondere rinnovando l’appoggio al bastone della sua dittatura. Anche così Bengasi è il progresso, Tripoli la reazione. Ecco perché noi stiamo con Bengasi, anche se dal basso, perché senza progresso non c’è rivoluzione.



IL «CATASTROFICO SUCCESSO» DELL’IMPERIALISMO


È ancora difficile ricostruire tutti i dettagli che spieghino come il Cnt abbia ribaltato le sorti della guerra. Dai primi commenti già sappiamo, però, come la stampa borghese abbia salutato l’ingresso trionfale dei ribelli per le strade di Tripoli. In fondo tutto il resto passa in secondo piano. L’imperialismo sorride amaro. Il bicchiere non si sa se sia più mezzo vuoto che pieno. C’è chi ci parla di una guerra senza vincitori, cioè di una guerra che l’imperialismo pur non avendo perso, non ha nemmeno vinto come voleva, e chi nasconde la sua preoccupazione dietro la solita facciata retorica dell’ora della ricostruzione e della responsabilità. Cosa angustia i nostri poveri borghesi? Ce lo spiega Marta Dassù, colf degli Agnelli, in quattro righe spudorate: «Italia, Europa e Stati Uniti hanno scommesso su una ipotesi precisa: che il Consiglio di Transizione Nazionale creato a Bengasi riesca a garantire un processo di riconciliazione, tenendo sotto controllo le rivalità tribali e avviando la costruzione di istituzioni nazionali in un Paese che ne è privo da sempre. Questa scommessa, già difficile, è complicata dal ruolo decisivo assunto dai ribelli occidentali, dai berberi di Nafusa, nella offensiva militare su Tripoli. Quanta della Libia anti-Gheddafi sarà disposta a riconoscere la leadership di Bengasi? Gli europei non avranno più la stessa influenza una volta che i ribelli saranno al potere»9. Ecco qua, in quattro righe, tutta la rivolta al completo. Italia, Europa e Stati Uniti, in una parola la Nato, sognano un governo che tenga sotto controllo la rivoluzione, che ne sia cioè al di sopra, indipendente. Solo un governo al di sopra del controllo dei ribelli, può infatti infischiarsene della rivoluzione. Un simile governo sarebbe stato possibile se la sostituzione di Gheddafi, non avesse richiesto l’apporto decisivo delle masse occidentali e dei Berberi. Gheddafi non potrà essere sostituito semplicemente con un suo replicante. Le masse a cui Bengasi ha dovuto appoggiarsi per rovesciarlo, potrebbero chiedere il conto. Quanti rivoluzionari saranno disposti a riconoscere una leadership controrivoluzionaria? Quanti ribelli saranno disposti a riconoscere come legittimo governo Bengasi, e cioè a sottomettersi senza condizioni alla Nato? Se la rivoluzione andasse davvero al potere, i borghesi di tutti continenti non conterebbero più niente. Ecco, tradotto nel linguaggio proletario, il succo dell’articolo della Dassù. L’imperialismo ha paura che sotto il peso decisivo delle masse, i suoi uomini di Bengasi non possano più eseguire gli ordini, o possano eseguirli solo in parte. Già han dovuto sganciare un programma borghese per convincere berberi e compagnia a seguirli, e se il popolo prendendoci gusto chiedesse ancora soddisfazione? Bengasi non avrebbe scelta: o continuare nelle concessioni o fare la fine di Tripoli.




GHEDDAFI E CHÁVEZ: ANTIMPERIALISTI A CONFRONTO


Se fino a qualche mese fa Gheddafi otteneva per i suoi lucrosissimi accordi di pace imperiale, di poter girare per le strade di Roma a spese del proletariato italiano e libico, di colpo, per appassionati di dietrologia e di fantastoria, è diventato il martire dell’indipendenza e della lotta all’ultimo sangue e senza compromessi contro l’imperialismo invasore. Avendo però trovato appoggio, tra i tanti, anche dal leader della rivoluzione venezuelana, qualcuno ha pensato bene di metterli nello stesso sacco. Anzi, Chávez, ha dovuto pure beccarsi dello stalinista, dovendo accettare di stare addirittura un gradino sotto! Stavolta, questi campioni dell’analisi fallimentare, non vengono dalle file dell’estremismo o dell’incorreggibile stalinismo, ma proprio dalle nostre, da una delle innumerevoli sette troskoidi. E chi, nel panorama del troskume, poteva farsi carico di una simile idiozia se non quel partito in frantumi dell’Alternativa Comunista? Secondo costoro, l’appoggio dato a Gheddafi da Chávez è l’ulteriore prova del suo carattere stalinista, quindi antioperaio10. I compagni del Partito di Alternativa Comunista si erano già distinti per due cose davvero lodevoli: primo per descrivere al contrario il processo bolivariano: da ridistributore ad accentratore della ricchezza; secondo per aver già dato per avvenuto il trapasso in capitalismo del regime cubano. L’embargo degli Stati Uniti dev’essere evidentemente per la presenza incompatibile del comunismo negli States! Non contenti di questi due strafalcioni, di cui il primo probabilmente anche in malafede11, ora con questa hanno aggiunto il terzo.

Gli stalinisti sono famosi tra le altre cose per aver ammazzato Trotsky, sciolto la Terza Internazionale e aver eliminato praticamente tutte le elezioni libere. Chávez ha parlato più volte della necessità di una V Internazionale, ha letto La rivoluzione permanente citandola come quello che ci vuole per il Sudamerica, e ha messo al voto praticamente tutto e più volte senza un solo broglio se non dei suoi avversari, ma tutto questo non conta. Stalinista è, e stalinista resta, per la Lit dell’Alternativa Comunista!

Chávez è quello che potremmo definire un rivoluzionario borghese che si è trovato alla testa delle masse in un processo rivoluzionario. Siccome non è un puro marxista, per i compagni della Lit non bisogna appoggiarlo neanche criticamente. Bisogna star fuori dal movimento bolivariano sperando che nasca, non si sa come, al di fuori delle masse, il partito duro e puro della Rivoluzione. Ma se è così, i compagni di Alternativa dovrebbero spiegarci perché non star fuori anche dal processo rivoluzionario apertosi in Libia. In fin dei conti anche in Libia le masse hanno alla testa dei nazionalisti borghesi. Peggio, hanno dei nazionalisti compromessi con l’imperialismo. Chávez, almeno, dall’imperialismo è stato anche rovesciato. Poi per fortuna s’è rimesso in sella, ma è sempre rimasto nel mirino dell’imperialismo. E invece niente! Mentre riconoscono la rivoluzione libica, per i compagni di Alternativa Comunista in Venezuela non è in corso altro che la seconda legislatura di un ennesimo sfruttatore delle masse.

Non avendo capito niente né di Cuba né del Venezuela, il fatto che per ora ci abbiano azzeccato per chissà quale miracolo con la rivoluzione libica, significa solo che o si volgerà presto in socialista, o i compagni della Lit volteranno le spalle anche a lei.

Non è necessario ricorrere al suo improbabile stalinismo, per spiegare l’appoggio dato a Gheddafi da Chávez. Si spiega benissimo col carattere contraddittorio del processo bolivariano che sta portando avanti. In Venezuela Chávez è appoggiato in massa dal proletariato. Le indubbie riforme che ha varato sono il risultato di questo appoggio. Tuttavia, nonostante gli slogan sul Socialismo del XXI Secolo, la rivoluzione in Venezuela non è ancora stata portata a termine, e il suo ritardo comincia già a manifestare segni di involuzione. A tutt’oggi, quindi, il Venezuela è ancora un Paese capitalistico, e capitalistico è il suo modo di produzione. Questo significa che se in Venezuela Chávez poggia il suo bolivarismo parlamentare sugli operai, non appena mette il naso fuori dal suo Paese, non avendo altri operai a cui rendere conto, non può che rappresentare gli interessi del capitale venezuelano. Ed è per il capitale venezuelano che ha stretto accordi con il Rais.

Compito dei comunisti non è accusarlo di stalinismo, mettendolo immeritatamente tra il pattume della Storia, ma avvisarlo e con lui le masse che non portando a termine la rivoluzione socialista, sarà costretto prima o poi a passare nel campo della controrivoluzione anche in casa sua, esattamente come lo è già nella ex casa di Gheddafi. Non si può tenere il piede in due staffe, un po’ con le masse e un po’ coi padroni, prima o poi bisogna scegliere definitivamente. Non è il suo immaginario stalinismo a fargli appoggiare Gheddafi, ma il suo capitalismo reale!

Chávez rischia di far fallire il processo rivoluzionario avviatosi in Venezuela. Non essendo un marxista, è pieno di pregiudizi e di illusioni sulla possibilità di arrivare al socialismo in pratica per via parlamentare. Ovviamente così come non riuscirà mai per questa via, alla stessa maniera rischia di impantanare tutto il processo. Ciò però non significa che non sia, alla sua maniera, sinceramente dalla parte delle masse. Quando va in giro per il mondo a fare accordi commerciali, lui crede di farlo davvero per il progresso delle masse venezuelane. È completamente diverso dagli stalinisti che hanno dimostrato più e più volte di essere storicamente contro gli operai soprattutto nei momenti decisivi. Chávez è in buona fede, quando appoggia Gheddafi, gli stalinisti no.




DOVE VA LA LIBIA?


Dopo Gheddafi, la barbarie! È questo lo scenario immaginato per la nuova Libia dal compagno Achilli. Per quanto pessimista, il quadro che dipinge, è del tutto possibile e le probabilità sono anche elevate. Eppure non è né col metro del pessimismo né con quello dell’ottimismo che dobbiamo guardare il futuro della Libia, ma con quello della rivoluzione. L’abbattimento del regime apre o meno più possibilità per la rivoluzione socialista? La risposta è sì, senz’altro, perché è il proletariato a fare un passo avanti, di conseguenza l’imperialismo ne ha fatto uno indietro. Prima avevamo la doppia dittatura di un colonnello borghese in combutta con l’imperialismo, ora tolto di scena il colonnello, avremo al suo posto un potere che dovrà essere la mediazione tra la Nato e le masse ribelli. Le prospettive per le masse sono nettamente migliori rispetto a prima, specialmente se sapranno sfruttare le occasioni. Il compagno Achilli vede nero perché il suo pessimismo è ammantato di idealismo. Fin dal titolo delle sue considerazioni sembra quasi che prima della barbarie ci fosse il Paradiso Terrestre della jamāhīriyya. In realtà la jamāhīriyya, ammesso che sia mai iniziata, era in pratica già finita da quando Gheddafi aveva cominciato a riavvicinarsi all’imperialismo. Alla stessa maniera dire che la Libia diventerà una dépendance delle potenze imperialiste, è come dire che prima ne fosse indipendente. Tuttalpiù, se all’imperialismo riuscirà di sostituire Gheddafi con altri fantocci che ne facciano in tutto e per tutto le veci, la Libia dentro e fuori dipenderà dalla barbarie tanto quanto prima. Ma è proprio qui il punto: riuscirà l’imperialismo a sostituire Gheddafi con un suo clone? La caduta del Rais con l’intervento diretto delle masse, lascia pensare che non sarà così semplice. Le potenze imperialistiche chiederanno trattamenti di favore che difficilmente il Cnt potrà rifiutare. Ma non è importante che si rifiuti il Cnt, fondamentale è che si rifiutino le masse, costringendo il Cnt a fare altrettanto. Inoltre, sotto la spinta delle masse, il Cnt potrebbe autonomizzarsi parzialmente o addirittura totalmente dall’imperialismo. Il Cnt è in gran parte composto da ex uomini di Gheddafi compromessi con l’imperialismo. Ma così come dalla difesa son passati all’attacco di Gheddafi, alla stessa maniera potrebbero trasformarsi da agenti dell’imperialismo a vigili della rivoluzione. Qualche sintomo c’è già e lo abbiamo visto. Purtroppo, la maggior parte dei compagni vede solo le etichette delle persone, non sa seguirne il movimento incessante di trasformazione. Il marxismo è una teoria dinamica non statica. Le masse potrebbero mettere alla corde molto presto il Cnt, quando si accorgeranno che senza rivoluzione socialista nessun programma potrà essere attuato, tanto meno quello borghese. Le illusioni sui filantropi imperiali, assolutamente comprensibili per chi ha visto la morte in faccia, potrebbero sparire ancor prima se le masse non li vedranno andarsene al più presto.

Tutto è ancora in gioco, ma lo scenario previsto da Achilli, si basa su sull’erroneo giudizio di un arretramento del proletariato libico. Eppure, con la caduta di Gheddafi, per quanto poco, il proletariato è avanzato. La Libia non si è affatto persa la possibilità del tutto immaginaria di sperimentare una via autonoma al suo sviluppo. Non bisogna confondere le intenzioni ideali coi loro contenuti reali. La jamāhīriyya non era un regime delle masse, ma il regime proprio di Gheddafi per il suo sviluppo autonomo dalle masse. Inoltre, si è sempre basata sul capitalismo, cioè su un modo di produzione che in un modo o nell’altro deve ricollegarsi col mercato mondiale. Ecco perché pian piano Gheddafi è ritornato tra le braccia dell’imperialismo. Ora, con l’assemblea costituente, se ci sarà, è il proletariato libico che ha la possibilità col ripristino dei suoi diritti borghesi, di ricominciare uno sviluppo autonomo. La borghesia cercherà di integrarsi sempre di più nel mercato mondiale, il proletariato libico dovrà in un modo o nell’altro disintegrare la borghesia. In questo sarà aiutato dal vento di protesta che soffierà ancora un po’ dovunque, grazie a questo primo parziale successo libico. Noi dobbiamo cercare di essergli al fianco, per toglierli tutte le numerose illusioni che ancora si fa sui suoi falsi amici.

Appena abbattuto il regime, le azioni dell’Eni sono salite. Segno inequivocabile della vittoria borghese, dicono in tanti. No! Segno soltanto di una vittoria combinata e mediata con l’intervento imperialistico. Nonostante la nostra presenza, la borghesia scommette su sé stessa perché ha fiducia in sé stessa. In tutto l’articolo del compagno Achilli manca il coraggio, l’elemento più importante di un carattere rivoluzionario, come se gli operai potessero fare solo da spettatori. Eppure gli operai, nel bene e nel male, sono i protagonisti indiscussi della Storia. Achilli gli fa recitare la parte di sconfitti prima del tempo. Può essere che alla fine sarà così, ma a noi per ora tocca solo fare la nostra parte. Perciò noi, analogamente alla borghesia, scommettiamo sulle masse perché dobbiamo avere piena fiducia in loro. Giochiamoci il pessimismo di Achilli, male che vada, dovessimo perdere, ci resterà più soltanto il suo ottimismo. Nella perdita sarà il più grosso dei guadagni.



Stazione dei Celti

Mercoledì 24 Agosto 2011

Lorenzo Mortara

Fiom-Cgil



1 I marxisti e la rivoluzione venezuelana, tratto dal libro La rivoluzione venezuelana, una prospettiva marxista, di Alan Woods, A.C Editoriale.

2 La guerra di Libia, i quaderni speciali di Limes 1/2011, Aprile 2011.


3 Tra i tanti articoli che possono documentare la vicenda, scelgo questo di Dario Salvetti che mi sembra particolarmente ben fatto: Guerra e rivoluzione in Libia.


5 È il massimo storico del colonialismo italiano in Libia, Angelo Del Boca, a spiegarlo, insieme a tante altre cose, in questa intervista che potete scaricare qui.


6 Spiega in due parole la tratta dei migranti, il giornalista Gennaro Carotenuto nel suo articolo: Libia: il nemico del mio nemico non è mio amico.


7 In Egitto, un po’ più avanti degli altri, sembra però che nella seconda ondate di proteste, gli operai comincino a farsi avanti con richieste di salari e diritti politici. E siamo solo all’inizio...


8 Negli articoli molto precisi di Pier Francesco Zarcone, si mostra come la pressione abbia condotto il Cnt a tirar fuori il programma borghese. Si veda Mondo arabo in rivolta (VIII). Di passata, negli articoli della stessa serie, in particolare in Mondo arabo in rivolta (VI), si possono anche trovare delucidazioni che ridimensionano molto l’appoggio avuto dal Rais dal “suo” popolo.

9 Marta Dassù in Euro e Libia, le due guerre d’Europa, La Stampa di lunedì 22 Agosto 2011.


10 Si veda Libia e Siria: un duro dibattito divide la sinistra, di Eduardo Almeida Neto, capoccione di chissà quale quarto di quel che resta di un’improbabile Quarta Internazionale dei sospiri!


11 Si veda Il Venezuela e la crisi del chavismo, vero articolo “miracolato” che riesce a non trovare nulla di positivo nell’attuale processo in corso in Venezuela.

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