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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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sabato 30 aprile 2011

GERMANIA di Bertolt Brecht




Parlino altri della propria vergogna,
io parlo della mia.

O Germania, pallida madre!
come insozzata siedi
fra i popoli!

Fra i segnati d'infamia
tu spicchi.

Dai tuoi figli il più povero
è ucciso.

Quando la fame sua fu grande
gli altri tuoi figli
hanno levato la mano su lui.

E la voce ne è corsa.

Con le loro mani levate così,
levate contro il proprio fratello
arroganti ti sfilano innanzi
e ti ridono in faccia.

Tutti lo sanno.

Nella tua casa
si vocia forte la menzogna.

Ma la verità
deve tacere.

È così?

Perché ti pregano gli oppressori, tutt'intorno, ma
ti accusano gli oppressi?

Gli sfruttati
ti mostrano a dito, ma
gli sfruttatori lodano il sistema
che in casa tua è stato escogitato!

E invece tutti ti vedono
celare l'orlo della veste, insanguinato
dal sangue del migliore
dei tuoi figli.

Udendo i discorsi che escono dalla tua casa, si ride.

Ma chi ti vede va con la mano al coltello
come alla vista d'un bandito.

O Germania, pallida madre!
Come t'hanno ridotta i tuoi figli,
che tu in mezzo ai popoli sia
o derisione o spavento!

LODE AL COMUNISMO di Bertolt Brecht




È ragionevole, chiunque lo capisce. È facile.
Non sei uno sfruttatore, lo puoi intendere.
Va bene per te, informatene.
Gli idioti lo chiamano idiota e, i sudici, sudicio.
È contro il sudiciume e contro l’idiozia.
Gli sfruttatori lo chiamano delitto.

Ma noi sappiamo:
è la fine dei delitti.
Non è follia ma invece
fine della follia.
Non è il caos ma
l’ordine, invece.
È la semplicità,
che è difficile a farsi.


(1933)

Il problema del potere di Amadeo Bordiga

Il processo attraverso il quale si è svolta in Italia la conversione del movimento politico proletario verso le posizioni di principio e di tattica del comunismo, con i noti episodi che lo hanno caratterizzato fino alla recente scissione in minoranza dei comunisti da un partito che già aderiva alla Terza Internazionale e quei principi e metodi dichiarava di aver abbracciato nella sua grande maggioranza, questo processo colle sue discontinuità ha offerto il destro agli avversari del comunismo di insidiare la formazione di una vera coscienza e preparazione rivoluzionaria, prima che colla loro abile tattica politica, colla semplice critica teorica tendente a battere in breccia le affermazioni comuniste troppo leggermente formulate e difese in un primo tempo. E' compito, lo abbiamo detto altre volte, del Partito Comunista, che in modo organico continua oggi l'opera proficua delle correnti propriamente comuniste sorte nel vecchio partito, ristabilire anzitutto le chiare posizioni di principio che nettamente si differenziano dalle altre e tradizionali scuole socialiste, creando quella incompatibilità e quel contrasto di pensiero e di azione che ovunque hanno schierato i partiti comunisti contro gli avanzi dei vecchi partiti della Seconda Internazionale.
Su questo abisso, che oggi appare ancora prevalentemente sotto l'aspetto teorico, ma che ogni giorno di più diviene antitesi violenta ed implacabile nell'azione, si sarà invano tentato di gettare la insidiosa, passerella unitaria, fragile e ingannevole ponte su cui il proletariato, ove si inoltrasse, si avvierebbe a precipitare nel baratro della controrivoluzione.




Stato e classi sociali



Le conseguenze della guerra e gli avvenimenti di quei paesi ove prima esse hanno determinato convulsioni rivoluzionarie, hanno posto in tutta la sua chiarezza il problema della emancipazione della classe proletaria , rimettendo in piena evidenza la soluzione geniale datane dal marxismo e provocando una violenta polemica, preludio dovunque di una lotta senza quartiere, anche colle armi in pugno, tra i seguaci di quel metodo rivoluzionario diventato patrimonio della Internazionale Comunista, ed i vecchi socialisti rimasti sul terreno delle degenerazioni riformistiche dei concetti marxistici.
Il punto centrale del contrasto tra questi due metodi sia nel modo di considerare il problema del potere nei rapporti tra le classi, nello sviluppo che dall'attuale dominio della classe borghese deve condurre alla vittoria definitiva del proletariato. I socialdemocratici, che si sforzano di rivendicare il loro legame al ceppo marxista, mostrano di accettare alcune posizioni fondamentali, quando affermano di essere socialisti e spiegano che per aver diritto a questo aggettivo basta, secondo essi, accettare i criteri della collettivizzazione economica, e della necessità che per raggiungere questa il proletariato pervenga ad impossessarsi del potere politico, oggi detenuto dalla classe capitalistica. Di qui comincerebbe una secondaria divergenza di scuole e di tendenze. Invece è importantissimo mostrare che dalla posizione che si assume dinanzi a questioni che sembrano presentarsi logicamente dopo, dinanzi cioè al modo preciso e concreto di intendere il trapasso del potere politico dalla borghesia al proletariato, emergono così profondi contrasti che rilevano l'antitesi di principio tra coloro che il pensiero marxista seguono senza arrestarsi alle sue estreme conseguenze, e coloro che lo contorcono fino al punto di trarne tali conclusioni, che dimostrano in chi le sostiene una mentalità perfettamente antirivoluzionaria e borghese, preludio di una alleanza di fatto colla borghesia quando il comunismo dal campo della critica volga a quello della preparazione e della azione decisiva.




Stato borghese e stato proletario



E' pacifico che l'attuale Stato borghese è il protettore degli interessi e dei privilegi capitalistici, e che lo Stato proletario di domani dovrà essere invece l'artefice della demolizione dei privilegi economici del capitalismo ed il costruttore della economia collettiva, ossia delle basi di una società senza divisioni di classe e senza Stato. Ma ottenuta l'adesione formale a queste tesi teoriche del marxismo , a cui si riattaccava nel suo discorso di Livorno lo stesso Turati, occorre chiedersi e chiedere quali caratteri avrà lo Stato proletario che lo differenzino dallo Stato attuale, per poter risolvere il problema concreto degli aspetti della crisi che condurrà dal primo al secondo problema da cui dipendono le vitali conclusioni di ordine tattico che devono guidare l'azione del proletariato.
Su questo punto l'Internazionale Comunista, forte di decisive esperienze e conferme della storia che vive, pone delle tesi che, la giusta e geniale documentazione e disamina di Nicola Lenin nella poderosa sua critica dello Stato nel trapasso rivoluzionario, riconfermano luminosamente l'attitudine che presero in materia Carlo Marx e Federico Engels. Lo Stato proletario non potrà conservare nè l'attuale sistema di rappresentanze elettive dello Stato borghese, ne tanto meno il suo apparato, la sua organizzazione esecutiva e funzionale burocratica, giuridica, poliziesca e militare. Cioè - diciamolo subito - non vuol dire che lo Stato proletario non avrà le sue rappresentanze elettive, e il suo meccanismo esecutivo con funzionari , tribunali, polizia ed esercito: ciò vuol dire che questo nuovo apparato sarà totalmente diverso da quello attuale, anche perché non avrà bisogno della distinzione esistente nello Stato borghese tra l'apparato rappresentativo e quello esecutivo, ma soprattutto per fondamentali differenze di struttura, derivanti dalla opposizione dei compiti storici da svolgere, che le rivoluzioni proletarie, dal glorioso tentativo della Comune di Parigi, al trionfo della Repubblica russa dei Soviet, hanno messo in luce decisiva.




Gli istituti dello stato proletario



Quei cosiddetti socialisti che non intendono come le istituzioni rappresentative dello stato borghese: Parlamenti, consigli comunali e provinciali, non possono essere le rappresentanze di uno Stato proletario, non intendono nulla del contenuto centrale del marxismo: la critica della democrazia. Non intendono come il principio fondamentale democratico di dare eguale diritto elettorale politico a cittadini di tutte le classi sia nato colla borghesia e debba morire con essa, in quanto il suo funzionamento equivale alla garanzia che il potere resti nelle mani della classe capitalistica. Non vogliamo ripetere gli argomenti teorici di questa dimostrazione, ma solo ricordare che l'attuale convulsionario periodo nel quale sono germinati governi di ogni specie non solo non v'è esempio di un governo socialista su base democratica parlamentare che assolva la funzione di demolizione dei privilegi borghesi, ma quei governi di tal natura che esistono in alcuni paesi sono i più feroci complici della borghesia interna ed estera ed esercitano la reazione antirivoluzionaria peggiore.
Lo Stato proletario appunto in quanto tende non a conservare stabilmente i rapporti di oppressione e di sfruttamento di una classe su l'altra, ma fa pesare sulla borghesia la volontà organizzata del proletariato allo scopo di sopprimerla col più rapido processo possibile e dar luogo alla società senza classi, deve fin dal primo momento negare alla borghesia, le cui funzioni economiche non può istantaneamente sopprimere, ogni forma di diritto ad attività politica.
La storia ha dimostrato che l'unica forma possibile di potere proletario è quella che ha per organi di rappresentanza non i Parlamenti ed altri istituti democratici, ma i consigli eletti solo dai membri della classe proletaria. A una simile forma di potere, alla dittatura proletaria, non si arriva attraverso la democrazia, ma attraverso la demolizione di essa.
Ecco un punto fondamentale di dissenso tra i comunisti e i socialdemocratici, che pensano di andare al potere nei Parlamenti e coi Parlamenti. La diversità, l'antitesi, strettissimamente connessa col modo di considerare la macchina esecutiva dello Stato borghese. Infatti, qualunque trapasso parlamentare di potere, anche se fosse accompagnato da esteriori mutamenti di certe forme costituzionali, si risolverebbe nel cambiare i ministri, cioè in fondo coloro che meno influiscono sulla routine del funzionamento di tutto l'apparato statale. Mentre i comunisti si propongono di costituire una nuova macchina di potere le cui funzioni rispetto a quella borghese siano perfettamente capovolte, i socialdemocratici presentano al proletariato la possibilità di prendere la macchina attuale con procedimento parlamentare, ossia pacifico e legalitario, e servirsene per i fini rivoluzionari della espropriazione della borghesia.




La conquista proletaria del potere



Vi sono quindi due concezioni diametralmente opposte della presa del potere da parte del proletariato. Anche i D'Aragona, anche i Baldesi, dicono di essere per la presa del potere, e di aver abbandonata la vecchia tesi riformistica, di accettare parte del potere sotto forma di alcuni rappresentanti socialisti in un Ministero borghese. Ed i comunisti unitari avanzano ciò come una accettazione della tesi comunista, appunto dimostrando con questo che neppure essi sono sul terreno vero e proprio del comunismo. Il problema infatti non sta nella proposta di andare al potere, ma nel riconoscere o non riconoscere la fondamentale affermazione comunista che IL POTERE DELLO STATO RESTA DI FATTO NELLE MANI DELLA BORGHESIA FIN QUANDO SONO IN PIEDI GLI ISTITUTI PARLAMENTARI ED ESECUTIVI DELLO STATO ATTUALE. Poiché una maggioranza parlamentare od un Ministero socialista non potranno mai sopprimere il Parlamento con cui saranno ascesi alla direzione dello Stato: poiché anche se questo assurdo non fosse evidente è evidentissimo che essi non potranno nè imprimere alla macchina esecutiva un moto e una funzione diversa da quelle che sono nella sua natura, e tanto meno abbatterla, poiché è proprio essa che costituisce la forza organizzata dello Stato che dovrebbe essere a loro disposizione per l'attuazione dei loro propositi: questa andata al potere non si risolverebbe che in una illusione di cui vedremo altra volta le conseguenze per il proletariato. Tra un simile programma e quello comunista vi è tale contraddizione che ogni mezzo termine è inconcepibile. Certi che il proletariato nel suo cammino o costruirà gli istituti suoi propri di governo, o ricadrà sotto la dominazione borghese, certi che in questo cammino il proletariato si incontrerà nell'ostacolo dell'apparato di forze organizzate ed armate dello Stato borghese, che non ha per suo fine la difesa di una legalità convenzionale che possa dar ragione oggi alla conservazione borghese, domani alla rivoluzione proletaria, ma ha per suo fine la protezione anche con la forza e con le stragi del regime capitalistico: i comunisti dicono al proletariato che sulla via della sua emancipazione vi è la necessità della lotta armata contro il sistema statale borghese, che la presa del potere da parte della classe lavoratrice non è effettiva se non con la distruzione dei Parlamenti, della burocrazia, della polizia, dell'esercito borghese, e che quindi la lotta deve essere intrapresa ponendo bene in evidenza che sarà la forza armata il mezzo risolutivo indispensabile per trionfare. All'uso di essa il proletariato deve dunque essere preparato, idealmente distruggendo i pregiudizi borghesi così cari ai socialdemocratici, dell'avvento al trionfo proletario per vie legalitarie, materialmente organizzando l'azione violenta proletaria che spontaneamente propone nel periodo attuale, e non condannandola e deplorandola come fanno ad ogni passo i socialdemocratici e i semi-socialdemocratici.
La distinzione è dunque chiarissima ed ogni confusione tra i due metodi è impossibile malgrado tutti gli sforzi del centrismo italiano che affetta di essere la sinistra del Partito socialista ed è per la causa rivoluzionaria più pericoloso della destra stessa. Andare al potere, prendere il potere, conquistare il potere politico, ma come? Non col mezzo parlamentare, non con azioni pacifiche, capaci solo di condurre al cambiamento l'etichetta dell'attuale apparato statale di oppressione borghese: ma col fine di demolire il sistema di rappresentanza democratica e l'apparecchio di governo presente col mezzo unico a ciò adeguato, dell'azione violenta rivoluzionaria delle masse. Sono solo comunisti, sono solo con la Internazionale di Mosca, quelli che affermano un tale programma e dimostrano di lavorare per esso. Gli altri dal più sinistro al più destro, non sono che i complici e i servitori della classe dominante.

Fonte:http://www.marxists.org/italiano/bordiga/1922/2/14-probl.htm

venerdì 29 aprile 2011

Socialismo o capitalismo neo-malthusiano, di Riccardo Achilli


In questo articolo, viene prima commentato e poi presentato uno scritto di Paul Mattick del 1980, che profeticamente analizza lo sbocco finale del capitalismo dopo una recessione globale quale quella che stiamo vivendo. A giudizio dell'autore, le recessioni globali di lunga durata generano squilibri distributivi, che spingono verso l'impoverimento i lavoratori, e d'altro canto porta ad una crescita incontrollabile delle tensioni geopolitiche. Pertanto, l'unica alternativa, a giudizio di Mattick, è fra un progressivo degrado del capitalismo globale verso forme di autoritarismo, bellicismo e neo-malthusianesimo, in grado di minacciare l'esistenza stessa dell'umanità, ed una rivoluzione socialista. Analizziamo in dettaglio le sue argomentazioni, commentandole ed ampliandole.

I Una crescente pressione sul lavoro e sulle risorse ambientali

Secondo Mattick, in una fase di recessione strutturale il conseguente assottigliamento del tasso di profitto richiederà una compressione dei salari, ovvero un incremento del saggio di sfruttamento. I dati sono chiari, e confermano quanto afferma Mattick: nell'attuale recessione, fra 2007 e 2010, nell'area Ocse (quindi nell'area che raggruppa le economie capitaliste più sviluppate) il PIL in termini reali (quindi depurato dall'inflazione) è diminuito dello 0,22%, mentre il costo unitario del lavoro, sempre in termini reali, è diminuito più rapidamente (-0,58%). Poiché il PIL, in termini distributivi, deve remunerare i fattori della produzione, è chiaro che i profitti e la remunerazione del capitale finanziario, pur in un contesto recessivo, sono rimasti stabili, se non leggermente cresciuti. La recessione ha quindi generato un ampliamento del plusvalore estratto dai capitalisti ai danni dei lavoratori, al fine di mantenere stabili sui livelli pre-crisi i livelli dei profitti. Si può quindi dire che la recessione è stata pagata dal lavoro dipendente.
D'altro lato, la crescente anarchia della produzione capitalistica, aggravata proprio dagli effetti della recessione e dalla conseguente necessità di aumentare la pressione competitiva sulle risorse, comporta una accelerazione distruttiva dello sfruttamento dell'ambiente e della propensione guerrafondaia tipica del capitalismo, fino a minacciare, secondo Mattick, la sopravvivenza stessa del mondo. Esempi recenti di questa insopprimibile tedenza del capitalismo ad aggredire il lavoro e l'ambiente, che si accelera nelle fasi recessive, al fine di recuperare tassi di profitto soddisfacenti, si notano ovunque. Si spiega così la rinnovata corsa al nucleare in Paesi, come l'Italia, che ne sono ancora privi. A fronte della progressiva scarsità delle fonti fossili (che divengono così sempre più costose, provocando peraltro una redistribuzione del reddito mondiale sfavorevole alle economie capitaliste sviluppate) l'energia nucleare, per quanto pericolosissima per l'uomo e per l'ambiente, consente di mobilitare un ricco indotto nella ricerca e sviluppo, nell'industria mineraria, nel trattamento dell'uranio grezzo, nella costruzione e gestione di centrali e siti di stoccaggio di scorie, nel riprocessamento delle scorie, nello smantellamento delle centrali obsolete, nella bonifica dei siti, ecc. Un business che coinvolge l'industria in vari settori (estrattivo, elettronico, informatico, ecc. ecc.), l'edilizia, il settore dei trasporti, i servizi assicurativi, oltre che, ovviamente, le grandi imprese di utilities energetiche.
Mattick quindi prevede la possibilità che il capitalismo termini in una catastrofe in grado di minacciare la stessa esistenza dell'umanità. Identifica questo rischio in una possibile guerra nucleare globale (e se pensiamo che tutte le guerre “umanitarie”, da quella del Golfo del 1990 in poi, sono state combattute con munizioni a base di uranio impoverito,che hanno lasciato irreversibili problemi di radioattività nei luoghi dove sono state usate, non stiamo molto lontani dall'idea di “guerra nucleare”) anche se ovviamente potremmo estendere il suo ragionamento al declino ambientale legato alla crescita dell'intensità dello sfruttamento capitalistico. Prescindendo dalle questioni energetiche, secondo l'Unep, entro il 2020 il 40% della popolazione mondiale sarà in condizioni di carenza di acqua, principalmente a causa del riscaldamento globale (indotto dall'accumulazione capitalistica, oggi estesa anche ad economie, come Cina, India o Brasile, poco sensibili alle questioni energetiche ed affamate di sviluppo industriale, per migliorare le condizioni di vita delle loro enormi e rapidamente crescenti popolazioni).
Inoltre, secondo Lester Brown, a fronte della continua crescita della popolazione, un terzo delle terre coltivate del mondo sta perdendo terreno arabile più velocemente di quanto si formi nuovo suolo attraverso i processi naturali. Le riserve idriche a fini agricoli in tutto il mondo si stanno esaurendo a un ritmo allarmante a causa dell’eccessivo pompaggio, mentre la progressiva estensione delle coltivazioni destinate al business dei biocombustibili nelle zone cerealicole più fertili del mondo (negli USA la quota di cerali da destinare alla produzione di bioetanolo è quasi raddoppiata in soli due anni, coltivazioni analoghe si stanno diffondendo rapidamente anche in altri granai del mondo, come Argentina e Australia; nella sola UE 25 la produzione di bioetanolo crescerà del 69% fra 2006 e 2016; quella di biodiesel del 33%) priva l'umanità di superfici agricole da destinare a riserve alimentari fondamentali. Di conseguenza, la produzione globale di cereali è risultata inferiore alla domanda in sette degli ultimi otto anni, facendo scendere il livello mondiale delle scorte cerealicole al livello più basso degli ultimi 34 anni. Tra la fine del 2005 e la fine del 2007 il prezzo del mais è quasi raddoppiato e quello del frumento quasi triplicato. Le proiezioni ufficiali della FAO non sono incoraggianti: a partire dal 2009, e per gli anni a venire (le proiezioni arrivano fiano al 2016) la produzione mondiale di grano e di semi oleosi sarà sistematicamente inferiore ai consumi, soprattutto a causa del boom della domanda che si verificherà nelle economie emergenti.
Di fronte a questi fenomeni, il prezzo mondiale del grano sta allineandosi al valore del petrolio. Il prezzo mondiale del mais ha raggiunto il suo massimo storico, di oltre 190 dollari/tonnellata nel 2007, e secondo le proiezioni FAPRI, dovrebbe rimanere più o meno costante almeno per i prossimi 6 anni. Il prezzo del frumento è quasi triplicato fra 2005 e 2007, e rimarrà stabilmente elevato per i prossimi anni. Con questi andamenti di mercato, è chiaro che gran parte dell'umanità, quella più povera, rimarrà tagliata fuori dalla possibilità di acquistare materie prime alimentari fondamentali per la propria sussistenza.
Secondo Pimentel e Nielsen (2006), si è già superata la soglia demografica che consentirebbe all'umanità di vivere confortevolmente, e che ci sono chiare evidenze di una catastrofe imminente, fra cui una ripresa della crescita della mortalità infantile per patologie curabili su scala globale negli ultimi dieci anni.
E' utile ricordare anche che, secondo il rapporto sui limiti dello sviluppo del Club di Roma, le cui previsioni, fra1972 e 2002, si sono rivelate pressoché esatte (come documenta un accurato lavoro di verifica fra proiezioni e dati reali condotto nel 2008 da Turner), l'unica possibilità di evitare un disastro ecologico nella seconda metà del XXI secolo è una combinazione di stringente controllo sulle nascite, in cui tutte le coppie del mondo decidano di non avere più di due figli, di introduzione di tecnologie di risparmio delle risorse naturali, e di riduzione dei consumi pro capite mondiali al livello medio raggiunto nel 2000 (in altri termini, tutti dovrebbero avere lo stesso livello di consumi, che peraltro è molto più basso di quello già raggiunto dai Paesi più sviluppati). Tale ipotesi è ovviamente incompatibile con l'esistenza di un sistema capitliastico, che presuppone la persistenza nel tempo del processo di accumulazione, resa possibile soltanto da una crescita continua della produzione e dei consumi. Quindi per evitare la catastrofe ambientale ed umanitaria, gli esponenti del club di Roma implicitamente ritengono necessario il superamento del modo di produzione capitalistico (e quindi, come insegna il marxismo, il superamento dei relativi rapporti sociali, intimamente dipendenti da un determinato modo di produzione).

II . Il rischio del degrado autoritario e neo-malthusiano del capitalismo in crisi

A tal proposito, la sopravvivenza del capitalismo non potrà che passare tramite l'imposizione di sistemi neo-malthusiani, che andranno di pari passo con la riduzione degli involucri democratici puramente formali che ad oggi ne nascondono la natura sfruttatrice, e quindi con un crescente smascheramento dei reali mecanismi autoritari che lo caratterizzano. Ci dice a tal proposito Mattick che la svolta autoritaria del capitalismo (in realtà il disvelarsi completo di un sistema già di per sé autoritario, come ben spiegano Marx ed Engels già nel 1842, e come specifica ulteriormente Lenin in Stato e Rivoluzione) passerà per il tramite di una cancellazione del pluralismo di facciata delle forze politiche e sindacali, con una convergenza verso un pensiero unico, che servirà come paravento ideologicoper offrire collaborazione al capitalismo in difficoltà, garantendo il mantenimento della disciplina fra i lavoratori. Lo stesso Trotsky, in un suo scritto denominato “I sindacati nell’epoca della decadenza imperialista” ha previsto la progressiva integrazione delle organizzazioni sindacali nei poteri dello Stato. Dice infatti Trostsky che i sindacati “devono affrontare un avversario capitalista centralizzato, intimamente legato al potere statale. Da ciò deriva per i sindacati, nella misura in cui hanno posizioni riformiste, la necessità di adattarsi allo stato capitalista e di tentare di cooperare con lui. Agli occhi della burocrazia del movimento sindacale, il compito essenziale consiste nel “liberare” lo stato dall’impresa capitalista indebolendone la sua dipendenza dai trust per attrarlo verso di lei. Questa attitudine è in piena armonia con la posizione sociale dell’aristocrazia e della burocrazia operaia che combattono per ottenere alcune briciole nella divisione dei sovrapprofitti del capitalismo imperialista”.
Come non vedere in tali considerazioni la tendenza attuale del sindacalismo, che da un lato, nei capitalismi anglosassoni, si lega alle strategie del padronato tramite meccanismi di compartecipazione agli utili d'impresa, che svendono il conflitto sociale in cambio di qualche briciola (eventuale, che viene erogata solo se l'impresa fa profitti ed il cda decide di distribuirli), e d'altro lato, nel modello renano, partecipa direttamente all'elaborazione delle strategie delle imprese capitaliste, tramite i propri rappresentanti nei comitati di sorveglianza aziendali. In entrambi i casi, la lotta per i diritti dei lavoratori viene svenduta per piccoli ed aleatori benefici economici, e per favorire la visibilità ed il potere delle gerarchie sindacali (con ciò creando un modello oligarchico di gestione aziendale che taglia fuori i lavoratori dalla possibilità di esprimersi). Il declino del modello sindacale italiano è ancora più tragico, con le due confederazioni “moderate” che stipulano una riforma del modello contrattuale in cui, in cambio di una piccola revisione del paniere del tasso di inflazione programmato, si accetta una sostanziale riduzione del ruolo del contratto collettivo di lavoro, nonché accordi, come quelli di Pomigliano e Mirafiori, nei quali rinunciano al diritto di sciopero ed accettano una revisione delle modalità di lavoro estremamente penalizzante, in cambio di una garanzia che in realtà è una menzogna (ovvero il mantenimento dei livelli occupazionali, quando in realtà Marchionne era il primo interessato a mantere quegli stabilimenti, altrimenti non avrebbenemmeno intavolato una lunga e complessa trattativa ed avrebbe investito in Serbia). E con la CGIL che, dopo le resistenze di Epifani, con la nuova segreteria tende a segurie a ruota tale modello.
La svolta autoritaria del capitalismo in crisi si avverte anche sul piano politico. Fenomeni come quello di Viktor Orban in Ungheria, o di Berlusconi, sono chiaramente esemplificativi di una svolta della vecchia destra liberale in direzione di forme autoritarie, populiste, teocratiche e nazionaliste, non molto lontane dal peronismo e dal fascismo. Si tratta, per ora, di fenomeni che coinvolgono Paesi relativamente periferici, ma la svolta xenofoba in materia di politiche migratorie operata dalla Francia di Sarkozy, ed il rinnovato slancio imperialistico e neocoloniale che Gran Bretagna e Francia hanno dato alle loro politiche estere segnalano una estensione di tale modelo di destra autoritaria e nazionalistica anche in grandi e determinanti Paesi. Senza citare le preoccupanti tendenze reazionarie e teocratiche dei Tea Party, che stanno imprimendo una svolta inquietante alla base ideologica del partito repubblicano statunitense.
La svolta autoritaria, in presenza di una crescente scarsità di risorse ambientali ed alimentari, andrà di pari passo con un recupero delle più trite idee neo-malthusiane. Già nel 1974, l'allora Segretario di Stato Kissinger, in un memorandum segreto reso noto solo nel 1989 (denominato NSSM 200), delinea i primi passi verso un neo-malthusianesimo. In tale documento, che analizza i rischi della sovrappopolazione nei Paesi del Terzo Mondo per gli interessi economici globali degli USA, si afferma che l’assegnazione degli aiuti alimentari ai Paesi del Terzo Mondo dovrebbe tener conto dei passi che un Paese fa per il controllo della popolazione e per la produzione alimentare, e viene presentata l’idea di imporre “programmi obbligatori di controllo della crescita della popolazione” utilizzando il cibo come “strumento di potere nazionale”. Per cui secondo Mattick la rivoluzione proletaria non è soltanto indirizzata verso il comunismo, ma anche verso la stessa salvezza dell'umanità, la cui fine il capitalismo recessivo sta accelerando. Ma ecco il testo di Mattick:


In periodi di relativa stabilità economica la lotta di classe stessa accelera l’accumulazione di capitale, forzando la borghesia a adottare modi più efficienti per incrementare la produttività del lavoro. Salari e profitto potrebbero salire assieme senza disturbare l’espansione del capitale. Una depressione, tuttavia, porta il simultaneo (benché ineguale) aumento del profitto e dei salari ad una fine. La profittabilità del capitale deve essere restaurata prima che il processo di accumulazione possa essere ricominciato. La lotta tra lavoro e capitale ora coinvolge l’esistenza vera e propria del sistema, legata com’è alla continua espansione (...)
Di certo, i lavoratori potrebbero essere pronti ad accettare, entro certi limiti, una riduzione della quota del prodotto sociale, magari per evitare le miserie di protratti confronti con la borghesia e il suo Stato. (...) Ma il supporto politico delle grandi organizzazioni lavoratrici è egualmente necessario per prevenire le agitazioni sociali su larga scala. Siccome una lunga depressione minaccia il sistema capitalista, è essenziale per le organizzazioni riformiste aiutare la borghesia a superare le sue condizioni di crisi. La loro politica opportunista assume apertamente un carattere controrivoluzionario immediatamente quando il sistema si trova in pericolo di rivendicazioni della classe lavoratrice che non possono essere soddisfatte all’interno di un capitalismo dominato dalla crisi (...) Dovrebbe essere chiaro a questo punto, che le forme assunte dalla lotta di classe durante la crescita del capitalismo (ovvero la socialdemocrazia, ndr) non sono adeguate al suo periodo di declino, il quale permette solo il suo sovvertimento rivoluzionario. (...)
Ecco perché il Marxismo non può morire ma durerà fin quando il capitalismo esisterà. Siccome tutti i rapporti economici sono rapporti sociali, il continuare dei rapporti sociali in questi sistemi implica il continuare della lotta di classe, anche se, di primo acchito, solo nell’unilaterale forma di dominio autoritario. L’inevitabile e crescente integrazione dell’economia mondiale affligge tutte le nazioni senza dar conto alla loro particolare struttura socio-economica e tende ad internazionalizzare la lotta di classe e quindi a indebolire i tentativi per trovare soluzioni nazionali ai problemi sociali. (...) Il declino del capitalismo – reso visibile da un lato dalla continua concentrazione di capitale e dalla centralizzazione del potere politico, e dall’altro lato dalla crescente anarchia del sistema, malgrado, e a causa, di tutti i tentativi di realizzare una più efficiente organizzazione sociale – potrebbe essere una faccenda tirata per le lunghe. (...)
Inoltre, non è da escludere che la perseveranza del capitalismo porterà alla distruzione della società stessa. Poiché il capitalismo rimane suscettibile a crisi catastrofiche, le nazioni tenderanno, come hanno fatto in passato, a ricorrere alla guerra, per districarsi dalle difficoltà e a spese di altre potenze capitaliste. Questa tendenza include la possibilità di una guerra nucleare, e come stanno le cose oggi, la guerra sembra persino più probabile di una rivoluzione socialista internazionale. Benché le classi dominanti siano a completa conoscenza delle conseguenze, siccome hanno solo un limitatissimo controllo sulle loro economie, esse non hanno neanche un reale controllo sui loro interessi politici, e qualsiasi intenzione esse abbiano per evitare la mutua distruzione non influisce eccessivamente sulla probabilità del suo avvenire.
Il socialismo ora sembra non solo l’obbiettivo del movimento rivoluzionario dei lavoratori ma anche l’unica alternativa alla parziale o totale distruzione del mondo. Questo richiede, sicuramente, l’emergere di movimenti socialisti che riconoscano i rapporti di produzione capitalisti come l’origine della crescente miseria sociale e della minacciosa caduta in uno stato di barbarie. Comunque, dopo più di cent’anni di agitazioni sociali, questa sembra essere un’impresa disperata. Le contraddizioni del capitalismo, come un sistema d’interesse privato determinato da necessità sociali, sono riflesse non solo nella mente capitalista ma anche nella coscienza del proletariato (...) Le condizioni capitalistiche della produzione sociale forzano la classe lavoratrice ad accettare il suo sfruttamento come unico modo per assicurarsi il suo sostentamento. I bisogni immediati dei lavoratori possono essere soddisfatti solo sottomettendosi a queste condizioni e al loro riflesso nell’ideologia dominate. (...) Essi sono completamente consapevoli del loro status di classe, anche quando lo negano o lo ignorano, ma riconoscono anche i poteri enormi schierati contro di loro, i quali minacciano la loro distruzione nel caso in cui si permettessero di sfidare i rapporti della classe capitalista. È anche per questa ragione che essi scelgono una modalità d’azione riformista piuttosto che rivoluzionaria quando provano a strappare concessioni alla borghesia (...)
Il Marxismo rivoluzionario non è una teoria di lotta di classe come tale, ma una teoria di lotta di classe sotto specifiche condizioni di declino del capitalismo. Non può operare efficacemente in condizioni “normali” di produzione capitalistica ma deve attender la loro disfatta. Solo quando il cauto “realismo” dei lavoratori si tramuterà in irrealismo, e il riformismo in utopismo – cioè, quando la borghesia non sarà più capace di mantenersi eccetto che attraverso il continuo peggiorare delle condizioni di vita del proletariato – spontanee ribellioni evolveranno in azioni rivoluzionarie abbastanza potenti da sovvertire il regime capitalista.
È chiaro che il Marxismo originale non solo sottostimava la resilienza del capitalismo, ma anche facendo in tal mondo sovrastimava il potere dell’ideologia marxista di influenzare la coscienza di classe del proletariato (...). Ma una storia di fallimento è anche una di illusioni diffuse e di esperienze acquisite, se non per gli individui, almeno per la classe (...). A parte queste considerazioni, il proletariato sarà in ogni caso forzato dalle circostanze a trovare una via per assicurare la sua esistenza fuori dal capitalismo, quando questa non sarà più possibile all’interno. Benché la particolarità di tale situazione non può essere stabilita in anticipo, una cosa è chiara: ossia, che la liberazione della classe lavoratrice dalla dominazione capitalista può essere raggiunta solo attraverso la sola iniziativa dei lavoratori, e che il socialismo può essere realizzato solo attraverso l’abolizione della società classista tramite la fine dei rapporti di produzione capitalisti. La realizzazione di questo obbiettivo sarà il subitaneo verificarsi della teoria marxista e la fine del Marxismo.

TROTSKY, ROSSELLI E LA "RIVOLUZIONE MEDITERRANEA"


TROTSKY, ROSSELLI E LA "RIVOLUZIONE MEDITERRANEA"

di Carlo Felici




Varie volte il pensiero e l’esempio di Carlo Rosselli sono stati utilizzati da una certa falsa sinistra per giustificare una sorta di distacco dal marxismo, oppure un riformismo di tipo liberale, molto annacquato e sostanzialmente collateralista rispetto alla deriva neoliberista in atto, con un modello a senso unico di globalizzazione che tende a sfruttare popoli e materie prime per puri fini di profitto.Lo fece Veltroni in Italia, ma ancor prima Craxi, e devo dire che tali tentativi di recupero del pensiero di Rosselli sono sempre stati piuttosto grossolani e strumentali. Il tutto rimase confinato nell’ambito di slogan, senza invece portare ad un serio approfondimento degli scritti di Carlo Rosselli che, purtroppo, non sono nemmeno stati ristampati frequentemente.
In particolare, è stato completamente messo in ombra sia il taglio rivoluzionario del contributo di Rosselli sia il forte legame che egli cercò di intraprendere con i movimenti internazionalisti, compreso quello bolscevico di Trotsky.
Non molti sanno che Rosselli incontrò personalmente il rivoluzionario bolscevico ed ebbe con lui un fruttuoso scambio di idee, che però non si tradusse in una prospettiva di ampio raggio, di collaborazione attiva ma che avrebbe potuto preludere, almeno in Spagna, ad una convergenza di azioni comuni.
Il tutto è documentato in un articolo-intervista di Carlo Rosselli uscito su Giustizia e Libertà a Parigi il 25 maggio 1934. Lo scritto è addirittura preceduto da una citazione dagli scritti giovanili dello stesso Trotsky in cui si dice: “La gioia più grande è quella della lotta per la grande causa della giustizia e della libertà”.
Rosselli volle quell’incontro per proporre al rivoluzionario sovietico una collaborazione alla rivista di GL, e nell’articolo trapela una chiara ammirazione nei suoi confronti, scrive Rosselli: “Vi fu mai nella storia esule più vittorioso? Una dopo l’altra si chiudono davanti a lui le frontiere, proletarie, borghesi. Le classi di governo sono prese da un immenso sgomento a ragione di quella vittoria che Trotsky porta seco, la rivoluzione d’Ottobre, onde il suo nome sarà ricordato nei secoli accanto a quello di Lenin. Né sorprende che la frontiera più arcigna sia quella della sua rivoluzione. L’eroe di ottobre è troppo dinamico, non c’è posto per lui in Russia nei periodi di quiete. E’ un genio da ammirarsi in segreto e a distanza, vicino è troppo incomodo e pericoloso..”
La conversazione tra i due non fu particolarmente lunga ma restò comunque significativa. Trotsky non escluse la sua collaborazione anche se conservò delle riserve pregiudiziali verso il movimento socialista rivoluzionario di Rosselli che gli ricordava la sua prima esperienza, poi superata, di social rivoluzionario a Nicolaieff. Gli disse Trotsky: “Credo di conoscervi e di essere abbastanza informato sul movimento Giustizia e Libertà, vi ho già incontrato più volte nella mia vita, nella lotta rivoluzionaria in Russia..” ma poi replicò seccamente: “Oggi siete feroci contro Mussolini e il fascismo, è naturale. Ma domani? Domani, quando tornerete in Italia e gli abissi tra le classi si spalancheranno, da che parte starete?”
Ma Rosselli gli si rivolse altrettanto duramente da vero rivoluzionario: “Crediamo di avere capito la lezione di Ottobre, la vostra lezione. Non attenderemo Costituenti. Non forniremo Kerenski. Gli obiettivi supremi li conquisteremo subito. Giustizia e Libertà è un movimento giovane, appena agli inizi, non potete imprigionarlo nelle formule ed esperienze del passato”
Trotsky allora quasi si persuase e replicò: “Finché il fascismo era un fatto che si svolgeva ai margini della vita europea, si poteva supporre che il popolo italiano si sarebbe sottratto alla legge comune. Ma dopo la Germania, una rivoluzione italiana non sfuggirà ai binari obbligati” e quindi, messo di fronte ai concreti fatti dell’azione antifascista, non si sottrasse alla possibilità, un giorno, di poter collaborare, però, da vecchio bolscevico non si fece molte illusione e concluse: “Ma domani, in pieno processo rivoluzionario, vi combatterò”. Egli infatti prevedeva una rottura netta tra borghesia e proletariato in Italia, insistendo sull’aut aut tra l’essere bolscevichi e leninisti o alleati della borghesia. Naturalmente Rosselli non ebbe difficoltà a replicare che in Italia il proletariato doveva necessariamente tener conto dei ceti medi e piccolo borghesi e che Trotsky stesso aveva sostenuto la tesi che dove la rivoluzione non segue il disastro militare è necessaria e inevitabile una lunga fase di transizione.
Il colloquio infine si chiuse per la necessità di Trotsky di adempiere ad altri impegni e l’impressione di Rosselli fu che il rivoluzionario russo fosse “prigioniero del suo passato, e della storia polemica con Stalin, col bolscevismo che lo ha saccheggiato rinnegandolo”
Pur tuttavia Rosselli torna ad ammirarlo chiudendo il suo articolo con queste parole: “Trotsky è la rivoluzione vittoriosa..e la limitazione [della sua opera] è piuttosto dovuta alla straordinaria forza di astrazione di un pensiero che si svolge nel suo intimo in modo così coerente e completo da non aver bisogno dei contributi altrui”..L’unico contributo di cui può avere bisogno uno come lui è quello di un popolo, conclude Rosselli, anche se dubita che questo popolo possa essere quello occidentale.
Perché ricordare oggi tutto questo?
Innanzitutto per sfatare una sorta di uso strumentale del pensiero di Rosselli in funzione pseudo liberale e antirivoluzionaria o contraria ad una vera e propria lotta di classe, di cui Rosselli, con Gobetti, lo ricorda esplicitamente in quel dialogo, voleva ardentemente essere partecipe. E poi anche per capire che oggi, la migliore attuazione del pensiero social rivoluzionario di Rosselli che, non dimentichiamocelo, intende il liberalismo come il cammino della lotta per la libertà dall’oppressione del capitalismo che impone la miseria ai lavoratori, è la creazione di un partito che sia coerente con quel che egli stesso scrisse pochi mesi prima di morire, in circostanze non ancora del tutto chiarite e che forse videro, proprio in funzione antisocialista e antitroskista, convergere gli sforzi congiunti dei servizi segreti fascisti e stalinisti.

Cosa scrisse Rosselli è noto e io lo ho più volte riportato nei miei precedenti interventi: "Probabilmente il Partito Comunista, così come è oggi è costituito e funziona, non può modificare i suoi caratteri essenziali. Ma un nuovo partito unito del proletariato nel quale i comunisti portassero le loro grandi virtù di organizzazione, di disciplina, di entusiasmo, di lavoro, e trovassero quella libertà intellettuale, quel fermento critico che loro difetta, consentirebbe non solo di superare su un piano di rinnovamento e di vita la scissione proletaria, ma di condurre con risolutezza e con frutto la nuova politica dai comunisti auspicata."
Rosselli lo scrisse quasi come in un testamento, il 9 aprile 1937..solo due mesi prima di morire.
Questo oggi potrebbe essere tranquillamente il programma fondativo di un vero grande partito della sinistra solidamente ancorato all'Internazionale Socialista, questo inoltre è anche, credo, l’intento di ciò che i socialisti sparsi in tutte le contrade della sinistra possono e devono mettere in atto. I segnali incoraggianti di Vendola e Bertinotti vanno direttamente in questa direzione, e quindi non si può più considerare di poter arruolare Rosselli nelle file dei postcraxiani, se non facendo un grave torto alla sua memoria, e tanto meno in quelle dei cosiddetti socialiberali che intendono fare comunella con il costituendo grande centro.
Carlo Rosselli resta un grande rivoluzionario sostenitore, ieri come oggi, di una lotta di classe che attualmente è da intendersi in forma globale, esattamente come Trotsky intendeva dovesse svolgersi la sua “rivoluzione permanente”. Cambiano senza dubbio, nel contingente, gli strumenti per concretizzarla, perché non abbiamo un’armata rossa in cui arruolarci, ma un mondo in cui scegliere da che parte stare. O dalla parte degli speculatori che fanno crescere i prezzi delle derrate alimentati e lucrano oltre che sui prezzi del cibo e delle materie prime anche sui fattori eversivi che spingono i popoli a ribellarsi, oppure dalla parte di chi è in rivolta e coordina i suoi sforzi su scala globale, avendo ben chiaro in mente che una lotta comune, non può avere obiettivi meramente nazionalistici, ma mete convergenti condivise su scala planetaria.
Quindi, come anche Ferrero fa notare, non cediamo alle facili strumentalizzazione e alla paura delle invasioni dei popoli che si stanno rapidamente avvicinando alle condizioni di povertà in cui già, per altro, vivono masse sempre più vaste del mondo cosiddetto sviluppato, né alle lusinghe dell’armiamoci e partite, per missioni che non portano la pace, ma quel caos in cui si interviene (e che poi si consolida) solo per controllare le fonti dell'accumulazione del capitale. Quelle energetiche, applicando una feroce politica di “prescindenza”, anche a suon di bombe, verso popoli che sono considerati solo scenografia ingombrante nel teatro affaristico della globalizzazione a fini di profitto.
Ricordiamo la lezione del rivoluzionario Rosselli che intendeva la lotta per la giustizia e per la libertà come un dovere e una missione, anche e soprattutto rinnovando profondamente i valori e la prassi della sinistra italiana, superando di slancio quegli steccati ideologici e strumentali che spesso mascherano solo meschine forme di potere e di vassallaggio..
“Il compito di una società socialista non è di distruggere la concorrenza degli uomini e delle organizzazioni ma di renderla veramente effettiva e libera” affermava Carlo Rosselli.
Questo credo sia il senso mirabile dell’obiettivo del socialismo del XXI secolo, che lotta non solo contro l’oppressione e la miseria causata dalle guerre, dalle disuguaglianze e dalla marginalizzazione dei popoli che sono ritenuti oggetto di feroci politiche neocoloniali, ma anche per quella libera iniziativa necessaria contro gli oligopoli che guidano questa nuova forma di totalitarismo attraverso enormi speculazioni finanziarie e mediante l’annientamento delle piccole e medie aziende, annullando così sia la effettiva concorrenza che la creatività, ed imponendo la desertificazione della stessa libera iniziativa in nome di una ferrea dittatura che premia i ricchi e relega i poveri in interi stati ridotti a ghetti e discariche di massa.
Noi siamo oggi, in Italia, in bilico verso questo destino, dato che le discariche sono già qui e avanzano nelle nostre città come segno di degrado e oggetto di ricatto politico, e i nostri governi sono ridotti a “netturbini” delle direttive altrui. Non ci salveremo certo con una resa incondizionata a coloro che le riempiono oltre che di spazzatura, di corruzione, precarietà e residui di servizi fatiscenti, noi ci salveremo solo partecipando ad una lotta rivoluzionaria, al pari di chi già in quel mondo Mediterraneo, da sempre “nostrum”, si sta muovendo per cambiare seriamente il suo destino.


 PS L'articolo-intervista di Rosselli si può trovare integralmente nel libro edito da Massari Editore della collana Contro Corrente, intitolato: Lev Trotsky "Scritti sull'Italia" introduzione e cura di Antonella Marazzi.

25 aprile 2011

dal sito          http://www.legadeisocialisti.it/lds/

Kronštadt: risposta al post di Lorenzo Mortara


La questione fondamentale sotto la cui luce analizzare i fatti di Kronstadt è correttamente posta dall'articolo, sempre presente su questo blog, di Lorenzo Mortara. La visuale è infatti quella della persistenza della guerra civile, quando i fatti in questione si svolsero. Infatti, fino al 1923 il Generale bianco Pepelyalyev proseguì la sua resistenza nel distretto di Ayano-Maysky, mentre fino al 1922 rimase in piedi il governo provvisorio di Priamur, con capitale Vladivostock, in mano ai bianchi. In parallelo con la persistenza di tali sacche di resistenza bianca, va ricordato che Wrangel, dopo la sconfitta di Crimea del novembre 1920, era fuggito in Turchia con svariate migliaia di combattenti bianchi, esperti veterani della guerra civile, e da lì a poco avrebbe fondato l'Unione Militare di tutte le Russie, un'organizzazione finanziata da Francia e Gran Bretagna, che aveva l'obiettivo esplicito di infiltrarsi in Unione Sovietica per riavviare la guerra civile. Se, approfittando della confusione susseguente alla rivolta, un corpo di spedizione bianco fosse riuscito a creare una testa di ponte a Kronstadt, collegandosi con le sacche di resistenza bianche ancora in piedi, allora la guerra civile sarebbe durata ancora molto a lungo, con ulteriori grandi sofferenze per la popolazione civile in tutto il Paese. Non si può quindi che concordare con Lorenzo Mortara quando evidenzia la necessità vitale, per la rivoluzione bolscevica ancora alle prese con un nemico interno da sconfiggere, di cancellare con la forza la rivolta di Kronstadt, quando i rivoltosi rifiutarono di arrendersi. Questo episodio, tragico e sconvolgente per la coscienza di qualunque comunista, fa prutroppo parte della crudeltà di una guerra civile.
Va anche detto che, fin dall'inizio, la caratteristiche della rivolta di Kronstadt non furono chiare. Se è vero che aveva tratti libertari molto chiari, è anche vero che non si trattava affatto di una rivoluzione anarchica in senso pieno. Se gli anarchici giocarono un ruolo decisivo nel promuovere la rivolta e nel disegnare i tratti del programma dei rivoltosi, va detto che, nel Soviet di Kronstadt, gli anarchici erano minoritari, poiché la maggioranza era nelle mani dei socialisti rivoluzionari massimalisti e dei menscevichi internazionalisti. Correnti politiche che non di rado avevano strizzato l'occhio a forme di democrazia borghese, sia pur accompagnate da importanti obiettivi redistributivi. La presenza di tali correnti politiche nel Soviet di Kronstadt non poteva non preoccupare chi, come i bolscevichi, perseguiva obiettivi di rivoluzione socialista. Il carattere non pienamente anarchico della rivolta si legge nei 15 punti del proclama dei rivoltosi, secondo i quali si intende realizzare una forma di governo che, sia pur improntata al trasferimento del potere verso il basso, alla democrazia diretta ed al federalismo, non contiene alcun riferimento esplicito a forme di socializzazione della produzione e della vita civile, il che dovrebbe essere un tratto caratteristico di una costruzione pienamente anarchica.
Peraltro, riprendendo le idee di Proudhon compendiate nel detto "la proprietà è libertà" (dopo che Proudhon stesso, anni prima, aveva affermato esattamente il contrario; vale la pena di dire che il pensiero di Proudhon è talmente elastico che persino uno come Bettino Craxi ne fu seguace convinto) il proclama di Kronstadt prevedeva esplicitamente la concessione della proprietà dei mezzi di produzione per contadini ed artigiani, anche se da esercitare senza il supporto di lavoro salariato. E' facilmente intuibile però che, qualora la rivolta di Kronstadt si fosse allargata ad altre aree dell'Unione Sovietica, le esigenze di un sistema economico non più limitato ad una piccola cittadella, ma ad un enorme Paese con milioni di abitanti, avrebbe richiesto necessariamente alcune forme di lavoro salariato (per esempio nel sistema dei trasporti che avrebbe dovuto collegare le varie Comuni confederate). La persistenza di proprietà privata e di lavoro salariato avrebbe così finito per riprodurre una certa forma di capitalismo, sia pur diverso da quello che conosciamo. In altri termini, se si vuole uscire dal capitalismo ed instaurare forme di governo socialiste, non è possibile prescindere dalla dittatura del proletariato. Questo ci insegna Kronstadt.
Infine, il motivo più grande di preoccupazione che i bolscevichi potevano a giusto titolo avanzare era che la rivolta di Kronstadt era alimentata, da un lato, da un sincero impeto ideologico, ma d'altra parte era alimentata da motivazioni molto più pratiche, ovvero la fame e la miseria inevitabilmente connesse con una rivoluzione ed una lunga guerra civile (che aveva seguito un'altrettanto lunga guerra mondiale). Numerosi marinai di Kronstadt raccontarono di essersi uniti alla rivolta perché scandalizzati dalle condizioni di miseria assoluta in cui versavano le loro famiglie e le loro città, quando tornavano a casa per periodi di licenza. A tal proposito lo stesso Trotsky ammise, in forma autocritica, che se la NEP fosse stata introdotta qualche mese prima, e le requisizioni alimentari fossero terminate prima, forse la rivolta di Kronstadt non vi sarebbe stata. Ad ogni modo, è chiaro che una rivolta guidata in larga misura, per una buona parte di chi vi aderì, da necessità concrete, prima ancora che da obiettivi politici ed ideologici, richia di degenerare rapidamente, perdendo di vista gli obiettivi politici e gli ideali, in nome del famoso detto "Franza o Spagna, basta che se magna". E questa natura emergenziale, ideologicamente spuria della rivolta di Kronstadt, dove ad obiettivi politici si mescolava la semplice richiesta di pane e benessere materiale, non poteva che preoccupare chi invece era impegnato nella costruzione di un nuovo sistema economico e sociale.
Tutto ciò ovviamente non giustifica la brutale e sanguinaria repressione che si fece dopo la battaglia finale, uccidendo semplici civili (anche quelli che fin da subito si arresero all'Armata Rossa) e perseguitando tutti coloro che avevano preso parte alla rivolta. Personalmente, credo che il punto di svolta, che cancellò la natura socialista della rivoluzione d'ottobre, e che aprì la porta alla centralizzazione burocratica dello Stato sovietico, e quindi allo stalinismo, non fu tanto nell'aver sffocato con la forza la rivolta di Kronstadt, quanto piuttosto nella feroce ed inutile repressione successiva.
Riccardo Achilli

mercoledì 27 aprile 2011

ANCORA KRONŠTADT: ANCORA ANARCHICI CONTRO MARXISTI di Lorenzo Mortara


di Lorenzo Mortara


Quasi a farlo apposta, questo blog – Bentornata Bandiera Rossa! – ha iniziato le pubblicazioni con le solite scazzottate tra anarchici e marxisti. L’argomento in discussione non poteva che essere un simbolo della lite storica tra le due correnti: Kronštadt e la repressione bolscevica.

So che può sembrare strano, perché di norma quelli intolleranti siamo noi, ma a dispetto di qualche anarchico che non può sopportare idee diverse dalla sua, è giusto premettere subito che tra i bolscevichi, Machno, Kronštadt eccetera, io sto e starò sempre dalla parte dei bolscevichi, non perché non possa accettare che sia stata una pagina vergognosa, immorale o quanto di più brutto se ne possa dire, ma perché so che per ora nessuna rivoluzione è avvenuta senza anche le sue pagine buie. So anche che questo è il senso della difesa di Trotsky per quanto concerne il massacro di Kronštadt, per quanto sia vero che non abbia mai accennato a un minimo di ripensamento o di autocritica.

Ho scritto queste righe anche per mostrare come preferirei impostare discussioni di questo genere. Indipendentemente da come si giudicherà questo scritto, credo che nessuno alla fine potrà negare che sia un po’ meglio di centinaia di post di semplicistici batti e ribatti su facebook.

Prima di approfondire la discussione con altre considerazioni, sarà comunque opportuno riassumere per sommi capi la vicenda.

Il testo è abbastanza lungo, chi volesse, leggerlo con più calma e magari stamparselo, può scaricarlo qui in formato doc.


RIEPILOGO DI UN MASSACRO

All’inizio del Marzo del 1921, volgendo al termine la guerra civile, il popolo russo, stremato, cominciava a far sentire la sua insofferenza verso il comunismo di guerra, le requisizioni forzate, i posti di blocco e la militarizzazione di ogni aspetto della vita civile. Come ha scritto Trotsky era un «periodo eroico e tragico! Tutti erano affamati e irritabili»1, bolscevichi compresi e soprattutto, pendendo su di loro la massima responsabilità. È in questo contesto che va in scena l’ammutinamento dei marinari di Kronštadt. I marinai, è vero, non erano più quelli del 1917, partiti in massa per crepare al fronte in difesa della rivoluzione, ma non vuol dire che quelli rimasti nella cittadella fossero proprio dei damerini come pompava un po’ forzatamente la stampa bolscevica. In realtà erano né più né meno gli eredi di quelli partiti per il fronte, forse un po’ meno esperti e un po’ più visionari ma con lo stesso temperamento impulsivo e insofferente verso ogni autorità. Governo Provvisorio a parte, erano i marinai di Kronštadt a essersi macchiati delle pagine più scabrose che avevano portato dal Febbraio all’Ottobre. Erano loro ad aver trasformato la cittadella in un’orgia di sangue nella quale giustiziare sommariamente i superiori. Erano loro, per la loro ferocia ad essere stati incaricati di disperdere quel trabiccolo osceno dell’Assemblea Costituente. Ed erano sempre loro le teste calde che avevano sconvolto Lenin e altre personalità più colte e sensibili, quando si erano infilate in un ospedale psichiatrico per trucidare nei loro letti due ex-ministri borghesi ricoverati. Ma per quanto colti e sensibili fossero Lenin e i suoi, erano anche dei rivoluzionari, e dopo aver pensato di prendere delle misure contro questi eccessi, finirono con l’accettarli tacitamente, consci che senza quell’appoggio non avrebbero potuto rivoluzionare la Russia. E come i bolscevichi, lo stesso fecero anarchici e altri ultra-radicali. E fecero più che bene, perché una rivoluzione o la si prende così com’è o non la si fa.

Kronštadt, «onore e gloria della Rivoluzione», appoggiò i bolscevichi come la gran massa del popolo russo, ma a mano a mano che la situazione si inaspriva e il campo di battaglia tra rossi e bianchi si trasformava in un macello, cominciarono ad opporsi ai comunisti. E come loro, qua e là, fecero anche i contadini e in misura minore gli operai. Dopo sette anni di carestie, guerre civili e imperialiste, il popolo era allo stremo, non ne poteva più e come una pentola a pressione sbuffava qua e là contro il potere costituito tutto sommato da lui stesso. Tutto questo non dovrebbe stupire, essendo fin troppo normale per la situazione che s’era creata.

I bolscevichi furono spietati coi marinari di Kronštadt, ma anche Kronštadt fu impietosa nel giudizio sui bolscevichi. Se si leggono bene le loro Izvestija, quello che colpisce non sono le loro modestissime richieste, lamentele e proteste, ma la pressoché assoluta mancanza di comprensione per le attenuanti che avrebbero dovuto riconoscere ai bolscevichi. Tutto il male della Russia viene scaricato sul Partito Bolscevico, praticamente senza alcun accenno alle armate bianche e agli eserciti dell’Intesa che l’avevano invasa per schiacciare la Rivoluzione. Arroccata nella sua fortezza, Kronštadt la rossa, si era anche chiusa un po’ fuori dalla realtà.

Presi come parafulmine per la situazione drammatica, senza alcun attenuante per le circostanze, non dovrebbe dunque stupire che i bolscevichi abbiano subito voluto vedere, dietro gli ammutinati di Kronštadt, lo zampino delle guardie bianche. E che Kronštadt fosse nel mirino dei bianchi è testimoniato, oltre che da tanti altri fatti, da un segretissimo Memorandum sulla organizzazione di una rivolta a Kronštadt, frutto dell’attività del Centro Nazionale dell’emigrazione russa con sede a Parigi. È in questo Memorandum che la borghesia scalzata dal potere riponeva, per la primavera del 1921, le speranza di un’imminente rivolta dei marinai da sostenere con tutti i mezzi affinché si estendesse a Pietrogrado e a tutta la Russia, ponendo fine al potere bolscevico. Sembra che i marinai di Kronštadt non fossero in collegamento con l’emigrazione russa e tanto meno con i bianchi, almeno prima della rivolta, ma è certo che il maggior esponente del Comitato Rivoluzionario Provvisorio, il sottufficiale Petricenko, ucraino, oltre a fuggire in Finalndia all’ultimo minuto, lasciando soli gli insorti come avevano previsto e ammonito i bolscevichi, in seguito pensò che un rivoluzionario vero come lui era perfetto per arruolarsi come volontario tra le armate bianche del Generale Wrangel. Non è dunque strano che un simile individuo abbia finito la carriera come agente della GPU di Stalin.

Non basta comunque una mela marcia per segare alla radice la rivolta, bollandola come controrivoluzione bianca. Restano i fatti, Kronštadt chiedeva liberi soviet, libertà di parola e di stampa per i rivoluzionari di tutti i colori, libertà per i contadini sulle loro terre come per gli artigiani senza salariati, rilascio dei prigionieri politici socialisti, riduzione drastica del potere della Čeka, fine degli sbarramenti, delle razioni per gli operai e fine del “terribile” taylorismo. Senza concedere nulla ai liberi Soviet senza partiti, i bolscevichi tolsero gli sbarramenti a Pietrogrado e aumentarono le razioni per gli operai, ma Kronštadt le prese per elemosina e dichiarò guerra ai bolscevichi. E la perse, dopo aver venduto cara la pelle.

Per domare Kronštadt, i bolscevichi furono costretti a muoversi sul ghiaccio del golfo di Finlandia, tra bombe e spari che lo aprivano inghiottendosene parecchi. Per conquistarla, tra morti e feriti, caddero circa 10˙000 rossi, compresi una quindicina di delegati che dovettero lasciare il X Congresso per unirsi a Tuchačevskij e compagni nella battaglia. Dalla parte degli insorti creparono 600 persone, oltre un migliaio furono i feriti, e circa 2500 i prigionieri massacrati poi in massa, tre mesi dopo, a tragedia finita, nelle prigioni di Pietrogrado.

Fu una carneficina la tragedia di Kronštadt, ma fu soprattutto una strage di comunisti e questo va ricordato, perché Victor Serge ha ragione quando accusa i bolscevichi dell’inutile crudeltà con cui ancora tre mesi dopo fucilavano i prigionieri, ma dimenticando la grave sproporzione di perdite, pendente ripeto dalla parte dei rossi (cosa istintivamente impensabile, perché quando si sentono gli strilli dei critici per il «massacro di Kronštadt», si è portati a pensare il contrario) rischia di distorcere la comprensione dell’intera vicenda, perché nell’abominio delle fucilazioni ritardate, ha giocato evidentemente la sete di vendetta che non lo giustifica certo, ma almeno non lo rende del tutto incomprensibile come invece appare nei suoi scritti.

Kronštadt la rossa, onore e gloria della Seconda Rivoluzione, era la roccaforte dello spontaneismo, nella quale custodiva la Terza. La Seconda Rivoluzione, quella d’Ottobre, era il più potente bastione dell’organizzazione mai prodotto dalla Storia fino a quel momento. Seconda e Terza Rivoluzione si scontrarono all’ultimo sangue in un duello mortale. L’istinto rivoluzionario contro lo studio sistematico della Rivoluzione. La prassi immediata contro la perfezione continua della teoria. Vinse la seconda, la Terza restò un sogno represso, confermando che la rivoluzione può essere fatta solo e soltanto dai radicali veri e propri, perché i rivoluzionari istintivi, sono appunto gli eroi di una rivoluzione superficiale, una rivoluzione che non va mai in porto anche se diretta dai marinari più ribelli del mondo2.


UN PROBLEMA A MONTE: IL MARXISMO

La discussione tra anarchici e marxisti su Kronštadt, in genere, non va avanti perché il marxismo è incomprensibile ai non marxisti. È ridicolo e del tutto impossibile studiare Marx ed Engels sui manuali. Non è però nemmeno del tutto vero che l’unico modo per comprendere Marx ed Engels sia studiarsi direttamente le loro opere, come sostengono Alan Woods e Ted Grant, gli ultimi due grandi teorici del marxismo, nel loro libro La rivolta della Ragione. No, questo pensiero va integrato. Per comprendere Marx ed Engels bisogna anzitutto collocarsi sul terreno giusto di classe. Senza schierarsi senza se e senza ma dalla parte della rivoluzione proletaria, è inutile aprire i libri di Marx ed Engels, perché resteranno chiusi con sette sigilli. Quando le bestiole liberali alla Bobbio, alla Schumpeter, alla Sartori, spiegano con dovizia di citazioni le loro critiche a Marx, non stanno in effetti mostrandoci i nostri errori sulla base dei sacri testi, ma solo confermandoci una volta di più la loro infantile ingenuità che pretende di aver compreso qualcosa, leggendo tra le righe di Marx ed Engels non il loro autentico significato di classe, ma un’interpretazione più meno distante, a seconda del grado di riformismo squisitamente borghese che rappresentano.

Una volta collocatisi sul terreno della rivoluzione, anche se non è scontato, si può avere buona speranza di comprensione di Marx ed Engels. Tuttavia, basta spostarsi di poco sulla linea di classe avversa, perché i libri di dottrina rivoluzionaria si richiudano nuovamente.

Il marxismo comprende appieno il liberalismo, perché non essendo altro che una sua critica classista, è costretto a prenderlo in considerazione. Nato molto prima del marxismo, invece, il liberalismo anche se incapace di stare teoricamente in piedi, ne è indipendente. Di qui la goffaggine e la sua ridicola, intrinseca mediocrità. Il marxismo visto dai liberali è il marxismo che i liberali si mettono in bocca da soli. Attaccandolo, non si rendono mai conto di sparare direttamente a sé stessi. Proprio per questo solo prima di Marx, era ancora possibile un genio liberale, l’ignoranza generale lo consentiva. Dopo Marx, la sua sapienza particolare schiaccia nella sua insignificanza la mancanza di genialità del liberalismo. L’anarchismo, non essendo altro che il pensiero borghese capovolto, quindi ancora più in basso della sua mediocrità, non essendo nemmeno in grado di fabbricarsele da solo, è costretto a prendere a prestito dal liberalismo tutte le sue accuse al marxismo, con l’unica differenza che il liberalismo le usa a favore della controrivoluzione, l’anarchismo a favore di una presunta rivoluzione anarchica che mai, però, ci farà vedere.

Kronštadt è una vergogna, Lenin la tomba della Rivoluzione D’Ottobre, lo stalinismo la diretta e logica conseguenza del bolscevismo, la Storia ha definitivamente condannato entrambi, e un revisionismo sui generis ha pure decretato che in Russia non vi fu una rivoluzione ma addirittura un semplice colpo di stato. Ecco, in quattro righe, un campionario di sentenze emesse più o meno in contemporanea dai tribunali borghesi e anarchici. Che quelli anarchici siano in buona fede e quelli borghesi no, non depone certo a favore dei primi, semmai rende più penose le loro arringhe. I borghesi hanno le loro ragioni di classe per pensarla così, gli anarchici hanno solo il torto di pensarla come i borghesi! Non fanno nemmeno eccezione i giudizi dei marxisti libertari, cioè degli anarchici a metà strada tra il marxismo e l’anarchia, di ritorno immancabilmente, nei momenti decisivi, all’ovile di quest’ultima. È ovvio oltreché naturale, perché principale caratteristica del marxismo-libertario è spiegare un determinato fatto storico con tutti i dettagli rivoluzionari al completo, esclusa il “documento” fondamentale: l’interpretazione teorica marxista. Proprio per questo, dopo aver salvato il salvabile, dopo aver cercato di fare i dovuti distinguo tra Lenin e Stalin, tra questo e quello, all’ultimo secondo i marxisti libertari sposano tutte le conclusioni degli anarchici. E non potrebbe essere altrimenti, il marxismo non ammette deroghe: spostati di un grado dalla sua interpretazione e le sue pagine tornano bianche o piene di geroglifici incomprensibili. Uscito dalla sua visuale di campo, più di classe che di prospettiva, non potendo più afferrarlo, il libertario sa solo più lui come fa ad essere anche marxista. Perché, in effetti, il marxismo non è libertario e non lo sarà mai, perché il marxismo-libertario è solo una contraddizione in termini. Se li si associa è appunto perché non li si usa più con significato marxista.

Alle accuse anarco-borghesi, anche in salsa libertaria, il marxismo ha già risposto mille volte con dovizia di particolari ed argomenti. Il pensiero scientifico, che va sempre avanti anche quando rettifica, vorrebbe che per proseguire la discussione gli anarchici di tutti i tipi rispondessero alle parate dei marxisti, giuste o sbagliate che siano. E non con frasette lapidarie, ma con altrettanta carne al fuoco. Non sapendolo fare, la discussione, invece di andare avanti, ristagna sulle loro sentenze. Una noia mortale per i marxisti che le hanno già ribaltate! All’ennesima riproposizione dello sceneggiato “marxisti alla sbarra!”, avremmo ben diritto a chiedere nuove puntate o che la vecchia serie abbia finalmente termine. Per parte nostra, fino a che alle nostre obiezioni non si risponderà, potremo solo fare lo sforzo di aumentare i dettagli, perché le conclusioni di fondo le abbiamo già tirate, e finché nessuno ci farà vedere per filo e per segno dove sono sbagliate, difficilmente potremo cambiarle, perché le riterremo corrette come in effetti sono. Al contrario, aumentare i dettagli può forse essere utile, a chi ancora non l’ha fatto, per prendere in considerazione le conclusioni marxiste, abbandonando finalmente quelle sbagliate che s’è messo in testa. Noi ci contiamo anche se non ci speriamo troppo!


REPRESSIONE, INTERNAZIONALISMO E LOTTA DI CLASSE

Per i marxisti, comprendere la repressione di Kronštadt e la degenerazione della Rivoluzione nello stalinismo, significa collocarla sul terreno della lotta di classe in Russia, ma soprattutto a livello internazionale. Anarchici e altri critici vogliono comprenderla invece sulla base morale ed etica degli eterni e sacri principi, e finiscono così per comprenderla al contrario, vale a dire per non comprenderla affatto. La lotta di classe esce dal campo interpretativo sostituita dalla categorie kantiane. Si punta il dito contro la repressione, pensando che sia sufficiente sottolinearne l’abominio per evitare in futuro il ripetersi di simili eventi. La Storia, nelle sue pause, lascia volentieri simili parolai alle loro discussioni inconcludenti, ma quando riprende lei, con forza, il suo discorso, ripresenta grosso modo le stesse situazioni senza che simili prese di coscienza e di posizione abbiano la benché minima possibilità di incidere sugli eventi.

Giunge sempre un momento in cui il terrore giacobino di Robespierre o quello del comunismo di guerra dei bolscevichi diventano superflui. Proseguirli a tutti i costi è un errore evidente oltreché qualcosa di reazionario. La repressione di Kronštadt, avvenuta a cavallo della presa di coscienza dei bolscevichi su questo punto, è uno di questi errori. È lo stesso Trotsky ad ammetterlo, anche se questa ammissione non è sufficiente per fargli trarre tutte le necessarie conseguenze: «nel 1921 più di una volta Lenin riconobbe apertamente che la difesa ostinata dei metodi del comunismo militare fatta dal partito era diventata un grave errore. Ma tutto ciò cambia le cose? Qualunque fossero le cause immediate o remote della ribellione di Kronštadt non si può negare che essa costituiva nella sua essenza un pericolo mortale per la dittatura del proletariato. Per il fatto di aver commesso un errore politico la rivoluzione proletaria avrebbe forse dovuto punirsi commettendo un suicidio?». La rivoluzione non si suicidò, preferì scavare la fossa ai marinai di Kronštadt. Rivoluzione e reazione non sono mai separate da compartimenti stagni, la seconda si accavalla alla prima quando è pronta per afferrarne il testimone. Da questo errore e da tanti altri, anarchici e razionalisti vari – che di razionale hanno solo il nome – fanno dipendere la sconfitta finale della rivoluzione e l’avvento dello stalinismo. I marxisti, a distanza di tanti anni, con molta più documentazione a disposizione, non hanno grandi problemi a riconoscere l’errore evidente con tutta l’enorme gravità delle conseguenze. Tuttavia, ribadiscono che la domanda fondamentale a cui bisogna rispondere è un’altra: di tutti i fattori che determinarono la sconfitta storica della Rivoluzione d’Ottobre e l’avvento dello stalinismo, quali furono quelli determinanti, quelli che pesarono di più? Soppressione della libertà, repressione delle proteste, in altri termini la dittatura del proletariato stessa fu la causa della sua sconfitta. Questa, in linea di massima, la risposta, più ingenua che ridicola, di anarchici e borghesi di tutte le tendenze. Nei casi di più aperta antipatia per i bolscevichi, si arriva addirittura a negare la rivoluzione riducendola a un banale colpo di stato, come fa ad esempio Conquest nei suoi documentatissimi libri, a documentazione imperitura della sua stupidità.

I marxisti, a differenza dei loro critici, attribuiscono la sconfitta storica dell’Ottobre alla lotta di classe, più precisamente alle sconfitte ad Est ma soprattutto ad Ovest delle rivoluzioni. Attribuire alla repressione di Kronštadt o di Machno la degenerazione dell’Ottobre, per i marxisti è come attribuire alla schiuma e non alla massa d’acqua la potenza dell’onda. Ben inteso, dice Trotsky, lo stalinismo è scaturito dal bolscevismo, ereditandone giocoforza alcuni tratti, ma non è il suo logico sviluppo, bensì la sua negazione dialettica termidoriana. E non è affatto la stessa cosa3.

Come Trotsky, la pensava in fondo anche Rosa Luxemburg, citata sempre a sproposito come il critico più lucido dei bolscevichi al potere, e il premonitore della loro degenerazione staliniana con la denuncia immediata dei loro vistosi errori. Fa fin ridere vedere l’abuso che ne fa Conquest nei frontespizi dei suoi libercoli. Conquest dimentica di dirci che l’analisi della Luxemburg poggiava sullo stesso ceppo di fondo dei bolscevichi: il marxismo. Conquest lo fa apposta perché in generale scrive per gli ignoranti di marxismo come lui che si possono bere le sue distorsioni interpretative. Ma per noi marxisti e per chi vuol capire sul serio la questione, sarà bene ricordare quel che Rosa Luxemburg davvero pensava: «la colpa degli errori dei bolscevichi la porta in ultima analisi il proletariato internazionale e innanzitutto la bassezza pertinace e senza precedenti della socialdemocrazia tedesca». E ancora: «in Russia il problema poteva solo essere posto. Non vi poteva essere risolto: esso può essere risolto solo internazionalmente»4. Come si vede, Trotsky, con la sua lotta allo stalinismo, non è che lo sviluppo del pensiero di Rosa Luxemburg ad uno stadio più avanzato del processo storico. Gli avvenimenti di Kronštadt, sono già più il sintomo del ritardo della rivoluzione internazionale che degli errori dei bolscevichi su scala nazionale. Rimanendo irrisolto il problema internazionale, l’avvenire dei bolscevichi si allontana, cedendo il posto alla reazione staliniana e poi alla controrivoluzione borghese.

Proprio come i borghesi, gli anarchici non afferrano la dialettica, e quando gli si fa notare che la Storia ha decretato il bolscevismo unico modo possibile per la rivoluzione proletaria, condannando ripetutamente e senza appello il metodo anarchico, peggiorano la situazione ribattendo che quella Storia li ha vendicati mostrando, subito dopo l’Ottobre, il fallimento anche del marxismo. In realtà, la Storia sia prima che durante che dopo l’Ottobre non fa che mostrare l’assoluta necessità del bolscevismo per quanto concerne le rivoluzioni. In un’epoca positiva lo fa con l’esempio concreto dell’Ottobre, nell’epoca successiva di reazione lo fa per via negativa e indiretta, attraverso le esperienze di rivoluzionari falliti, gli anarchici spagnoli, oppure di controrivoluzionari riusciti, i borghesi e gli stalinisti di tutti i paesi.

Concentrando tutta la Storia nella stanza dei bottoni, la logica anarchica, al pari di quella borghese, la fa discendere dall’alto in basso, dai capi alle masse e non viceversa come fanno i marxisti. La Russia sovietica è il risultato delle direttive autoritarie dei bolscevichi, anziché del movimento di massa della lotta di classe nell’arena internazionale. Mentre indicano nella repressione di Kronštadt, il fallimento del bolscevismo, nulla ci dicono di quanto avrebbe potuto essere rivitalizzato il suo iniziale successo dalla rivoluzione che avrebbero dovuto fare loro in Spagna, nel 1936, e che non son stati capaci di fare nemmeno dopo. Colpa di quei criminali semi-nazisti dei bolscevico-stalinisti, naturalmente, se non son riusciti a farla. Gli è che gli stalinisti come i borghesi sono un elemento concreto della realtà, e scagliargli addosso gli anatemi della morale anarchica non serve a farli sparire dall’orizzonte. Per batterli bisogna farci i conti ed essere pronti ad usare contro di loro più forza, autorità, violenza e terrore di quanto non siano in grado di usare loro contro i lavoratori.

Dopo aver represso le loro fortezze spagnole, prendendo a fucilate la rivoluzione, gli anarchici tornano alle loro prediche morali contro il bolscevismo persecutore dei loro fratelli marinai, dimenticando che far fuori Machno e Kronštadt portando a casa una rivoluzione è un conto, e un altro è far fuori da un’altra parte analoghe tendenze per portare a casa il franchismo. Nel primo caso il proletariato nel suo insieme avanza, nel secondo arretra. La riprova sono i tantissimi provvedimenti progressivi varati dai bolscevichi in quei primi anni gloriosi, dall’emancipazione delle donne alle 8 ore. Se in mezzo a tutto questo, vi fu anche qualche provvedimento negativo, è all’insieme che bisogna guardare, anche su scala internazionale. Dopo la Rivoluzione d’Ottobre, per esempio, sulla spinta di quel successo, furono conquistate un po’ dappertutto le 8 ore. Condannare semplicemente Kronštadt e i bolscevichi, vuol dire condannare la conquista storica delle 8 ore.

Nonostante gli errori evidenti, Kronštadt e tutto il resto, la ragione storica del bolscevismo è testimoniata dal loro sforzo internazionale per esportare la rivoluzione. La volontà tenace per quanto infruttuosa di far uscire la Rivoluzione d’Ottobre dall’isolamento, dimostra irrefutabilmente, almeno in termini marxisti e per i primi quattro congressi della III Internazionale, quanto l’azione bolscevica fosse nel suo complesso nell’interesse del proletariato mondiale. Lo scioglimento della III Internazionale, la cura scientifica con cui lo stalinismo sabotò pressoché tutte le rivoluzioni, testimoniano il passaggio di consegne da un’epoca rivoluzionaria ad una reazionaria. Tutte le repressioni staliniane avvengono sotto lo smantellamento delle conquiste dell’Ottobre, dalla risottomissione della donna all’allungamento della giornata lavorativa. Quel poco di apparentemente progressivo che avviene, specie a livello internazionale, avviene contro lo stalinismo che usa la copertura delle tradizioni dell’Ottobre per fare sistematicamente da freno al proletariato. Nell’ascesa della burocrazia, gli errori dei bolscevichi contano poco o niente, rispetto a quelli degli anarchici che hanno fatto l’impossibile per consolidarla, prima silurando la rivoluzione in Spagna andando a braccetto con Stalin, poi voltando le spalle all’Ottobre e a tutto il processo storico e a quel poco di progressivo che ancora conteneva: la proprietà statale dei mezzi di produzione e l’economia pianificata (male ma comunque pianificata). Di contro, lo stalinismo, altro non è che la negazione dialettica dei principi del leninismo. Se la Storia avesse condannato il bolscevismo, Stalin avrebbe potuto tranquillamente applicarlo per dirottare le rivoluzioni. Stalin, invece, temendo le rivoluzioni, fugge come la peste il bolscevismo, essendo l’unica strada sicura per arrivarci. Non fugge invece più di tanto l’anarchismo, col quale s’accorda, sicuro dell’approdo controrivoluzionario dei loro astratti principi.

La testa comunista di Stalin era controrivoluzionaria come la reazione, ma il suo culo poggiava le chiappe sulle conquiste storiche dell’Ottobre: la proprietà statale dei mezzi di produzione e la pianificazione economica, cioè sui prerequisiti minimi del socialismo. Non avendo senso storico, come già ricordava giustamente il compagno Gramsci, facendo di tutta un’erba un fascio, anarchici e altri idealisti voltarono le spalle all’URSS, definendola una dittatura come le altre. Incapaci di aiutare con un’altra rivoluzione le ultime due conquiste storiche dell’Ottobre, sepolte sotto la reazione di Stalin, alla fine dell’intero processo, col crollo dell’URSS, il capitalismo s’è ripreso anche i prerequisiti minimi del socialismo. E come la Rivoluzione d’Ottobre aprì la strada alla conquista internazionale delle 8 ore, la controrivoluzione del 1989-91, spalancò le porte alla precarietà e al più spaventoso e rapido arretramento che la Storia del proletariato abbia fin qui registrato.

Perciò, chi condanna il bolscevismo solo per l’episodio di Kronštadt, di Tambov, di Machno o per i guasti del comunismo di guerra, dimenticandosi l’enorme progresso del proletariato nei rapporti internazionali tra Capitale & Lavoro, all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre, dovrebbe avere il coraggio di ristagnare nel precariato fino a quando sarà in grado di farci recuperare il terreno perduto con la prima Rivoluzione della storia minore dei suoi sogni.


COLPO DI STATO?

Letteralmente impotenti come rivoluzionari, non potendo negare che noi marxisti bene o male le rivoluzioni le abbiamo fatte, alcuni anarchici riescono a mettersi il cuore in pace soltanto riducendole a banali colpi di Stato. Come se un colpo di Stato, ammesso e non concesso che gli anarchici abbiano ragione, fosse chissà quale vergogna o atto di demerito.

La lotta di classe e la conseguente teoria proprio non è di casa tra gli anarchici. Senza i sacri principi dell’etica – che è sempre etica controrivoluzionaria perché altra etica non è storicamente possibile – gli anarchici sono perduti.

La Rivoluzione d’Ottobre non fu un colpo di stato, le masse non furono affatto indifferenti come vaneggia Conquest. Basterebbero le giornate di Luglio a dimostrarlo. I bolscevichi non furono in grado di tenerle ferme e furono costretti a guidarle sotto la repressione di Kerenskij. Ed è sempre sotto la guida dei bolscevichi che fecero piazza pulita di armate bianche e Zar.

Anche ammesso però per un momento che l’Ottobre sia stato un colpo di stato, gli anarchici, al pari dei borghesi, pensano di aver risolto la questione condannando il caudillo di turno. Per i marxisti la questione è però un po’ più complessa e non si risolve con un anatema. Infatti non appena si nomina lo Stato, all’anarchico salta subito il sangue al cervello, a noi marxisti viene invece spontanea una domanda: quale Stato? E soprattutto di chi? Un colpo di Stato può essere di Stato operaio o di Stato capitalista. E così come i borghesi a parole sono contro i dittatori e nei fatti appoggiano tutti i colpi di Stato, purché siano i loro, così i marxisti in generale non hanno nulla in contrario con un colpo di Stato, purché sia proletario. Gli anarchici si azzuffano sempre per i principi, i marxisti non dimenticano che la lotta non è contro questa o quella morale, ma contro i borghesi, e se si vuole vincere bisogna sempre essere pronti ad usare una forza che sia almeno uguale e contraria a quella che usano loro contro di noi. Se domani un anarchico fosse in grado con un colpo di Stato operaio di abbattere il regime borghese, noi marxisti l’appoggeremmo in pieno, esattamente come i borghesi danno pieno appoggio a tutti i colpi di Stato che salvaguardano i loro interessi supremi. Purtroppo, senza l’apporto delle masse, la dittatura del proletariato è impossibile perché poggerebbe sul vuoto. È quello che è successo più o meno dopo la guerra civile in Russia. Dei tre milioni di operai nel 1917, ne restavano poco più di un milione nel 1921, la retroguardia5. Il proletariato aveva virtualmente cessato di esistere, e sul suo cadavere non fu difficile innestare in sua sostituzione parte del vecchio apparato e parte dei nuovi parvenu dell’Ottobre. Lo stalinismo è in fondo tutto qui. Nel clima di penuria, uno strato crescente di uomini non ne volle sapere di condividere la miseria e cominciò a reclamare per sé privilegi, fino a staccarsi in corpo burocratico al di sopra delle masse.

In sé e per sé, che il potere si sia concentrato tutto nelle mani di un unico uomo non significa niente. Il problema fondamentale è sempre nell’interesse di chi? Anarchici e borghesi sono concordi nell’attribuire automaticamente a un dittatore interessi contrapposti al popolo. Ma non è assolutamente detto. Come Stalin, anche Hitler e Mussolini eliminarono via via ogni opposizione, ma anche soli al comando rappresentarono sempre l’interesse del grande capitale. Nessun borghese sotto di loro s’è sentito escluso da liberté, fraternité, egalité, nessun capitano d’industria s’è sentito privato di chissà quali diritti. Alla stessa maniera, un solo uomo o partito al comando dello Stato proletario può benissimo rappresentare la gran massa dei lavoratori. Dipende sempre dal programma e dagli sforzi che fa per realizzarlo. L’unica differenza è che nello stato proletario, questa restrizione, indica una deviazione temporanea nella fase di transizione, e può essere giustificata solo sotto i colpi degli eventi. Se la situazione perdura, la deviazione si fa definitiva e la fase di transizione invece di procedere nell’assorbimento dello Stato nella società civile, finisce col ripresentare lo Stato con tutto il ciarpame di coercizione che si porta dietro.

All’alba del “colpo di Stato” dell’Ottobre, la dittatura del proletariato è esercitata da due partiti, il partito bolscevico e il partito dei socialisti rivoluzionari di sinistra, in pratica dagli unici partiti degli operai e dei contadini che sono stati disposti a strappare il potere ai padroni. È la pace di Brest-Litovsk che farà uscire di scena i socialisti rivoluzionari, rivoluzionari ma non troppo. I futuri dittatori, Lenin in primis, vogliono a tutti costi firmare la pace, mentre i paladini della democrazia non vedono l’ora di mandare ancora democraticamente al macello della Prima Guerra Mondiale i lavoratori. Al momento della firma scatenano atti di terrorismo in cui rischia la pelle persino Lenin. Ed è così che la democrazia guerrafondaia e dittatoriale a modo suo, viene buttata fuori dal governo dalla dittatura pacifista e democratica a modo suo. Prima di questo però, s’era sciolta a forza quella schifezza cretin-parlamentare dell’Assemblea Costituente. Chiamata a furor di popolo fin dai giorni di Febbraio, era stata rimandata fin che avevan potuto dai padroni e dai loro tirapiedi cadetti e menscevichi. Per forza, col potere in mano ai padroni l’Assemblea Costituente era pur sempre un progresso per i lavoratori. Non appena gli operai strapparono il potere ai padroni, l’Assemblea Costituente diventò la loro ultima speranza per poterlo riprendere. Di qui i miasmi e i latrati di altri paladini della democrazia e dei Liberi Soviet per il suo scioglimento a schioppettate. Quanto ai Liberi Soviet, naturalmente, vennero chiesti fin da subito un po’ da tutti non appena vennero occupati dai bolscevichi, perché non sarà inopportuno ricordare che finché i bolscevichi non ebbero la maggioranza, non ebbero alcun rappresentante nell’Esecutivo del Soviet di Pietrogrado, perché menscevichi e socialisti rivoluzionari lo impedirono con ogni mezzo. Quando non poterono più farlo – troppa la forza dei bolscevichi per dargli caccia, incitare al linciaggio e dare alle fiamme la loro stampa – come ultima carta giocarono quella col simbolo del Partito Bolscevico decapitato però dei suoi due uomini più rappresentativi: Lenin e Trotsky. In sintesi, nostra signora della democrazia accettava il Partito Bolscevico nella sua stalla, solo privato della sua anima rivoluzionaria. In altre parole, venduto all’inferno del capitalismo. Il Partito Bolscevico era però incorruttibile, almeno fino a quel momento, e non poteva essere comprato. Di qui il suo inestimabile, irripetibile valore. Proprio per questo emerge in questo covo di serpenti e di gente indegna e senza valore, come l’unico Partito con una dirittura morale che non sia la solita.

Accanto al Partito Bolscevico, per onestà, sembra giusto ricordare Martov, menscevico di sinistra, che secondo Serge era l’unico rappresentante, con la sua tendenza, di un socialismo sinceramente democratico. Martov era ancora al suo posto nel 1920, quando la Rivoluzione aveva varato un altro storico provvedimento, l’abolizione della pena di morte, convinta d’essersi lasciata il peggio alle spalle. L’invasione dell’Ucraina da parte del polacco Pilsudski ricacciò la Russia in un clima da tregenda. Da lì non si sarebbe più rialzata tanto facilmente. Nel giro di un anno opposizioni non furono più tollerate, né costruttive né distruttive. Martov fu costretto all’esilio insieme ad anarchici e a tanti altri. Fino ad allora, gli anarchici, si erano confusi con qualche marinaio dalla testa calda di cui abbiamo già parlato. Kronštadt e Machno, dopo essersi distinti come tanti altri per razzie, espropri e sacrosante fucilazioni, aspettavano il 1921 per ricominciare la litania contro i bolscevichi, interrotta da cadetti e menscevichi di destra, in nome della libertà e della democrazia. La dittatura si stava restringendo sempre più attorno a un uomo solo, ma ci vorranno ancora parecchi anni perché si trasformi in qualcosa di reazionario, per ora era ancora molto progressiva. Per ora, la dittatura del Partito Bolscevico, pur con qualche smagliatura, era la dittatura del proletariato. La gamba sinistra, seppur con un principio di cancrena, era anche la gamba destra.


LA TERZA RIVOLUZIONE CONTRO LA SECONDA:

IL MARZO DEL ’21 CONTRO L’OTTOBRE DEL ’17

Chiunque abbia letto gli scritti dei più grandi rivoluzionari, avrà notato una caratteristica in comune: la coscienza che in una rivoluzione non siano possibili vie di mezzo, o si sta da una parte, o si sta dall’altra. Chi pretende di stare in una posizione intermedia prima o poi entra in conflitto con una delle due parti, generalmente quella che sta vincendo, ed è costretta a battersi o ad arrendersi.

Lasciando Cuba, nella sua famosa lettera a Fidel Castro, il Che ricorda che è proprio così, «in una rivoluzione, se è vera, o si vince o si muore».

Nel Marzo del 1921, Lenin, a un passo dalla repressione di Kronštadt, nel discorso di chiusura sul dibattito con «l’opposizione operaia», concludeva che «l’opposizione è finita […] delle opposizioni non ne vogliamo più sapere […] Abbiamo passato parecchio tempo a discutere e debbo dire che ora è molto meglio “discutere con i fucili” […] Adesso non ci vuole opposizione, compagni, non è il momento! O da questa parte, o dall’altra, con un fucile, e non con l’opposizione»6.

Mentre pronunciava queste parole, quasi in contemporanea, sull’altro versante, nella fortezza di Kronštadt, i marinai rispondevano: «No, non sono possibili mezzi termini. Bisogna vincere o morire!»7.

Kronštadt si era spostata appena un pelino a destra, forse addirittura un pelino a sinistra dei bolscevichi, per gli ideali anarchici basta per definirli rivoluzionari, per i marxisti come me anche, ma non è sufficiente perché pretendano di essere al di fuori della legge suprema della rivoluzione: o di qua o di là! Spostandosi anche solo di un grado dai bolscevichi, si schierarono contro e persero la loro battaglia. Dovevano vincere o morire. Morirono e vinsero i bolscevichi. Pochi però hanno riflettuto sul fatto che in quei giorni si videro all’opera anche i sacri principi spontanei contro l’autorità della Rivoluzione.

La Rivoluzione d’Ottobre, la Seconda Rivoluzione, aveva cominciato suppergiù con liberi soviet, controllo operaio nelle fabbriche, terra ai contadini e libertà di stampa. Poi però aveva dovuto scontrarsi a muso duro con la cruda realtà della situazione. L’impreparazione degli operai, la controrivoluzione bianca e le carestie non avevano dato tregua, costringendo i bolscevichi a un giro di vite e a una centralizzazione sempre più stretta. È solo in questo modo che i bolscevichi uscirono vivi da quel sabba di streghe, salvando la loro Rivoluzione.

La Terza Rivoluzione, cominciò anch’essa, sulla carta, grosso modo così. Ma non appena passò dalla carta ai fucili, non si rese conto di applicare in più di un aspetto il metodo bolscevico. Al primo sparo serio, gli oppositori bolscevichi che stavano nella fortezza, si trovarono chiusi nella prigione, privati della libertà di parola, di stampa e di riunione. A Kronštadt, l’opposizione ai marinari, era finita proprio come era finita al X Congresso del Partito Bolscevico per l’Opposizione Operaia della compagna Kollontaj.

La repressione fu fulminea, questo forse impedì ai marinai di dissacrare altri imprescindibili principi. Se si fosse estesa a Pietrogrado e oltre la rivolta, oltreché nel tempo, Kronštadt avrebbe forse fatto in tempo a vedere anche la nuova soppressione del controllo operaio non in grado di controllare nulla come nel 1917, e il ripristino alla svelta dell’odiato taylorismo, unico modo scientifico di aumentare la produzione in un momento di grande penuria, e anche unico sistema, evoluto in toyotismo, che le prossime rivoluzioni dovranno applicare fin da subito se vorranno liberarsi il prima possibile dalla schiavitù del lavoro. Infatti, il taylorismo-toyotismo in uno stato capitalista serve per sfruttare a sangue il lavoro, e in uno stato operaio per economizzarlo al massimo. Questo ai marinai sfuggiva. Se fosse durata, Kronštadt, avrebbe forse anche trovato il tempo per riflettere sul suo strano concetto di democrazia in tempo di guerra. Forse capendo che metà degli operai di una fabbrica, i migliori, dovevano partire per il fronte, non era proprio il caso che nelle retrovie, chi doveva coprigli le spalle si mettesse a perdere del tempo, discutendo di democrazia e di libere elezioni. Di democrazia si sarebbe parlato al ritorno del popolo in armi, prima mai.

Kronštadt non fece in tempo a riflettere su queste cose, il socialismo scientifico soffocò quello istintivo ma al prezzo, forse, di bruciarsi le sue ultime cartucce e di venir di lì a poco travolto anch’esso dallo stalinismo. In quel frangente dimostrò però tutta la sua superiorità. I bolscevichi furono superiori ai marinai di Kronštadt per la concezione più matura e tecnologica del socialismo. Furono superiori in materia di ostaggi, laddove i marinai ne fecero anche lì un fatto morale e non di forza. I marinai non vollero togliere un capello ai prigionieri rossi, i bolscevichi dissero subito che per uno di loro, avrebbero passato per le armi dieci ribelli. Furono anche superiori, i bolscevichi, sul piano militare, laddove seppero sfruttare gli esperti generali bianchi al loro servizio, mentre i marinai, per presunzione, ne scartarono i giusti consigli e andarono incontro molto più rapidamente al loro destino. I bolscevichi furono infine superiori nell’organizzazione e quindi nel sostegno che ebbero. Lo spontaneismo di Kronštadt, provò a collegarsi spontaneamente con gli operai di Pietrogrado. L’Opposizione Operaia all’interno del Partito Bolscevico, che sosteneva di essere saldata in classe con gli operai di Pietrogrado, dopo aver difeso Kronštadt, si unì al Partito Bolscevico nella repressione. Gli operai di Pietrogrado, saldati in classe con sé stessi, lasciarono soli i marinai di Kronštadt. Se questo non vuol dire che appoggiarono i bolscevichi, significa comunque che non stettero dalla parte dei marinai. Al contrario, passarono proprio dalla parte dei bolscevichi molti marinai di Kronštadt, quando si accorso che i principali loro capi se l’erano svignata in Finlandia un momento prima della disfatta. Anche come capi, dunque, i marinai non furono all’altezza dei bolscevichi.

La Seconda Rivoluzione, la Rivoluzione d’Ottobre, divorò i marinai che credevano di avere in grembo la Terza, dimostrando che in una guerra civile non c’è spazio per tre contendenti ma solo per due: rivoluzione e controrivoluzione, rossi e bianchi..

Una Rivoluzione più grande può papparsi una rivoluzione più piccola, in miniatura, ma in generale una rivoluzione non divora mai i suoi figli, se li pappa sempre tutti, purtroppo, la controrivoluzione che sopraggiunge subito dopo.

Per gli anarchici, a Kronštadt la Rivoluzione è morta, per altri fu terreno di appoggio per lo stalinismo. Sicuramente in parte è vero, ma anche se agli anarchici dispiacerà, Stalin, per il suo regno, non si appoggiò solo alle norme coercitive ereditate dai bolscevichi. Il famoso divieto delle frazioni varato in quei giorni al X Congresso del Partito Bolscevico aiutò certamente l’ascesa di Stalin. Ma non è detto che la repressione di Kronštadt gli sia stata d’aiuto più del suo primitivismo. Infatti, Stalin, non appena poté liberarsi della guardia di Lenin, fece subito leva sugli elementi più amorfi, ingenui e meno preparati. E non si può non sottolineare almeno due caratteriste dello stalinismo che furono presenti anche nei marinai di Kronštadt. Come nella maggior parte dei contadini, anche nei marinai serpeggiava un vago antisemitismo. In periodi grami di penuria, era facile scaricare tutti i problemi sugli ebrei. E anche Stalin usò il mito del “Boiardo malvagio” nei momenti di maggior difficoltà. La rabbia contro Trotsky, a Kronštadt si esprimeva non di rado sottolineando «l’ultimatum dell’ebreo Trotsky». Ma l’altro aspetto ancora più importante su cui certamente fece leva Stalin, è lo scarso internazionalismo dei ribelli. Sebbene i marinai si dichiarassero internazionalisti, in realtà non andarono mai molto più in là di un socialismo nazionale. Il socialismo in un solo paese, in fondo, gli bastava anche se era ancora di là da venire. E non è detto quindi che dopo la repressione, quel che rimaneva di Kronštadt, non si sia poi ritrovato nella Leva Lenin voluta da Stalin per drogare il Partito con elementi amorfi pronti a seguire ed approvare una linea più semplice e meno complessa di quella originaria dei bolscevichi.


IL ROMANZO DI KRONŠTADT

Che sia difficile trovare una risposta soddisfacente al problema Kronštadt, è testimoniato come sempre dalla letteratura per così dire d’avanguardia. Se ci fosse una soluzione pratica per i casi come Kronštadt, ci sarebbe anche in teoria.

Il pensiero anarchico nasce prima delle Rivoluzioni, è un prodotto comunque originale del movimento operaio. Giusto o sbagliato che sia, ha una sua dignità storica. Con tutte le sue versioni è, in fondo, in tema di rivoluzioni, l’unica alternativa al marxismo che non sia ridicola prima ancora di presentarsi al cospetto della classe operaia. Diverso è invece il discorso con tutte quelle correnti e sottocorrenti, nate molto dopo se non addirittura adesso, che si propongono per l’abolizione del capitalismo senza alcun legame vero e proprio con la classe operaia, e che pensano di poter criticare il bolscevismo dall’alto della loro scienza infusa. Non sono le solite accuse che dovrebbero preoccupare i sostenitori dei bolscevichi, ma la povertà delle soluzioni al problema a dover mettere in guardia gli anarchici.

Se analizziamo una delle più vistose di queste correnti, la setta di Socialismo Rivoluzionario, scopriremo che i nuovi apostoli han risolto il problema di Kronštadt riproponendo il solito vecchio vangelo, fatto di comunanza, fratellanza e umanesimo. In queste tre caratteristiche, la sintesi del nuovo Spirito Santo che dovrebbe fare la Rivoluzione.

I socialisti rivoluzionari di oggi, ristampano le Opere Scelte di Trotsky con nostra somma gratitudine, ma nelle loro introduzioni ci fanno sapere di aver preso le distanze e di essere ormai lontanissimi dal comandante dell’Armata Rossa. I motivi, è presto detto, stanno nella concezione statalista della Rivoluzione, nel determinismo marxiano che non ha retto alla prova della Storia e naturalmente nella repressione di Kronštadt. Di qui tutta una serie di strani libri che ci invitano a stare dalla parte della rivoluzione e contro i bolscevichi, e che in termini marxisti significa, né più né meno, stare dalla parte della rivoluzione contro la rivoluzione! Non stupiscono simili ridicolaggini, quel che fa ridere è che le nuove soluzioni umaniste si presentino come valide per il solo fatto d’essere state enunciate. Che debbano essere messe loro alla prova della Storia, prima di buttare a mare quelle presunte malriuscite, ai nuovi socialisti rivoluzionari non passa neanche per l’anticamera del cervello. Che la loro nuova fratellanza e il loro nuovo spirito rivoluzionario non abbiano nulla da offrire al nostro futuro, perché la loro soluzione è già tutta contenuta nel presente del loro movimento, sfugge agli adepti. Al terrore rosso e al massacro di Kronštadt, i socialisti rivoluzionari di oggi hanno rimediato con la nuova fratellanza dedita allo scambio umano, alla non-violenza e alla cultura, il tutto rigorosamente circoscritto all’interno della loro setta esclusiva. Sfido io che siano pieni di soldi. Quale capitalista non è in fondo felice di sborsare due oboli per un movimento anti-sistema, così innocuo che pensa che per sovvertirlo basti ritagliarsi una nicchia al suo interno in cui recitare i suoi periodici sermoni a vecchi e nuovi adepti?

E questa sarebbe la soluzione, solita, agli errori dei bolscevichi e alla repressione di Kronštadt. Il che riconferma, per l’ennesima volta, che un’altra soluzione per Kronštadt non c’è, perché anche le prossime Kronštadt, purtroppo, o si risolveranno col sangue, o resteranno irrisolte.


MARZO È MORTO, EVVIVA L’OTTOBRE!

Evitando Kronštadt, forse i bolscevichi avrebbero resistito più a lungo. Forse a livello internazionale avrebbero avuto più appoggio. Perché è chiaro come ogni errore rafforzi l’avversario. Ma evitare un errore anche grave non significa che si possano evitare tutti gli errori.

Le prossime rivoluzioni avverranno su una base tecnologica molto più avanzata. L’estrema miseria degli anni eroici della guerra civile, seguiti dopo l’Ottobre, forse potrà essere evitata con un pizzico di accortezza in più. È un augurio più che un’ipotesi. Di certo c’è, per ora, che le prossime rivoluzioni o saranno marxiste come le altre o non saranno. E se saranno marxiste dovranno comunque prepararsi all’eventualità d’una Kronštadt. Speriamo che l’esperienza d’una repressione serva per non ripeterla. Ma qualora ci tocchi di nuovo, faremo ancora il nostro dovere, sperando di adempierlo con meno danno. Sarebbe già un progresso. Dopo, calmate le acque, spenti rancori e maligni spiriti di vendetta, ricorderemo i marinari di tutte le Kronštadt, passate e future, come rivoluzionari anch’essi, caduti spontaneamente sotto i colpi della disciplina rivoluzionaria. Per loro cercheremo di non avere calunnie ma le parole oltremodo sensate dello schiavista in nome della libertà Thomas Jefferson, pronunciate in difesa del terrore: «molti colpevoli furono eliminati senza previo giudizio, e, con essi, alcuni innocenti. Questi io li rimpiango come chiunque altro […] Ma li rimpiango come li rimpiangerei se fossero caduti in battaglia».

Evitare l’inevitabile è impossibile. Condirlo con vendette a tre mesi di distanza, sì. Di più non si può fare, perché un partito rivoluzionario, come diceva Bordiga, una volta giunto al potere deve fare solo una cosa: battersi per non perderlo. E per non perderlo deve assolutamente vincere.

Ogni altro discorso o modo di impostare la questione, è controrivoluzionario.



Stazione dei Celti, Aprile 2011.




1 Vedi, Lev Trotsky, La questione di Kronštadt.

2 Per questa breve ricostruzione mi sono basato essenzialmente sul libro di Paul Avrich, edito da Mondadori, col titolo Kronstadt 1921, e sugli scritti di Victor Serge pubblicati dalla Prospettiva Edizioni col titolo Socialismo e totalitarismo. Alcune espressioni specifiche tratte da queste due pubblicazioni sono messe in corsivo. Ricordo che il libro di Avrich è tutto sommato considerato quello definitivo sulla questione, mentre Serge è stato il più lucido e intellettualmente onesto dei critici di Trotsky.

3 Cfr. Bolscevismo e stalinismo, in Lev Trotsky, Opere Scelte Vol. VI, Prospettiva Edizioni, Roma 2000.

4 Rosa Luxemburg, La Rivoluzione russa, Massari editore, Bolsena 2004

5 Cfr Arturo Peregalli, Stalinismo, nascita e affermazione di un regime, Graphos, Genova 1993.

6 Cfr. Lenin, Opere Scelte Vol VI, Editori riuniti, Roma 1975. L’ordine con cui Lenin esprime quelle battute è un po’ diverso, ma così mi è sembrato più incisivo senza per questo aver stravolto nulla.

7 Dal giornale Izvestija, pubblicato in quei giorni nella fortezza, ora in Kronstadt, a cura di Federico Gattolin Prospettiva Edizioni, Roma 2005.

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